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| 01901-1905
| Dalle relazioni pervenuteci da parecchi luoghi e pubblicate sul nostro giornale, si è potuto vedere con quanto favore sia stata accolta l’istituzione della Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso. E il favore è veramente giustificato. Anzitutto la Cassa centrale provvede agli operai ammalati in modo molto più vantaggioso che le presenti casse distrettuali, giacché il contributo che gli operai devono versare è più piccolo e il sussidio che ne ricevono è maggiore. Per esempio gli operai dai 31 ai 50 anni con cor. 1.06 di contributo mensile ricevono in caso di malattia, oltre l’assistenza medica le medicine, un sussidio di una corona al giorno; con cor. 1.66 di contributo mensile, un sussidio giornaliero di 2 corone, e con un contributo mensile di cor. 2.86 un sussidio giornaliero di 4 corone, sempre, s’intende, oltre l’assistenza medica e le medicine. Di più: mentre le casse distrettuali non passano il sussidio che per 20 settimane, la Cassa centrale lo passa per 52 settimane, e precisamente per 26 nella cifra suesposta, per altre 26 nella metà nell’ammontare della stessa. Ma la cassa centrale offre altri e ben maggiori vantaggi. Essa non accoglie nel suo seno soltanto gli operai ma anche i piccoli padroni, i quali, in caso di malattia, si trovano ben spesso in strette peggiori degli operai medesimi. Inoltre, allargando la cerchia dei propri soci anche ai contadini, rende partecipe dei benefici dell’assicurazione la classe agricola, la quale, per questo riguardo, rimase finora abbandonata. Chi sa quale sia l’importanza sociale di questa classe, specialmente in paesi come il nostro Trentino; chi sa ancora in quale misera condizione si trovi spesso ridotto il contadino ammalato, non potrà fare a meno di comprendere come la Cassa centrale risponda a una vera necessità e possa essere apportatrice di immenso bene economico e morale. Infine la Cassa centrale nella sua vasta sfera comprende, oltre gli operai, i piccoli possidenti e gli agricoltori, anche ogni altra persona di sentimenti e di condotta cristiana, ed è così che rende possibile un forte sussidio di malattia con contributi tenui, e che applica i frutti della previdenza e dell’associazione con una vastità che alle altre casse per ammalati è affatto sconosciuta. Ma la Cassa centrale non provvede soltanto alle più svariate classi sociali e a un numero stragrande di persone; provvede anche a molteplici bisogni. Lasciando da parte che ai contributi sopra accennati corrisponde anche un piccolo sussidio ai superstiti in caso di morte dell’infermo, essa ha rami speciali di assicurazione per il caso di morte, per la vecchiaia, per l’invalidità, per le vedove, per gli orfani, per terze persone che l’assicurante vuole beneficare solidamente. Si veda quale immenso campo di benefici sociali si schiude in questo modo al nuovo istituto. Non è quindi meraviglia che tutti coloro che ne presero finora un’esatta cognizione, lo abbiamo altamente lodato e vi abbiano dato il proprio nome, e noi speriamo che fra non molto si possa passare alla formale costituzione della Cassa centrale. Intanto tutti coloro cui sta a cuore il buon esito e la pronta entrata in attività della Cassa, ne studino gli statuti, provvedano perché in apposite conferenze siano quanto prima spiegati al popolo e specialmente ai membri delle Società agricole ed operaie cattoliche; spediscano premurosamente le adesioni raccolte e così fra poco gli operai, gli agricoltori, i piccoli possidenti, il laicato ed il clero (chè anche questo può approfittare con utilità della Cassa centrale). Potranno sentire gli immediati e benefici effetti che la Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso, è destinata a portare. |
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| 01901-1905
| Essendo il numero delle adesioni pervenute al Comitato promotore già considerevole, si passò alla nomina della prima Direzione che riuscì così composta: d.r Giuseppe Cappelletti avvocato, sac. Guido d.r de Gentili pubblicista, Valeriano Frizzera impiegato, Lunelli Cesare tagliapietra, Cappelletti Giuseppe tipografo, Vitti Andrea falegname, Amech Domenico contadino, Egenter Alberto sellaio e Gadotti Francesco calzolaio, e oggidì, fu prodotta all’onor. Municipio l’insinuazione per la registrazione dello statuto e delle firme della Direzione, chiedendo in pari tempo che venisse ritenuta parificata la erigenda cassa alle casse distrettuali per operai ammalati a senso del § 7 della Legge 16 luglio 1892. Il Municipio in base al § 6 dell’ordinanza ministeriale 1° dicembre 1892 N. 203 deve consegnare alla Luogotenenza la domanda entro tre giorni dalla presentazione cioè pel 3 marzo pros. E così pel 28 aprile 1901 la cassa si riterrà registrata, quando non vengano fatte eccezioni dall’autorità superiore, ciò che si ritiene inverosimile essendo stato lo Statuto accuratamente elaborato in base allo statuto modello pubblicato dal Ministero dell’interno e in base alle regole pubblicate nel manuale del sig. Riccardo Kaan del 1895. La Direzione spera quindi con sicurezza di poter mettere in attività la Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso ancora nel maggio p.v. e raccomanda alle Società agricolo-operaie cattoliche di inviare le adesioni al più presto possibile e mano mano che vengono raccolte. |
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| 01901-1905
| Questa mattina si è tenuto il Congresso Straordinario del Comitato Diocesano Trentino per l’azione cattolica. Comparvero circa un’ottantina di soci, venuti anche da lontano. Era presente anche un deputato della quinta Curia Don Baldassare Delugan . Giunsero telegrammi di adesione e di augurio del m. rev. Don Giacinto Vedovelli, parroco di Vigo d’Anaunia, e del maestro dirigente Roberto Rocco Tonolli. Alle nove il Presidente mons. Gio. Batta Inama , dato ai soci il cordiale saluto e rallegratosi per il numeroso intervento, esprimeva i motivi e l’oggetto della adunanza. Quindi in una breve relazione espose quanto fu fatto per la compera dei fabbricati del Seminario, presentò il piano di riduzione della casa del vecchio ginnasio allo scopo di farne la sede delle associazioni cattoliche e domandò l’autorizzazione a incontrare le spese che all’uopo fossero necessarie. La relazione fu accolta con viva soddisfazione e con plauso e le proposte della direzione furono approvate all’unanimità. Quindi mons. Inama diede la parola al Vicepresidente d.r Giuseppe Cappelletti il quale espose i cambiamenti da introdursi nel § 3 dello Statuto per rendere possibile l’allargamento dell’attività del Comitato e riferì sui passi da farsi e delle spese da incontrarsi per dare l’antico valore ai detti cambiamenti. Il Congresso annuì unanime alla relazione e alle proposte. Il Vice dr. Cappelletti sottopose poi al Congresso le mutazioni da introdursi nel § 14 delle statuto riguardante la composizione della direzione, composizione che, come era organizzata finora, rendeva il funzionamento della Direzione alquanto difficile e a volte un po’ lento ai desideri e al bisogno. Disse altresì delle Delegazioni e del piano di procurare alle stesse una uguale rappresentanza del Comitato. Chiuse col presentare le proposte concrete della Direzione che furono accolte con generale consenso . Per incarico della Direzione il consigliere rev. D.r Guido de Gentili parlò dello sviluppo e della diffusione maggiore che specialmente nelle circostanze odierne deve darsi alla stampa cattolica. In questo riguardo richiamò l’attenzione del Congresso sul valido aiuto che potrebbero e dovrebbero prestare le Delegazioni, e invitò caldamente i soci del Comitato a volerle costituire quanto prima in base all’apposito regolamento elaborato dalla Direzione ove già non fossero state costituite, e a volerle quanto prima convocare ad adunanza, ove già sono formate e pronte e a cominciare il loro lavoro. Nel Congresso, profondamente compreso dei gravi bisogni dell’ora presente e della necessità di una viva ed energica azione cattolica sociale, si mostrò in perfetto accordo con le idee esposte e si spera che quanto prima si abbiano a vedere i frutti che debbono arrecare le Delegazioni che dopo le esperienze di due anni furono sostituite alle primitive Commissioni. Alle 10 e mezza, dopo brevi e sentite parole di mons. Inama si chiuse il Congresso che lasciò in tutti la migliore impressione per i progressi del Comitato, per la viva partecipazione che i soci prendono alla sua azione e per i frutti sempre migliori che da questa a buona ragione si aspettano. Ora, come fu accennato ripetutamente nel Congresso sta specialmente nelle Delegazioni di spiegare la loro attività nelle singole vallate, studiandone esattamente i bisogni, riferendone alla Direzione e provvedendo d’accordo con essa all’erezione, allo sviluppo, e alla diffusione delle società dirette a istruire e ad educare il popolo, a migliorarne le condizioni economiche e a renderlo indipendente, a procurargli maestri che corrispondano ai suoi sentimenti, a salvaguardare la gioventù dai pericoli: in una parola a difenderne e promuoverne tutti gli interessi materiali e morali. |
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| 01901-1905
| Trento, 25 maggio Chi avrebbe detto che la festa delle società operaie cattoliche avrebbe fatta un’impressione così profonda da occupare la stampa trentina di ogni colore per una decina di giorni? Eppure ciò che non si aspettava, è avvenuto: segno evidente che quella festa ebbe l’importanza d’un vero avvenimento sociale, che attesta l’esistenza e la forza e la disciplinatezza della giovane democrazia cristiana del Trentino. Rileggendo un dopo l’altro i numeri del Popolo e dell’Alto Adige, si vede chiaro l’imbarazzo dei socialisti e dei liberali. Ora cercano di diminuire l’importanza della festa; ora chiamano a raccolta i loro fidi come se Annibale stesse alla porte; ora mostrano di ridere e di scherzare, ora sputano fiele e veleno; ora dichiarano – e questo è il caso dei liberali – che essi corte non ne fanno che di carnevale; ora si sforzano di far passare come una spettacolosa dimostrazione nazionale quale l’accoglienza fatta da una truppa non soverchio numerosa di gente raccogliticcia e di vario colore ai ginnastici reduci da Bologna . Ah, povero Alto Adige! Se lunedì sera fossero stati per le vie di Trento da 3500 a 4000 liberali, i capoccia del tuo partito non avrebbero dovuto mesi fa subire l’umiliazione di mendicare umilmente i voti dei clericali per impedire nei ballottaggi della V curia la vittoria dei socialisti. Ma la memoria di quei giorni sembra interamente spenta nella mente dei liberali di Trento che adesso vorrebbero andar uniti coi socialisti contro i cattolici; anzi, parlando con maggiore esattezza, sgambettano puerilmente dietro i socialisti, come il bimbo dietro la mamma al cui grembiale si tiene attaccato. Questa è infatti l’impressione che destano gli articoli scritti negli ultimi giorni dall’Alto Adige il quale non fa che sboccare e ripetere le frasi del Popolo. Osservate un po’. Il Popolo, alla vigilia del 16 maggio , rievoca la memoria del Taxil e della Vaughan e l’Alto Adige fedele scolaretto, ne ripete dopo la festa la meravigliosa trovata. Il Popolo non vede nel corteo delle società operaie che vecchiotti e ragazzetti, e poco dopo l’Alto Adige pappagallamente gli fa eco. Il Popolo, non curando menomamente il fatto che alla sfilata del primo maggio le vie erano quasi deserte e a quelle del 16 zeppe di spettatori, dice che la cittadinanza sopportò la dimostrazione clericale; e l’Alto Adige, incapace di dire qualche cosa di proprio, fuorché quelli spropositi di cronaca, riporta anche questa circostanza, vista attraverso gli occhiali del Popolo. Ma ciò che merita speciale attenzione è il disprezzo con cui il Popolo prima e poi, fedele alla consegna, l’Alto Adige parlarono delle persone che presero parte alla sfilata . Primo impegno del Popolo fu naturalmente di diminuire a tutta possa il numero dei cittadini che marciavano dietro il vessillo della Società operaia cattolica di Trento . Ma tutte le sue chiacchiere non distruggono il fatto che quel vessillo era seguito francamente da quasi trecento operai, quanti i socialisti non furono capaci di racimolare nella città per il loro corteo di quindici giorni prima. Sta bene notare, affinché non si creda che Trento sia proprio tutta liberale o socialista, e affinché certi scrittori da strapazzo non credano di poter far giorno della notte e notte del giorno e chiudere la bocca a tutti colla spudoratezza delle loro asserzioni. A Trento c’è un nucleo di operai che si vantano ancora di essere cattolici e v’è un nucleo di cittadini che vedono con simpatia ed appoggiano efficacemente questi buoni operai. Se finora su molti altri poterono più le iraconde diatribe, le dimostrazioni chiassose, lo spirito irreligioso e turbolento di rossi tribuni, v’è però a sperare che all’opera pacifica ma intelligente e costante dei cattolici saranno riserbati buoni successi e già fin d’ora chi mira con animo tranquillo ciò che hanno fatto i socialisti e ciò che hanno fatto i cattolici, riconosce a quelli il primato nelle monellate, a questi nel lavoro serio e proficuo. Ridotto ai minimi termini il nucleo cittadino, il Popolo trattò gli operai delle vallate da poco meno che cenciosi e ignorantissimi paria; e anche qui l’Alto Adige gli corse dietro. Sentite un po’ la sua prosa, e se sa troppo di lezzo, turatevi, leggendo, il naso. «Mentre infatti nella nostra città una incosciente schiera di poveri illusi – guidati dall’altrui malafede e da un’innata mania superstiziosa – girava quasi aspirando alla palma di una gloria a loro incompresa 1) – pochi ma coscienti e coscienziosi nostri giovani facevano nella turrita Bologna sventolare onorato il vessillo sul quale puro e terso stava il nome bello di Trento. E con quel vessillo, al quale avevano aggiunto l’alloro di altre vittorie, ritornarono ben meritando il plauso della terra natia. Ritornarono quasi a testimoniare che l’irrevocabile cammino anche il nostro paese deve assolutamente percorrerlo, e che la meta segnata dal progresso e dalla civiltà deve in epoca non troppo lontana essere e da tutti e da per tutto raggiunta». Così il «comporretto» del cronista dell’Alto Adige, che antepone i salti e le capriole di questi quattro ginnastici all’espressione solenne di duemila trentini, figli del lavoro, e offende questi nei loro sentimenti più sacri e si sforza di vomitare velenosa bava su coloro che hanno avviato il popolo trentino sulla via dell’educazione civile e del progresso economico e sociale. Povero diavolo! Crede forse lui di pascere il popolo con le trasparenti frase di un bolso irredentismo? È troppo poco; anzi è troppo per un popolo che è attaccato alle legittime autorità e che ha in uggia quel partito che al suono di «nazionalità» lo ha pelato e dissanguato e roso fino alle ossa. Del resto il Popolo e l’Alto Adige credono di avvantaggiare il loro partito col mostrare disprezzo per gli abitanti delle vallate, si sbagliano di grosso. Gli abitanti delle vallate, messi a cognizione del linguaggio usato verso di loro dai socialisti e, sull’esempio di questi, dai liberali, si metteranno sempre più in guardia contro gli uni e gli altri, e sapranno che conto fare di quei partiti che non li cercano e non apprezzano se non quando possono fare di essi strumento alle loro mire private. Sotto questo riguardo c’è da rallegrarsi del contegno del Popolo e dell’Alto Adige e da ringraziarli di cuore perché si sono mostrati nella loro vera faccia al popolo trentino. Se poi ci sia da rallegrarsene anche per la città e la sua buona armonia colla grande maggioranza del paese, è un’altra questione che, considerata a mente tranquilla e serena, potrebbe convincere le persone più assennate che non è cosa buona farsi pedissequi del Popolo e dei suoi ispiratori. Un cittadino. 1) Variante dilavata di un pensiero del Popolo. |
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| 01901-1905
| Il telegrafo vi avrà portata la risposta tanto attesa del ministro dell’istruzione . L’impressione che ha fatto sugli studenti è varia . Chi pensa all’entusiasmo che ha riacceso in questi ultimi giorni la lotta ed è quello che egli si riprometteva, trova la risposta fredda, evasiva, inconcludente. Chi conosce però d’altro canto la situazione parlamentare e più ancora la situazione difficile in cui era – di fronte alla suscettibilità dei pantedeschi – il ministro trova la risposta soddisfacente; ed io, francamente, sono fra questi ultimi. L’importante era di ottenere una dichiarazione sulle intenzioni del governo e questa dichiarazione (sempre a patto che si ricordi di essere in Austria) deve parere ad ognuno abbastanza chiara. Il ministro in fin dei conti è venuto a dire che (erforderlichermassen) all’occorrenza presenterà un progetto alla Camera per una propria università. L’intenzione dunque c’è, e l’«occorrenza» penseranno i deputati o in genere gli italiani a crearla. A questa risposta gli studenti erano su per giù preparati dal discorso del baron Malfatti tenuto iersera all’adunanza generale degli studenti. L’onorevole osservava appunto che se la risposta sonasse come... press’a poco suonò, si dovrebbe starne contenti. All’Adunanza erano comparsi fra entusiastici applausi anche il professor Pacchioni di Innsbruck, il prof. Zamboni e il dr. onor. Bennati. Il prof. Pacchioni disse brevi parole di entusiasmo e di speranza. Sperava che presto la lotta finirebbe, o almeno avrebbe una sosta. E così sarà! Una sosta! Ma se i fatti non corrisponderanno alle promesse, ritorneremo con entusiasmo alla lotta! gf. |
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| 01901-1905
| Alla riunione popolare, convocata dai socialisti Gerin e Ottolini, intervennero molti operai e studenti . Si apre il comizio alle ore 10 ant. A presidente viene eletto Ottolini. Egli spiega le ragioni della convocazione da parte operaia: un’università italiana eleverà anche la cultura del proletariato. Dopo lui prende la parola il referente Gerin. Quando si incominciò a spargere il seme socialista, le classi colte accolsero in sul principio il movimento con simpatia. Più tardi, di fronte al carattere internazionale dello stesso, il socialismo fu combattuto come antipatriottico e antinazionale. Ora noi vogliamo mostrare che la taccia è una calunnia, interessandoci della questione universitaria la quale non è questione di classe, ma dell’intera nazione. Del resto noi la mettiamo anche tra le questioni economiche. La nostra iniziativa suona anche protesta contro il monopolio intellettuale, e contro le restrizioni della libertà d’insegnamento. Nelle scuole popolari si insegna il catechismo e la storia sacra; solo all’università si insegna liberamente la scienza, e di questa ha bisogno anche il proletariato. Solo allora sarà possibile la vera civiltà. Quando il proletariato organizzato sarà arrivato alla vittoria decisiva, troverà fra le istituzioni che devono restare, anche l’università. Noi facciamo anche questione di solidarietà, perché anche i professori, i medici, ecc. sono lavoratori. Infine l’università servirà per combattere la reazione, poiché dogma e scienza non possono andare d’accordo. Faccio voti che la scienza nella ventura università sia scienza popolare e non officiale e che fra l’ortodossia in economia politica si imponga il marxismo. – L’oratore fa poi la storia della lotta universitaria negli ultimi tempi, rileva la concordia dei partiti e la slealtà degli avversari. Prelegge quindi all’assemblea un ordine del giorno. Dopo il Gerin parla lo stud. Liebmann a nome degli studenti italiani. Ringrazia gli operai per il loro interessamento, dimostrato anche in genere dal partito in Innsbruck. Rileva il metodo falso degli slavi per il conseguimento dei loro desideri, che, in quanto a principio, noi non contestiamo. Respinge e dimostra false le insinuazioni del prof. Waldner e della Ostdeutsche Rundschau. Lo studente Zuccali, come socialista, porta un saluto speciale agli operai organizzati, in nome degli studenti socialisti. Lo stud. Degasperi domanda la parola per una dichiarazione. Porta anch’egli un saluto speciale che fra gli operai socialisti arrecherà forse meraviglia. Porta il saluto degli studenti clericali. Tra i due partiti, fra i due indirizzi sociali esiste un immenso divario, un abisso! I suoi consenzienti non possono essere naturalmente d’accordo con molte idee espresse dal Gerin né in riguardo religioso, né in riguardo politico. Ma benché non prescindano né gli uni né gli altri dai propri principi, qui non è il luogo di discuterli. Oggi si afferma un postulato comune di nazionalità e di civiltà. Oggi gli operai si sono dichiarati per questo postulato anzitutto in nome della cultura e della giustizia e per questo li saluta. Si augura che all’Università superiore in Trieste segua subito un nuovo incremento dell’educazione fra le masse, poiché l’estensione della cultura non deve nuocere a nessun partito, e la verità non ha nulla a temere. Dopo che diversi oratori, operai e studenti, ebbero discusso l’ordine del giorno Gerin, esso venne accettato con una modificazione proposta da Zuccali. L’ordine del giorno dei lavoratori italiani in Vienna protesta contro «una delle più grandi infamie sociali», il monopolio della cultura, saluta lo risvegliarsi della gioventù studiosa, afferma l’unione degli operai per ottenere una Università italiana, assicura agli studenti l’appoggio degli stessi, e mentre pur riconoscendo a tutte le nazionalità pari diritti, protesta contro ogni tentativo di procrastinazione e contro la delazione politica operata nella lotta degli slavi. fg. |
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| 01901-1905
| Cattolici trentini! Una questione grave, interessante sovratutto la cultura nazionale, commuove presentemente tutti gli italiani delle provincie austriache: la questione universitaria! È nota la causa prossima che concentrò d’un tratto la nostra attenzione su questo antico postulato e che resuscitò in noi l’entusiasmo per la lotta e la fede nella vittoria. In quei giorni nei quali alle violenze degli avversari rispondevano gli italiani tutti con un grido di indignazione e di protesta, noi, studenti delle associazioni cattoliche, non secondi a nessuno nell’amore alla patria e nell’interesse per una questione altamente nazionale, non venimmo meno al nostro dovere, non abbandonammo mai il nostro posto. In quei giorni, belli di battaglie generose, ci confortava e ci raffermava il pensiero che combattevamo per idee e postulati che erano le idee e i postulati di tutto il popolo nostro. Cattolici trentini! È giunto il momento di dimostrare col fatto a tutti che quel pensiero corrispondeva veramente alla realtà e che tutti i cattolici trentini sono concordi coi propri rappresentanti e cogli studenti nella rivendicazione dei loro legittimi diritti. La sottoscritta presidenza costituitasi in comitato promotore, vi invita ad una solenne adunanza che si terrà in Trento al 1 gennaio 1902, ore 4 e mezzo pomeridiane . Nel Teatro dell’oratorio P.V., gentilmente concesso. Cattolici trentini! In quell’adunanza noi affermeremo i nostri diritti, ripeteremo le nostre domande e le nostre proteste. Nessuno manchi all’appello, nessuno manchi di venire personalmente o di spedire la propria adesione. Si tratta dell’università italiana a Trieste, si tratta di una questione, da cui dipenderà il nostro avvenire intellettuale e la elevazione nostra a popolo forte, moralmente unito e libero! Trento, 27 dicembre 1901 La Presidenza dell’Associazione Catt. Universitaria, come comitato promotore. Le tessere d’ingresso possono venir prelevate nella nostra sede, via Lunga N° 23 I piano. |
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| 01901-1905
| La questione dei rapporti esistenti fra il cattolicismo e la cultura moderna è certo di grandissima attualità: una questione che hanno suscitato molti, e alla quale molti diversamente hanno risposto. I più vedono nel cattolicismo un grande avversario della cultura moderna, come ultimamente l’Harnack , il Chamberlain, l’Hoensbroech , da noi il Sergi ed altri. Sarebbe quindi una viltà, dice l’Erhard nell’introduzione, per un dotto cattolico, lo sfuggire la questione, tanto più che le accuse più sensibili sono mosse alla Chiesa in nome del puro e primitivo Cristianesimo. L’Autore constata anzitutto 3 fatti: 1) Il ripetersi frequente di voci che segnalano la decadenza del cattolicismo e parlano di un’altra religione che vi si deve sostituire 2) il progressivo allontanarsi delle classi colte dalla Chiesa cattolica 3) le manifestazioni di malcontento con una serie di rapporti ecclesiastici esistenti, in scritti di riforma, lettere ecclesiastico-politiche ecc. Questi fatti formano il perno della questione, la quale però non può venir sciolta coll’affermare l’incompatibilità assoluta della Chiesa colla cultura moderna, giacché la storia si oppone recisamente a questo concetto. L’Autore spera di aver sciolto la questione quando avrà risposto alle tre domande seguenti: 1) Com’è sorta l’odierna situazione ecclesiastico-religiosa? 2) Quali sono i caratteri essenziali e la portata del contrasto fra la Chiesa cattolica e il mondo moderno 3) Quale compito spetta ad un prossimo avvenire? Per rispondere alla prima domanda l’Erhard risale molto più in là della Riforma, studia i rapporti fra Chiesa e Stato nel medioevo, giudica questa età, la quale per lui non è per nulla il massimo fiore del cattolicismo, considera il progressivo indebolimento dell’influsso della Chiesa nel secolo XIV e XV e l’apparire dei due più potenti fattori dell’età moderna: il soggettivismo e l’individualismo in opposizione all’universalismo del medioevo. Dal soggettivismo nacque la rivoluzione ecclesiastica, la riforma. Di questa l’Erhard riconosce imparzialmente i meriti e i demeriti. S’aggiunse poi il barbaro principio «cuius regio, illius et religio», che finì l’opera di distruzione. Contro allo scisma la Chiesa mise in opera tre fattori: il Concilio di Trento, la Società di Gesù, il Papato e i principi cattolici. Riguardo ai gesuiti l’Autore constata di fronte ad asserzioni in contrario 1) 1’ordine dei gesuiti dal punto del diritto ecclesiastico è un ordine come gli altri e non è affatto in un più intimo legame coll’essenza del cattolicismo 2) per il contrasto fra esso e gli ordini più antichi, per la spiccata individualità del suo fondatore per il tempo e le condizioni della sua fondazione, esso ha soltanto un valore relativo storico e non un valore assoluto 3) per conseguenza è falso che cattolicismo e gesuitismo siano la identica cosa 4) Il carattere relativo che all’ordine dei gesuiti ne viene è anche documentato dalla storia, poiché esso dimostra tutte le mancanze e i difetti che si associano ad un lavoro umano. Ogni cattolico è perciò libero di accettare o no tanto le pratiche di pietà e di divozione particolari ai gesuiti, quanto il loro particolare indirizzo in teologia. Ma questi tre fattori, ripiglia l’Erhard, non bastarono a scongiurare la catastrofe. Alla metà del sec. XVIII subentrarono due nuovi mali: l’assolutismo nello Stato e il particolarismo nella Chiesa. Il sec. XIX ha poi compito il passaggio dalla rivoluzione anticristiana alla rivoluzione antireligiosa e antiteistica. Rappresentanti di questa tendenza sono i materialisti Moleschott , Vogt , Büchner e Haeckel. Naturalmente con queste tendenze in campo, la Chiesa non poteva progredire. Non manca però anche da questa parte qualche passo in avanti. Come tale l’A. denota il risorgere della filosofia di S. Tommaso. La raccomandazione però di Leone XIII in questo riguardo non deve essere interpretata in modo che tutti i principi siano con ciò dichiarati inoppugnabili. S. Tommaso dev’essere per la teologia e la filosofia un faro e non una pietra di confine. Più innanzi l’Autore parla delle pietre miliari dello svolgimento moderno entro il cattolicismo: il sillabo, il concilio vaticano, la fine dello stato della Chiesa. Il primo non aveva certamente valore dogmatico. Riguardo allo stato della Chiesa, l’Autore constata che esso era una delle forme dell’indipendenza necessaria al pontefice. «Che non sia l’unica forma possibile dimostra già il fatto che essa sorse appena nell’VIII secolo» (p. 283). Ed ora viene la parte più interessante e più aoggettiva del libro. Come farà la Chiesa a riguadagnare il mondo colto? Quale è il compito dei cattolici nel secolo XX? Dopo aver affermato che della separazione del cattolicismo dalla cultura sono responsabili in parte anche i cattolici e che questa separazione non è assoluta, ma che in sé la moderna cultura segue ancora da lontano le tracce del cristianesimo, l’Erhard precisa il compito dell’avvenire così: 1) I rappresentanti della cultura moderna devono venir spinti all’autocritica: la dichiarata bancarotta della scienza dà ai cattolici il diritto di pretenderlo. 2) I cattolici devono venir eccitati a lavorare praticamente nel campo della riconciliazione; a tal uopo essi dovranno andar incontro ai nuovi bisogni religiosi ed ecclesiastici, benché non concordino colla maniera di esternare la vita religiosa nel medioevo. 3) I cattolici devono cercare ogni mezzo per liberarsi dalla taccia d’inferiorità: affermarsi nella teologia, nella filosofia e nella storia non meno che nelle belle arti e nelle lettere. La fondazione di università cattoliche, pensa l’Autore, per quanto sia una cosa ideale, non è nostro compito prossimo, quanto invece l’affermarsi nelle università già esistenti. Come vedono i lettori, l’opera del prof. Erhard è uno di quei libri che il Tommaseo chiamerebbe «libri legione». E proprio un libro d’oggi che si tirerà dietro chi sa quanti altri libri: e niente di meglio potevamo augurarci della discussione su questo importantissimo argomento. Che esso sia stato anche apprezzato come tale lo dimostra il fatto che in 14 giorni si rese necessaria una seconda edizione. A.D. |
37cdd27b-0a55-4741-9376-5768c113d343 | 1,902 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| La bancarotta dei darwinisti ebbe una dimostrazione chiara ed intuitiva nella polemica scientifica sostenuta da Edoardo Hartmann , il noto autore della «Philosophie des Unbewussten» contro i più sfegatati darwinisti. Nel libro succitato egli cercava dimostrare che la teoria meccanica darwinista non è in grado di spiegare l’origine delle specie superiori e che per spiegare tale origine sono assolutamente necessari argomenti di natura spirituale. Il libro venne accolto dai darwinisti con un sorriso di compassione per l’autore, il quale, com’essi dicevano, non era da prendersi sul serio per mancanza di cognizioni in storia naturale. – Dopo alcun tempo comparve un libro anonimo intitolato: «Das Unbewusste von Standpunkte der Physiologie u. Descendenztheorie» il quale con grande apparato di nozioni ed argomenti tolti dalla storia naturale si lanciava contro E. Hartmannn e la sua filosofia. Il libro fu accolto con grande giubilo dai fautori di Darwin ed Ernesto Haeckel , il più grande fra essi, ebbe a dichiarare solennemente dalla cattedra che egli stesso non avrebbe saputo difendere il darvinismo, in modo migliore. Quand’ecco dopo pochi mesi apparisce una seconda edizione dello scritto polemico con queste piccole modificazioni: 1) v’era il nome dell’autore, il quale non era altri che E. Hartmann stesso; 2) il libro portava un’appendice, nella quale con una dimostrazione stringentissima ad absurdum annientava senz’altro tutti gli argomenti di prima. a.d. |
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| 01901-1905
| [...] Incaricato dalla Presidenza dell’Associazione a fungere in questa assemblea da relatore sulla questione universitaria, mi limiterò anzitutto ad una breve cronaca di quegli avvenimenti i quali fecero sì che una questione ristretta prima ad interesse ed importanza locale, allargasse mano mano la propria cerchia, tanto da diventare tutto d’un tratto in questi ultimi tempi una questione austriaca, nel senso più largo della parola. La prima tappa era stata segnata ancora nel 1863, quando il deputato on. Consolati presentava alla Dieta di Innsbruck la proposta che all’Università di Innsbruck almeno le materie più difficili della facoltà legale e medica venissero spiegate contemporaneamente in tedesco e in italiano. In seguito a questa proposta fu istituita già allora una cattedra giuridica italiana, la quale cessò assai presto. Undici anni fa però parve che il governo ritirasse il disegno primitivo, e furono istituite le prime cattedre parallele della facoltà giuridica. Nel 1899 il governo fece un passo in avanti e col voto dell’intera facoltà giuridica venne stabilita l’erezione di due nuove cattedre, l’una per la procedura civile, l’altra per l’economia politica, e vennero invitati a prepararsi alla libera docenza il dr. Francesco Menestrina e il dr. Giovanni Lorenzoni . Nel primo semestre infatti del 1900 il primo di questi giovani studiosi si presentava coi suoi titoli a conquistare la cattedra di procedura civile. Ma allora incominciò l’agitazione dei tedeschi. Ai 14 marzo del medesimo anno il deputato Erler presentava alla Dieta un’interpellanza in cui chiedeva quali provvedimenti intendesse prendere il Governo di fronte all’invasione degli italiani per salvare il carattere tedesco dell’Università di Innsbruck. L’interpellanza però rimase senza risposta e il dr. Menestrina dopo aver conquistato passo passo il terreno, sembrava ormai fosse giunto alla meta. Ma gli studenti tedeschi radicali incominciavano l’agitazione, e minacciavano d’impedire con la violenza la solenne prolusione in italiano del nuovo libero docente dr. Menestrina. Contemporaneamente, nella seduta del 6 luglio 1901 della Dieta provinciale, il dr. Pajr presentava un’interpellanza diretta contro la utraquizzazione dell’Università di Innsbruck. All’interpellante si associava il dr. Mjrbach, allora Rettore dell’Università, e per gli italiani il barone Malfatti. Giacché fin d’allora e deputati e studenti italiani, mentre accettavano quel riconoscimento di fatto dei nostri diritti, l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck, protestavano però contro di essa come una mezza misura, né degna degli italiani, né sufficiente, né come i fatti ebbero di recente a dimostrare possibile fra il radicalismo nazionale dell’Università innsbrucchese. Intanto a scongiurare una lotta sul terreno accademico, la facoltà giuridica aveva deciso che la prolusione del prof. Menestrina si facesse in forma privata, il che anche avvenne. Gli studenti tedeschi radicali, per allora corbellati, andarono alle vacanze con un arrivederci a quest’autunno che voleva dire: Quod differtur, non aufertur. Gli studenti trentini poi tornarono ad Innsbruck con la certezza che la lotta sarebbe scoppiata alla prima lezione del prof. Menestrina. Tutti sanno che la previsione si avverò ; ed ora siamo proprio al momento epico della lotta. Il giorno 27 ottobre, il nuovo docente privato saliva la cattedra tra gli applausi degli italiani e i fischi dei tedeschi; la lotta intorno a quella cattedra si ripeté tre volte; gli italiani, forti dell’appoggio di tutto il paese che applaudiva da lontano e da vicino; i tedeschi forti del diritto dei più: eppure, cosa strana! tutti, e chi applaudiva e chi fischiava, combattevano contro la medesima cosa; contro l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck; gli italiani, perché volevano, sulle conseguenze logiche degli avversari, conquistare un’università nazionale; i tedeschi perché volevano mantenere all’università innsbrucchese il carattere tedesco. Intanto, come contraccolpo ai fatti di Innsbruck, successero le dimostrazioni di Vienna e di Graz e le grida di: «Vogliamo l’università italiana!» echeggiarono fin sotto l’atrio del Parlamento. D’allora in poi la questione dell’università italiana diventò una questione austriaca. Un’ora dopo la dimostrazione, i giornali della capitale parlavano a lungo della questione, ne rifacevano la storia e la maggior parte simpatizzavano in certa maniera, naturalmente senza smentire i loro connazionali, per le domande degli italiani. Solo l’organo dei pantedeschi, l’Ostdeutsche Rundschau, si faceva scrivere dal teatro della lotta un articolo, in cui osservava che gli studenti tedeschi nel loro fervore giovanile avevano sbagliato tattica e che essi avevano ripetuto in tale maniera quegli atti di generosità dei tedeschi, per i quali essi aiutavano i propri avversari. Parallela all’azione universitaria, si svolgeva l’azione parlamentare. I deputati italiani, appena avuto sentore dei fatti di Innsbruck, presentavano alla camera un’interpellanza, dove chiedevano al Governo l’erezione di una completa università italiana a Trieste, ora che risultava evidentemente vano il tentativo di una mezza misura a Innsbruck. Qui intanto gli avvenimenti erano precipitati. Il senato accademico, cedendo alle violenze degli studenti tedeschi radicali, ordinava l’interruzione delle lezioni al prof. Menestrina. Questo passava ogni limite ed esasperò a ragione all’estremo gli italiani. La parola d’ordine degli studenti era: ad Innsbruck! e chi poté, lasciò Vienna e Graz e comparì sul teatro della lotta. Eravamo al giorno 7 novembre, e tutti aspettavano con ansia la risposta del ministro Hartel . Il prof. Pacchioni telegrafava da Vienna di sperare bene. Al Parlamento, sulle gallerie, gli studenti italiani pendevano dalle labbra del ministro: ad Innsbruck si aspettava al telegrafo. E la risposta venne: tutti lo sanno: fu la risposta di un ministro che non vuole dire chiaramente né sì né no. L’Hartel diceva pressapoco: finora il Governo credette bene di venire incontro ai desideri degli italiani con le cattedre parallele ad Innsbruck; se la cosa, per le lotte nazionali, non sarà possibile, come pare, il Governo dovrà pensare a provvedere altrimenti a che gli italiani possano godersi un’istruzione superiore. I deputati ed in genere gli studenti in Vienna videro in queste ultime parole una promessa abbastanza chiara per l’Università a Trieste. A Innsbruck, invece nel grande comizio del 7 novembre in cui erano rappresentati tutti gli studenti, vari municipi e la stampa, gli studenti votarono un ordine del giorno radicale su tutta la linea. Io non voglio qui decidere, se esso fosse giustificato o ingiustificato, opportuno o meno opportuno: su tale cosa deciderà il futuro e questo futuro speriamo non sia ancora giunto. Certo è che la stampa tedesca e slava interpretò la risposta in genere più favorevolmente che noi: tanto è vero che la parola d’ordine per tutte le nazioni non equiparate fu questa: se ricevono l’università gli italiani, perché non ce ne danno una anche a noi? E d’improvviso ci trovammo a lato nuovi e più forti competitori – gli sloveni, i croati, i ruteni, gli czechi, i tedeschi: la questione era precipitata al plurale. La stampa tedesca ne approfittò per trarre la cosa in ridicolo, e si parlò d’università ladina e d’una per gli zingari. In seguito a questo ed alle condizioni di moribondo in cui si trovava il Parlamento, qui non fece passi in avanti la nostra causa, benché i nostri deputati non perdessero alcuna occasione sia nel plenum della Camera, sia nelle commissioni o per via di interpellanza. Ad Innsbruck successe una sommossa verso destra. Gli studenti tedeschi radicali capirono che le loro violenze facevano il nostro comodo ed ubbidendo alla Ostdeutsche Rundschau, riprovarono per vile interesse il passato e promisero di essere per l’avvenire gli uomini dell’ordine. Altrettanto chiedeva il Rettore agli italiani, ma questi non s’impegnarono. L’università venne tuttavia riaperta e le lezioni del prof. Menestrina ripigliarono il loro corso tranquillamente, però tra le dichiarazioni dei giornali tedeschi che dicevano: È l’ultima concessione che vi facciamo. E la questione rimase insoluta. È chiaro che ora essa si trova in un periodo di tregua, non concessa da noi ma portata dalla necessità delle cose: quando ne uscirà? non è facile il dirlo: probabilmente la lotta scoppierà di nuovo quando si inaugurerà la seconda delle due cattedre stabilite, quella del dr. Lorenzoni. Questo è certo, che il Governo si troverà sempre più stretto nel dilemma o di mantenere e completare le cattedre parallele in Innsbruck e scontentare tanto italiani che tedeschi, o di concederci un’università propria su terra italiana, accontentarci almeno noi. Il Governo avrebbe pure escogitata una via di mezzo, quella cioè di completare le cattedre in Innsbruck, poi dichiararle indipendenti, istituendo un’accademia per sé e gli italiani in Innsbruck. Ma questo progetto, oltreché con ogni probabilità non incontrerebbe le simpatie dei tedeschi, non potrebbe essere accettato dagli italiani. Che cosa vorrebbe dire un’accademia italiana o una semi-università incompleta in terra tedesca, come vi si adatterebbe la nostra dignità e quella dei docenti? Del resto noi non avremmo conquistato che una scuola professionale mai un centro di cultura nazionale. Poiché, o signori, quale è la ragione prima della nostra domanda? Certo vi hanno parte anche motivi professionali: che il medico, il professore, l’avvocato possano studiare in quella lingua nella quale insegnano e non debba accadere, come avviene a taluno, di rifare poi per la pratica i suoi studi in italiano. Ma non è questa, o signori, la ragione principale. Noi vogliamo università italiana su suolo italiano per stabilirvi la nostra palestra di cultura e i nostri laboratori della scienza, ove agli studenti italiani austriaci sia possibile di coltivarsi anche oltre quello che tende l’esaminatore, ove la gioventù prenda amore alla scienza alle lettere, sì da crescere degna della nostra grande cultura nazionale! Le università, o signori, sono state sempre non solo i laboratori del pensiero scientifico, ma anche le fucine ove si idearono e produssero i grandi rivolgimenti intellettuali dei popoli. Ebbene, o signori, noi vogliamo un’università italiana la quale ci metta in grado di gareggiare con le altre nazioni dell’Austria, noi vogliamo un’università ove si formi una generazione che trovi il vanto non nello sprezzare i tedeschi e la loro cultura; richiamandosi ai nostri grandi Padri, ma nel far sempre meglio dei tedeschi nel superare la loro cultura, vogliamo in poche parole una università italiana la quale sviluppi il nazionalismo positivo dei doveri e non solo dei diritti, in maniera che si possa dire agli italiani in Austria non che gli italiani sono semplicemente gli avversari nazionali degli slavi o dei tedeschi, ma che sono un popolo, che è più colto e più sviluppato degli slavi e dei tedeschi. E questa nostra domanda, o signori, ci è garantita dalla costituzione nel paragrafo 19 delle leggi fondamentali . La legge c’è, ma chi vi pon mano? I tedeschi ci sogliono rinfacciare difficoltà pratiche, mancanza di professori e di studenti. Il corpo docente italiano di Innsbruck, con la sua risposta al prof. Waldner, pubblicata dai giornali, si dispensa dal confutare questo poco solido argomento. Ma se anche la nostra debolezza esistesse di fatto, non si entrerebbe nel circolo vizioso di non concederci la cultura, perché non abbiamo la cultura? Una debolezza vera fu forse che per il passato non abbiamo affermato abbastanza forte questo diritto, e a questo c’è ancora tempo di rimediare; marchiamo forte il nostro diritto di un’università italiana. E poiché per ora le circostanze pratiche e la voce comune indicano Trieste come sede dell’Università, affrontiamo tutti la ritrosia del Governo e la pervicacia dei tedeschi radicali con un grido unanime: Viva l’università italiana di Trieste! Ancora una dichiarazione che riguarda specialmente noi, studenti delle Associazioni cattoliche. Lo studente socialista Ferdinando Pasini , fungendo da relatore dell’ottavo congresso della Società degli studenti trentini , finiva la sua relazione con le precise parole che non posso fare a meno di leggere: «Tutta quanta la mia relazione è stata fatta col tacito presupposto, che la nostra campagna sia diretta ad ottenere un vero istituto superiore di studi aperto a tutti i soffi della scienza moderna, senza menoma restrizione allo spirito della libera ricerca e del libero pensiero, non quale anche la loro solita intransigenza ed intolleranza, i clericali già cominciano a pretendere. Gli studenti di quel partito, nel loro congresso del 18 settembre a.c. a Mezzocorona, vollero occuparsi, quest’anno, anche della questione universitaria, ma in seduta segreta, dove, secondo le scarse e riservate notizie della Voce Cattolica si discusse vivamente e a lungo sulla questione, e si decise di invitare i deputati e in modo speciale quelli di parte clericale a occuparsi energicamente della università italiana, provvedendo al sentito bisogno degli studenti accademici italiani. Di occuparsi in che modo ai deputati di parte clericale non è qui veramente detto, e noi ne resteremmo ancora all’oscuro, se non sapessimo fin dal giugno scorso, che nella festa universitaria della fondazione della Società Cattolica in Innsbruck, tra i discorsi e i brindisi delle persone importanti intervenute, ce n’è stato anche uno, e precisamente un deputato “in nero ammanto” che credette bene di augurare alla futura università cattolica italiana! E questo, mi diceva in confidenza uno di quei giovani véliti del clericalismo, questo è il programma e il voto di noi studenti cattolici: vogliamo proprio una università di carattere confessionale, sul tipo di quella che si sta piantando ora in Salisburgo. Non ne abbiamo ancora proclamata e iniziata pubblicamente la lotta, ma, a dire la verità, se due anni fa al congresso di Pergine abbiamo espresso il voto per una Università a Trento, si era perché crediamo che una università cattolica non possa sussistere in Austria fuorché a Trento. Denuncio fin d’ora, o signori, queste perfide intenzioni che non si ha il coraggio di portare alla luce del sole, perché si sappia qual valore dobbiamo accordare alla cooperazione, che costoro vorrebbero fingere alla nostra causa, le denuncio con tutte le forze dell’anima contro un tale programma, destinato a buttare presto o tardi, e probabilmente nel momento più difficile della lotta, il flagello della guerra civile tra gli italiani dell’Austria e magari a distruggere per sempre tanti sforzi ininterrotti ch’essi hanno fatti per migliorare le condizioni intellettuali della loro nazione; le denuncio esortando i nostri deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi; cioè col prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza poiché essi non offrono per tutte, indistintamente, le varie correnti del pensiero moderno, quelle garanzie di libertà che noi saremmo sempre disposti a garantire anche al loro pensiero; e perché noi piuttosto di mettere capo ad una università, che riuscirebbe un pericolo costante per la civiltà ribadendo i ceppi dell’ingegno umano, preferiamo mille volte e più di rinunciarvi per ora e per sempre». Signori! io non v’ho letto questo sfogo del signor Pasini per avere occasione di un attacco personale. È certo però ch’egli è un ingannato o un ingannatore. Giacché, come fu già dichiarato da un mio collega in una solenne adunanza di studenti ad Innsbruck, è falso che l’Associazione universitaria cattolica tridentina abbia avuta l’idea di un’università italiana cattolica, ovverosia confessionale; e sappia il signor Pasini, che se l’idea l’avessimo avuta, avremmo avuto anche il coraggio di pubblicarla come abbiamo avuto il coraggio di manifestare tant’altre idee di ordine religioso che hanno costato a qualcuno di noi, oltre che ingiurie e isolamento perfetto, anche pugni e schiaffi. Ma di questo, o signori, si è già parlato abbastanza ad Innsbruck. Volevo soltanto «denunciare» anch’io qualche cosa qui davanti al vero popolo trentino, dinanzi ai suoi rappresentanti, volevo, ripeto, «denunciare» anch’io qualche cosa. Denuncio fin d’ora, o signori, – dirò anch’io col Pasini, – questo perfido sistema di creare pregiudizi o false opinioni in riguardo agli avversari per poi annientarli, sistema che è tanto più da deplorarsi quando si tratti di una questione che è di tutti gli italiani. Riguardo a noi, i fatti vennero a smentire queste false insinuazioni. Nessuno di noi mancò in quei giorni né al lavoro delle assemblee, né a quello dei comitati. Pareva che la pace fosse fatta e non si dovesse temere «il flagello della guerra civile». Ma poi, passate le burrasche, parvero ritornare i consigli antichi, e da Vienna si tentò ogni mezzo per cacciarci dal comitato , si tirarono in campo le nostre opinioni religiose ed ecclesiastico-politiche, e si tentò in pubblica adunanza di metterle in contraddizione, udite, o signori, con l’università italiana. Era la pratica della teoria, tanto applaudita a Rovereto, di Ferdinando Pasini, il quale non contento di escludere noi studenti e di presentare ordini a nome di tutti gli studenti accademici trentini, esortava «i deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi, cioè di prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza». Ebbene, o signori, contro tale altezzoso sistema di sorpassarci e di ignorarci, noi protestiamo energicamente e con tutta l’anima e v’assicuro che cercheremo di far sentire in tutte le occasioni la nostra esistenza. Vivaddio! Non è questo nostro paese nella sua gran maggioranza cattolico? Non sta il popolo, il vero popolo, dietro di noi, o i suoi rappresentanti non sono in maggioranza di parte cattolica? Non c’è bisogno di esortazioni, ma se fosse il caso noi vorremmo dire ai nostri deputati: Rispondete a queste esortazioni di parte anticlericale con l’occuparvi con sempre maggiore energia della questione universitaria, e gli studenti e l’immensa maggioranza del Trentino saranno con voi. Ancora una cosa. Il signor Pasini terminava la sua applaudita filippica, motivandola con l’assicurare che i clericali non concederebbero agli avversari la libertà di pensiero e di ricerca. Lasciate che gli risponda con un augurio. No, o studenti anticlericali, andate pure nei laboratori, nei gabinetti, nelle biblioteche, cercate di ricercare, studiate e ristudiate col vostro ingegno libero da tutti i ceppi. Cercate! Novelli Ulissi, ripartite da Itaca, non cacciati dalla noia, come diceva nella sua ultima conferenza sulle funzioni sociali del pessimismo il prof. Pasini, ma attirati dalla sete del vero e del buono. Avventuratevi sul mare tempestoso, passate le colonne d’Ercole, lanciatevi arditamente per l’oceano infinito, vagate e cercate! Se la stella vi sarà propizia, se non farete prima naufragio, troverete il monte della salute. Dopo tante fatiche e tante aberrazioni ritornerete sulle antiche vie degli avi, alla religione delle vostre madri, al Vero davanti al quale chinan la fronte e Dante Alighieri e Michelangelo e Raffaello e il Vico e il Muratori e Alessandro Manzoni e tutte le maggiori glorie italiane. |
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| 01901-1905
| Ho potuto leggere soltanto oggi la Sua... comunicazione ! Ella, dopo aver accennato a parecchi oratori «sit venia verbo» se la piglia specialmente con me per la chiusa della mia relazione, o del «brodoso imparaticcio» come sa dire meglio Lei, quale persona molto pratica di discorsi e di conferenze . Il signor professore anzi mi fa anche la grazia di un consiglio, insinuato invero alquanto in ritardo, ma che appunto per questo, è tanto più efficacemente voluto. Ella sarebbe cioè dell’avviso ch’io, prima d’incominciare la mia relazione, avrei dovuto venire da Lei a dare una prova del mio coraggio nello sfidare sino «i pugni e gli schiaffi». Ebbene, signor Pasini, veda ingenuità! Io pensavo invece proprio il contrario. Pensavo che Ella nella Sua infinita lealtà (ne possiede, come pare, da metter fuori cambiali), prima di parlare a proposito delle nostre idee dell’Università italiana espresse a Mezocorona, e prima di parlare come ha fatto con tanta disinvoltura e con il poco fondamento (veda la rettifica del collega Puelli ) avrebbe dovuto informarsene meglio, e venire non dico da me, povero studentello senza buona creanza e senso comune, ma dal presidente dell’Associazione, oppure dal relatore di quel giornale che riportava in argomento sì magre e scarse notizie. Forse avrebbe appreso, che le nostre intenzioni non erano proprio così «perfide» da meritare una denuncia tanto solenne ed un’esortazione così marcata ai deputati anticlericali. Ma Ella credette bene di non farlo; e così siamo rimasti a pari condizioni. Lei ha detto quello che Le è parso bene di dire in un’adunanza anticlericale; io quello che m’è parso giusto di dire in un’adunanza clericale: differenze ce ne saranno tante sicuramente; p. e. (lo concedo volentieri anch’io) alla mia prosa occorevano le «stampelle», alla sua forse sarebbe occorso un freno, o un po’ di zavorra per tenere le ali un tantino più rasenti alla verità, Le pare? In quanto alle altre lezioni che Ella ha la bontà di darmi, lezioni di lealtà, di buona creanza, di galantomenismo, di coraggio civile e di senso comune, non ho voglia davvero di rispondere. Se ne avessi voglia, signor Pasini, comincerei col citare quello che scriveva l’Alto Adige (19-20 febbraio 1891) a proposito di un certo Adone Spranfini (forse lo conosce) e compagnia. Se ne ricorda? «Molti (diceva l’Alto Adige moralista) restano per tutta la vita nella loro miseria morale ed in questa nevrotica fine di secolo trovano sempre giornali che stampano i loro saggi di feroce intolleranza.» Ma il secolo di mi parlava l’Alto Adige è morto, e ne abbiamo cominciato un altro, il secolo dei superuomini. Mi avevano detto, signor professore, che Ella, a cavalcioni dei due secoli, tutto ad un tratto da rapsodo... dannunziano era diventato un superuomo. Come sia avvenuta la cosa, non lo so propriamente. È probabile però che sia accaduto a Lei quello che avvenne a Pietro Rapagnetta, quando rinacque tutto il in colpo Gabriele d’Annunzio. Un bel giorno, signor professore, pieno la testa dei libri di Sär Péladàn e di Federico Nietzsche, tronfio di sé e dell’ingegno che madre natura Le aveva dato, si sarà levato anch’Ella dal letto col volto inspirato e l’occhio lucente, si sarà mirato nello specchio ad angolo ed avrà detto alla sua figura riflessa nel terso cristallo: «Anch’io come... d’Annunzio! Se l’uomo è una corda tesa tra il bruto e il superuomo, io sarò il secondo capo della corda, sarò il superuomo! Incipit vita nova!». Quando penso a questo, sign. professore, non vorrei nemmeno aver scritto quello che ho scritto. Come si fa a contradire ad un superuomo? Se è così, ha più che ragione, signor professore. Di fronte a Lei, è proprio vero, il D.r Conci e compagni sono oratori «sit venia verbo», (il Popolo però diceva che era un forbito discorso, ma...); noi tutta gente la quale non sa dire che «buaggini», e il Lanzerotti un dottore «ameno». Ha proprio ragione! Lei ha avuto la carità cristiana di ridere degli infelici, ha avuto persino la degnazione di occuparsi di me, povero studentello ultimo venuto; e di ciò anche a nome degli altri La devo ringraziare proprio tanto. Colla debita stima A. Degasperi |
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| 01901-1905
| Due parlamenti contemporaneamente si occuparono ieri e l’altro ieri della guerra nell’Africa meridionale: il parlamento inglese ed il francese. In ambedue i parlamenti si fecero sentire delle voci di severo biasimo contro il contegno dell’Inghilterra nella guerra del Sud-Africa, contro i campi di concentrazione, contro le devastazioni e le crudeltà, definendo la guerra condotta contro i boeri una vera guerra di sterminio. S’intende che nella Camera inglese non ebbero coraggio di gettare questa scottante verità di fronte ai governanti del gabinetto di S. Giacomo altro che gli irlandesi, che e per la religione in cui furono educati, ed ammaestrati dalla lunga oppressione sotto cui dovettero gemere per secoli, appressero ad aborrire ogni sorta di violenza del forte contro del debole; e qualche liberale di carattere che né dalle minacce di impopolarità, né dalle carezze del Governo si lasciò indurre a rinnegare quel programma e quei principi, che pur formarono il patrimonio tradizionale del partito liberale inglese. Nella Camera francese si levarono oratori da destra e da sinistra a protestare contro il modo di condurre la guerra da parte degli inglesi, contrario agli usi civili ed alle specifiche determinazioni della Conferenza dell’Aja: e l’abate Lemire ed il socialista Clovis Hughes si trovarono uniti nel denunziare con libera voce le infamie degli inglesi nel sud-Africa. Costretto e dalle dirette recriminazioni mosse nella Camera inglese, e dai lamenti universali della stampa del mondo civile, lord Chamberlain sorse a spiegare, che cosa sieno i campi di concentrazione, tentando di presentarli come un provvedimento ispirato dall’umanità e dalla compassione verso la popolazione boera. Ma lord Chamberlain ha scelto male il tempo per tentare una siffatta difesa, quando appunto la pubblicazione di un’inchiesta della signora Joubert, che dopo infinite preghiere potè ottenere di visitare uno dei campi di concentrazione, fa fremere di sdegno ogni cuore ben nato per gli inumani maltrattamenti a cui sono sottoposti gli inermi figli e le spose dei valorosi boeri; e quando la pubblicazione di una petizione di parecchi notabili boeri al generalissimo Botha , sollecitandolo ad arrendersi, dimostra, come la forza d’animo dei boeri, cui non potè domare una guerra spietata di due anni e mezzo, né minacce, né crudeltà nemiche contro i combattenti, né infine traversie, cede ora sotto lo spasimo del cuore, torturato dai patimenti dei figli e delle spose morenti di fame nei campi di concentrazione. E lord Chamberlain osa presentare i campi di concentrazione come opere create dall’umanità e dalla misericordia degli inglesi verso i boeri e l’osa appunto nel momento che più terribili si manifestano al mondo civile le rivelazioni sulle condizioni dei «concentrati», e quando anche la stessa statistica pubblicata dagli inglesi, mostra come sono assai maggiori le vittime dei campi di concentrazione che non quelle della guerra stessa! Davvero, che non si saprebbe decidere, se sia più di macigno il cuore o più di bronzo dell’ambizioso ministro delle colonie inglesi. Nelle due Camere, inglese e francese, si parlò pure in favore della pace; in quella si sollecitò il Governo a cercar modo di por fine alla guerra; in questa si presentarono delle mozioni invitanti il Governo ad intervenire in favore della pacificazione e dell’arbitrato. Ma la risposta di Chamberlain e di Delcassé , tuttoché presentate, anche quella di Chamberlain contro il suo solito, sotto il velo di una forma cortese e diplomatica, suonarono in senso negativo e sono tali da togliere ogni speranza ai poveri boeri, all’infuori di un ultimo sforzo delle loro armi per difendere la propria libertà, e da dissipare tutte le dicerie ed i sogni di trattative di pace, sperse e concepite all’entrare del nuovo anno e ripetute in quest’ultimo tempo. La risposta di Chamberlain intima la sottomissione completa e la resa a discrezione dei boeri e la risposta di Delcassé è l’ultimo e definitivo rifiuto dell’egoismo diplomatico delle potenze europee di far dei passi presso l’Inghilterra perché voglia cessare la scandalosa guerra di sterminio contro un popolo provocato, che difende la propria patria e la propria libertà. La causa boera dunque non è affidata che al fucile di quel pugno di prodi, che si dibattono come leoni, e con una perseveranza più unica che rara nella storia dell’umanità, contro un esercito venti volte maggiore. Contro questo pugno di prodi ora l’Inghilterra fa l’ultimo sforzo per domarli e fiaccare la loro resistenza. Dall’Inghilterra, dalle Indie e dall’Australia si segnala la partenza di nuove truppe di rinforzo alla volta dell’Africa, mentre Kitchener raddoppia lo zelo delle fucilazioni dei prigionieri boeri e fa gemere e strillare di fame, nuovo Barbarossa, i figli, le spose e le madri degli eroi, che pugnano sul campo per la libertà, nella speranza di domare con questo genere di raffinata tortura la costanza di quegli uomini contro de’ quali è impotente la rabbia dei suoi mercenari. Oh affrettatevi, affrettatevi ed accorrete da tutto il mondo, o sciacalli dell’affarismo e dell’avidità inglese, a compire quello stupendo serto di gloria onde anela cingersi le chiome la nobile fronte della vostra madre patria. |
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| 01901-1905
| Martedì prossimo ventuno avremo la prima seduta del nuovo periodo di sessione parlamentare del Consiglio dell’Impero ; e la Commissione del bilancio non ha ancora terminato il proprio compito. La Commissione ha ancora da affrontare le giornate critiche, perché le questioni scottanti fin’ora sono state evitate, nella speranza di poter coincidere un accordo fra i rappresentanti dei partiti nazionali contendenti, e risparmiarsi le discussioni tumultuose ed appassionate, che formerebbero un punto nero nei protocolli delle sedute commissionali procedute fin’ora sempre dignitose e regolari. E intanto si è trattato tutta la settimana: si è trattato tra Governo, czechi e tedeschi per la questione dell’Università morava; fra tedeschi e polacchi per i ginnasi di Troppau e di Teschen; fra sloveni czechi e polacchi da una parte e tedeschi ed italiani dall’altra per l’eterna questione del ginnasio di Cilli; fra italiani polacchi e tedeschi per il ginnasio croato di Pisino. Si è trattato adunque e di questioni grosse e di questioni relativamente piccole; ma pur tutte scottanti, tutte delicate, tutte stuzzicanti le suscettività o le passioni di parti nazionali in guerra. Ed il risultato? Per la questione dell’università morava, com’è facile crederlo, il Governo non ha potuto indurre a cedere d’un punto della loro intransigenza né gli czechi né i tedeschi, ma specialmente questi ultimi, cui a mala pena il d.r Koerber potè trattenere dall’inscenare dimostrazioni contro una dichiarazione puramente platonica del Governo: e ciò colla minaccia delle dimissioni di tutto il gabinetto. E questa dichiarazione platonica del ministro Hartel in favore di un’università czeca morava, che il Governo mette di là da venire dovrà chiudere interinalmente una questione, che risorgerà fra breve nella Camera. La dichiarazione sarà tale, che non soddisferà, per la sua indeterminatezza, gli czechi, né soddisferà i tedeschi, che non vogliono neppur sentir nominare l’Università morava. Però sarà probabile che né l’uno né l’altro dei 2 partiti presentino contro tale dichiarazione delle proposte o delle mozioni. E questo sarà il massimo risultato che il Governo ha potuto ottenere dopo due settimane di... senseria. Riguardo alla questione del ginnasio di Cilli , che i tedeschi hanno risuscitato, neppur idea di un accordo tra sloveni e tedeschi, volendo quelli mantenere le parallele slovene a Cilli, ed i tedeschi volendone ad ogni costo l’abolizione ed offrendo in cambio di completare le parallele slovene del ginnasio di Marburgo ed erigerle in ginnasio autonomo. La questione sarà portata dunque nella Commissione e poi nella Camera e risolta in diatribe e voti. I tedeschi sperano di poter racimolare maggioranza per la propria proposta calcolando sull’appoggio del Centro e degli italiani. Gli sloveni però fanno la voce grossa, e nel caso che la proposta dei tedeschi avesse da passare alla Commissione minacciano «di tirarne tutte le conseguenze anche al Parlamento»: così il comunicato di una conferenza tenuta a Cilli da tutti i deputati sloveni parlamentari e dietali. Accanto alla questione del ginnasio di Cilli è risorta la questione del ginnasio croato di Pisino, volendo gli italiani la radiazione dal bilancio della posta stabilita per il ginnasio di Pisino. La proposta degli italiani avrà il voto dei tedeschi; ma avrà contro tutti gli elementi slavi, compresi i polacchi, e cadrà. Forse sarebbe meglio chiedere non la radiazione pura e semplice della posta per il ginnasio di Pisino; ma il trasloco del ginnasio in terra slovena, come hanno fatto i tedeschi per le parallele slovene di Cilli: allora forse sarebbe possibile e probabile di guadagnare i polacchi ed avere la maggioranza. Verranno pure tirate in campo le desiderate Università italiana e rutena; ma le relative proposte non hanno probabilità di venir approvate e sono destinate a cadere. Passi per l’Università rutena, ma per l’Università italiana il ministro Hartel dovrebbe ricordarsi delle sue parole e promesse e dovrebbe ben guardarsi dallo smentire sé stesso, abbandonando il buon diritto della nazionalità italiana, gloriosa per antica civiltà, alle bramose canne dei suoi avversari ed alla prepotenza di un esclusivismo nazionale monopolizzatore, senza levarsi a riaffermarlo e difenderlo. Questo almeno gli italiani possono pretendere da loro. Come si vede, carne al fuoco ce n’è ancora per la Commissione, le cui ultime sedute coincidenti con il principio del nuovo periodo di sessione parlamentare ridesteranno nell’aria della Camera dei deputati quella tensione elettrica nazionale, così facile alle scariche, sempre pericolose per la Camera di Vienna e per la regolare funzione della Costituzione e dell’organismo dello Stato. |
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| 01901-1905
| Nella seduta di ieri della Camera ungherese dei deputati si portarono delle interpellanze sovra un caso occorso nella faccenda della visita dell’arciduca Francesco Ferdinando alla Corte russa, caso che è bene conoscere, perché è una prova della presunzione insieme e prepotenza e della partigianeria e grettezza del governo liberale ungherese. È da premettere, che ufficialmente il viaggio dell’arciduca non doveva essere né apparire, che un atto di personale cortesia. Perciò, quando si trattò della scelta del seguito la curò l’arciduca stesso, nominando a suoi compagni di viaggio due gentiluomini, il principe Carlo Windischgraetz austriaco ed il conte Giovanni Zichy ungherese, cameriere di Corte; ne partecipò la scelta ai due cavalieri, che accettarono ed all’Imperatore ed al conte Golouchowski , ministro degli esteri, che non ebbero nulla da eccepire. Ma ecco tutto ad un tratto giungere da Budapest terribile un voto che sconvolgeva tutto l’ordine già stabilito, rendeva vani i passi fatti dall’arciduca e pretenziosamente dettava ordini in un affare personale dell’Erede del Trono e contro disposizioni già prese ed approvate dal Sovrano stesso e dal ministero degli esteri. Era il governo ungherese, che non appena seppe della scelta del conte Zichy, irato perché l’arciduca non avesse scelto un cavaliere de’ suoi devoti, una delle sue creature, ma invece il conte Zichy, cattolico tutto d’un pezzo, mise in moto tutte le sue influenze e si rivolse allo stesso Imperatore, rappresentandogli come cosa sconveniente e sgraditissima al governo ungherese, che l’arciduca venisse accompagnato da uno dei capi dell’opposizione parlamentare. L’Imperatore, sempre buono, fece presente questa difficoltà all’arciduca, che per deferenza verso il Capo della casa regnante rinunciò all’accompagnamento del conte Zichy, col quale si scusò in un’udienza privata, alla quale l’aveva egli stesso invitato; ma per mostrare il suo malcontento ed il suo biasimo per questo procedere del governo ungherese non volle accettare per compagno di viaggio nessun cavaliere ungherese, ed andò a Pietroburgo col solo principe Windischgraetz. Non è chi non vegga a colpo d’occhio la piccineria, la grettezza e la villania dei governanti liberali ungheresi; ma insieme è opportuno notare quanta partigianeria, e quanta prepotenza traspiri da questo contegno della cricca liberale ungherese, la quale pretende escludere da un servizio d’onore alla Corte ogni cavaliere che abbia idee differenti dalle proprie, – autorizzato a prestarlo dallo stesso erede del Trono, e pretende infeudare le cariche di corte e gli onori di corte ad una cricca politica, ed asservire la corte stessa ad un partito. Il ministro Szell può dare quante spiegazioni vuole dell’affare, può anche farsi applaudire dai suoi fedeli, può anche pagare dei giornali, perché parlino di «complotti orditi dai clericali», come si disse quando l’arciduca Francesco Ferdinando assunse il protettorato della Società scolastica cattolica «complotti che il ministro Szell seppe sventare» (Neue Freje Presse), può dir quello che vuole, ma non potrà mutare d’un etto la chiara sostanza delle cose, né distruggere od attenuare presso ogni uomo imparziale e di buon senso l’impressione prodotta dal suo contegno niente cavalleresco, niente nobile, ed anche condotto con poca avvedutezza e troppa precipitazione. |
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| 01901-1905
| Nell’ultima seduta della Commissione parlamentare per i provvedimenti eccezionali applicati a Trieste , il deputato triestino on. Hortis , fiancheggiato dal deputato socialista dr. Ellenbogen , fece la lunga esposizione dei fatti tragici di Trieste, cominciando dallo scoppio dello sciopero dei fuochisti, fino alle presenti condizioni, esposizione che in diversi punti diversifica dalla relazione ufficiale, precisamente per quel che riguarda la causa immediata delle prime salve della truppa in piazza della Borsa. La relazione ufficiale assegna la provocazione ai dimostranti, parla di gettito di sassi contro i militari stazionati in piazza della Borsa, di diversi feriti tra i medesimi e dello stesso comandante caduto a terra, fatti che autorizzavano da parte del militare l’uso delle armi. L’Hortis invece accagiona la truppa di esser stata la prima ad assalire e nega il fatto del comandante caduto a terra in deliquio. Körber sopra un voluminoso materiale raccolto, riconferma le reazioni ufficiali e giustifica i provvedimenti presi dal Governo. Hortis si dichiara pronto a suffragare con numerose testimonianze la sua esposizione ed invita la Commissione o a chiamar a Vienna testimoni da Trieste o a mandar colà un proprio sottocomitato per praticare un’inchiesta. Da qual parte sta dunque la ragione, e qual’è la relazione vera, corrispondente in tutto e per tutto alla realtà dei fatti? Come avviene in simili avvenimenti, difficile è l’eruirlo e troppo spiegabile una diversa esposizione di fatti singoli, perché testimoni oculari non interessati in causa in simili circostanze non ce ne sono, ed è quindi facile trovare delle testimonianze contraddittorie e perciò delle relazioni diverse. La proposta dell’on. Hortis di chiamare a Vienna i testimoni ci pare alquanto ingenua; più pratica e non inutile crederemmo invece quella di praticare un’inchiesta sul luogo stesso, per mezzo di una sottocommissione. Tale proposta non è stata presa in considerazione, a quel che sembra, dalla Commissione parlamentare, ma l’Hortis vi insisterà nella seduta di domani, e ci auguriamo che la proposta venga accettata. Non nutriamo però fiducia, che la Commissione vi aderisca, perché crederà di poter avere materiale sufficiente in mano per poter adempiere al suo compito specifico, che è quello di esprimere un giudizio sulla legittimità dei provvedimenti eccezionali presi dal Governo e sull’opportunità di togliergli o meno. Eppure un po’ più di luce anche sull’inizio e sullo svolgimento dei fatti, sulle loro cause prossime e sulle relative responsabilità sarebbe pur necessaria! Fatto il primo passo e saltato il primo fosso, il... nuovo ministero Zanardelli doveva saltarne subito un secondo, accettando e facendo propria la candidatura accarezzata dall’opposizione per la presidenza della Camera. Incredibile, ma vero! a quanto raccontano i giornali italiani venutici stamane. Dopo il rifiuto, troppo necessario, di Villa , uscito così malconcio dall’urna, di accettare la rielezione a presidente della Camera, una delle prime nuove fatiche di Zanardelli era quella di cercarsi un altro candidato per la presidenza della Camera, ma tale che lo assicurasse da una seconda imbarazzante sorpresa. Ma ecco, che mentre il nuovo Diogene va in traccia dell’uomo-candidato, i giornali dell’opposizione, fanno il nome dell’on. Palberti ; vice presidente della Camera. Il tiro era birbone: una candidatura Palberti, posta dall’opposizione, era ancor più pericolosa per il Governo, che non le schede bianche. Che fare? Quando si è in guerra, pronto consiglio: Zanardelli piglia il sacco in cima e fa proclamare come proprio candidato l’on. Palberti. Se non ché nella fretta di saltare questo secondo fosso, Zanardelli non osservò la mota, che era raccolta al di là, e s’inzaccherò per bene i lindi stivaletti di Cavaliere del Serpente. L’opposizione, mettendo sul tappeto il nome di Palberti, voleva dare, si capisce all’elezione presidenziale uno spiccato colore... antidivorzista, e così precisare anche il significato delle schede bianche deposte nell’urna la prima volta. Il nome stesso di Palberti, l’uomo che con le sue dimissioni da presidente della Commissione per il divorzio aveva recato il più forte colpo al progetto Berenini , e che pur non essendo dell’opposizione veniva designato dall’opposizione a proprio candidato non lasciava dubbio sul significato antidivorzista della candidatura Palberti. E lo Zanardelli? Lo Zanardelli trangugiando l’amara pillola, per evitare una dimostrazione... disastrosa, al posto del divorzista Villa, mette Palberti! Palberti quindi riuscirà eletto con tutti i voti ad eccezione di quelli dell’Estrema; non si potrà parlare di un voto di sfiducia dato al Governo, sarà protratta anche la manifestazione contro il divorzio; ma la prima sconfitta morale del nuovo (chiamato così) ministero Zanardelli è già segnata. Ed a questa non tarderanno a seguirne delle altre. Intanto però è bene notare, che i giornali zanardelliani proclamano in cento guise e in cento toni, essere l’introduzione del divorzio volontà reale. Impegnata la parola della Corona la setta ora ne abusa per imporre l’odiato progetto alla nazione; ma sopra la volontà della setta, se Dio vuole, trionferà la volontà delle oneste posizioni. L’altro ieri nel Parlamento prussiano, discutendosi il bilancio dello Stato, venne ancor sul tappeto la questione polacca. Il dep. Glebovski al titolo «rimunerazione del ministro dell’interno» prese la parola per criticare l’azione del ministero dell’interno di fronte ai polacchi, esponendo una nuova serie di soprusi, illegalità, oppressioni, miranti a far sparire la lingua ed il carattere polacco dalle provincie orientali. Il ministro gli rispose con un discorso bilioso, insultando vigliaccamente la nazione polacca, ed agitando sempre l’accusa contro i polacchi di voler preparare il terreno per una generale insurrezione dei polacchi allo scopo di risuscitare l’antico stato polacco, morto, disse, per sempre. Ma codeste le sono bubbole. Se i polacchi van fuori della legge puniteli; se no, lasciate loro i loro diritti di cittadini. Ma sperar giustizia dalla prepotenza prussiana è impossibile. |
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| 01901-1905
| Una notizia inaspettata e curiosa, ci reca da Vienna la Neue Freie Presse. Essa dice, che il governo ed i deputati trentini ultimamente si sono riprese le trattative; ma il novo ed il curioso non istanno per nulla in ciò, sì bene in questo, che il d.r Koerber vuole trasportare le basi delle trattative dalla questione dell’autonomia, quelle dei bisogni economici nel Trentino e particolarmente alla concessione di un’accademia di diritto da erigersi a Trento, che il Governo sarebbe propenso a concedere e nella quale si trasferirebbero le parallele italiane già erette nella facoltà legale dell’Università di Innsbruck. Scopo di queste trattative e di queste concessioni sarebbe di muovere i deputati trentini ad abbandonare l’ostruzione e permettere alla nuova Dieta di riprendere il suo lavoro, «desiderio imperioso del dott. Koerber». E la questione dell’autonomia verrebbe rimessa alle calende greche? Ed a che scopo allora si mandò lo Schwartzenau ad Innsbruck? La Neue Freje Presse dice, che «per il momento un’intesa nella questione dell’autonomia non ha nessuna prospettiva di essere raggiunta». E perché? Il giornale viennese pare voglia attribuirne la causa alla circostanza, che il nuovo Luogotenente, «come si dice», si è «accinto allo studio della questione». Questa ragione però non tiene. Non si era già determinato fin da un anno e mezzo fa il Governo centrale nella questione dell’autonomia, chiamando a Vienna i membri del sotto-comitato dietale per la questione dell’autonomia, facendo loro rielaborare, col concorso di impiegati ministeriali il progetto della curie nazionali e dando con ciò a questo una tal quale sanzione preventiva? E non ci aveva avuto parte diretta lo stesso Schwartzenau nella rielaborazione di questo progetto? E non fu sostituito appunto per questo lo Schwartzenau al conte Merweldt nel governo della provincia? E non aveva il governo centrale lasciato capire fino dall’ingresso del nuovo Luogotenente nel suo ufficio che, all’aprirsi della nuova Dieta sarebbe stato avanzato un progetto governativo sulla questione Trentina, e che il Governo si sarebbe dato attorno le mani per tempo per accordare nella questione i rappresentanti delle due nazionalità? Ed ora si dichiara di punto in bianco (giacché crediamo la Neue Freie Presse informata da fonte autorevole nella faccenda) che una intesa nella questione per ora non è sperabile, e si giustifica tale abbandono, sia pure interinale della questione dell’autonomia con un «si dice» che il bar. Schwartzenau si sia appena posto allo studio della questione. Il «si dice» non tiene affatto; quello che si capisce è solo questo, che per una soluzione prossima della questione trentina sono sorti degli impedimenti gravi, che il governo per ora li crede insormontabili. Quali saranno o donde sono sorti? A Vienna, a Innsbruck, da parte dei deputati tedeschi o d’altronde? Non si dice nulla o solo potremo saperlo in seguito. Intanto il Governo vista la impossibilità di un accordo, per ora cerca di indurre i deputati trentini a togliere l’ostruzione offrendo delle concessioni lusinghiere, giacché la concessione di un’accademia di diritto a Trento non è certo nei presenti momenti di lotte e difficoltà nazionali una cosa indifferente. Un impedimento sorge a difficoltare l’accettazione di questa offerta governativa: la promessa dei deputati trentini, ai deputati triestini ed istriani di insistere per l’Università italiana a Trieste. La Neue Freie Presse sbarazza i trentini da questa difficoltà, protestando che il Governo non accorderà mai un’Università italiana a Trieste. Crediamo anche noi che nelle presenti circostanze politiche e parlamentari non si può sperare la erezione di una Università italiana a Trieste, perché a questa erezione si oppongono inesorabilmente gli elementi slavi ed i tedeschi più o meno nazionali del Parlamento e senza il consenso del Parlamento Università non se ne fondano. Ma bisogna vedere se i deputati istriani e triestini pur vedendo questa difficoltà, hanno abbandonate le speranze anche per il futuro, e se non credono pregiudicate queste speranze dall’erezione di un’accademia legale a Trento. In ogni modo saranno i trentini costretti dai loro precedenti a passare parola coi loro colleghi del Litorale. S’intende da sé, che l’accettazione di questa offerta del Governo non potrà e non dovrà in ogni caso importare un abbandono della questione dell’autonomia. |
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| 01901-1905
| I libri del Toniolo sono sempre due cose: anzitutto una meravigliosa sintesi storica e filosofica del contenuto di un dato periodo sotto un punto di vista determinato, e poi un catechismo dei corollari pratici che la storia del passato insegna o impone al futuro. Anche questo vi dirà dei «provvedimenti sociali popolari» compiuti nell’ultimo periodo della storia contemporanea della civiltà, e conseguentemente stabilirà i provvedimenti che saranno un programma, per i «volonterosi non solo di conoscere ed adorare, ma ancora di coadiuvare con docile cooperazione i disegni della Provvidenza nella odierna rigenerazione popolare». Così nel primo capitolo l’Autore risale al principio degli odierni rivolgimenti popolari e studia la genesi dei programmi di riforma sociale democratica, descrivendone prima la formazione razionale e storica in genere, e rifacendo poi con un ordine ed una profondità mirabile l’elaborazione storica degl’immediati provvedimenti popolari ai quali parteciparono le varie scuole riformatrici. Sulle rovine degli altri programmi egli vede negli ultimi decenni delinearsi il programma democratico cattolico, di cui trova la preparazione remota nei grandi fatti storici caratteristici circa il 1870 e lo svolgimento prossimo in quello che accadde poi fino alla Rerum Novarum . Le venti pagine che seguono sono dedicate a questa enciclica e all’altra del 1901 sulla democrazia cristiana: e qui oltre il filosofo della storia e il sociologo ammirate l’apologeta contro i liberali e i conservatori, il moderatore fra i consenzienti, l’interprete fedele e scientifico delle direttive pontificie. Tutto questo primo capitolo è un quadro così complesso e abbraccia una palingenesi così vasta e profonda, da renderne facile l’intelligenza solo a chi conosce il dettaglio ed ha l’occhio ormai esperto fra il labirinto degli ultimi sconvolgimenti sociali. I tre capitoli seguenti trattano dei tre principali intenti pratici immediati, che sono infine con poche divergenze i caposaldi delle varie scuole riformatrici: la riforma del contratto di lavoro e delle concomitanti relazioni fra imprenditori ed operai – la ricostituzione di unioni corporative dei lavoratori – la legislazione sociale operaia. Il contratto di lavoro viene prima studiato storicamente nell’economia capitalistica, nei suoi abusi e nelle sue riforme e poi tradotto nella sua forma cristianamente ideale coi criteri prevalsi dopo la Rerum Novarum – morali, giuridici, di alto ordine pubblico. Seguono a conclusione alcune osservazioni induttive, e si stabilisce: 1) Si matura in questi dì una storica rivendicazione del lavoro manuale. 2) A questo grande compito provvidenziale spetta principalmente alle classi superiori di adibirsi. 3) Dalle classi doviziose e colte dipende massimamente la salvezza propria e dell’intera società. L’ordinamento della classe operaia nelle corporazioni (cap. III) trova la sua ragione nella rinata coscienza di classe e nel corrispondente sforzo per tradurla in un fatto sociale organico mercè la Costituzione del quarto stato: le manifestazioni di questa nuova coscienza vengono descritte dall’Autore nella storia e nella biologia, le forme e l’importanza dell’ordinamento corporativo distinte e rilevate con rigore ed esattezza scientifica e insieme con tanta chiarezza da rendere superflui molti dei volumi che furono iscritti su quest’argomento. In un terzo capoverso del medesimo capitolo l’Autore risponde ad alcune obbiezioni che potrebbero fare gli avversari (cattolici e liberali) del sistema corporativo, avverte di molti errori che potrebbe trarre con sé una propaganda incauta e stabilisce l’efficacia della propaganda cristiana. Col medesimo metodo l’illustre professore procede nel capitolo quarto trattando della legislazione sociale operaia. I suoi fattori storici, i differenti procedimenti nei vari paesi, le sue funzioni (tutrici, cooperatrici, elevatrici) passano sotto gli occhi del lettore condensati in poche pagine. Brevi cenni su quelle provvidenze, che non appartengono propriamente alla legislazione operaia, ma che storicamente le sono parallelle, per esempio la rivendicazione delle autonomie locali, chiudono il libro. Il quale, diciamolo subito, è una prova di più essere la scuola cattolica l’unica che logicamente e conseguentemente tende alla riforma sociale. E lo leggano i nostri studiosi e propagandisti i quali troveranno anche (ciò che non era degli «Indirizzi ecc.») nelle note una copiosissima bibliografia, lo leggano specialmente quelli che procedono nel lavoro della restaurazione con un cieco empirismo, e... lo leggessero i nostri avversari, i quali ci accusano sempre di non sapere quello che vogliamo! Dobbiamo ricordare infine con gratitudine la società di cultura editrice , per la bella edizione di questo studio che nella Rivista Internazionale sarebbe stato accessibile a pochi. A.D. |
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| 01901-1905
| Da parecchio tempo a questa parte la stampa ebraica conduce una campagna di recriminazioni, di odio, di maldicenza, di irose ostilità contro la Rumenia. E siffatta campagna dà maggiormente nell’occhio della stampa giudaica in Austria, in quanto che si sa che le relazioni fra l’Austria e la Rumenia e le rispettive case regnanti sono ottime, che fra tutti gli stati balcanici quello che maggiormente gravita verso l’Austria e si appoggia all’Austria, e sul quale l’Austria può fare maggior assegnamento per la realizzazione della sua politica nell’oriente europeo, è la Rumenia. La più elementare prudenza politica adunque domanderebbe, che i giornali politici austriaci, che vanno per la maggiore, e che talora si presentano magari nella livrea dell’ufficialità e della semi ufficialità, usassero verso la Rumenia quei riguardi che si merita e per le sue relazioni di amicizia coll’Austria e per la posizione e l’importanza, che ha la Rumenia per la realizzazione della politica estera austriaca nei Balcani. Eppure voi non aprite giornale giudaico di Vienna e di Budapest, che non avventi, quando gli si presenta l’occasione, i suoi fulmini contro la Rumenia. Ma qual’è la ragione di questo fenomeno? È semplicemente questa. Alla testa del governo rumeno sta un ministro, il quale compreso di tutta la serietà della sua situazione interna economica e sociale, ha iniziato un energico lavoro ed una saggia legislazione per l’organizzazione, lo sviluppo, e la tutela delle classi industriali e lavoratrici indigene; e siccome quest’opera del ministero rumeno va a colpire direttamente, anche senza nominarlo, lo sfruttamento, l’usura e la sfrenata concorrenza dell’industria ebraica ivi piantatasi, e che minacciava di soppiantare l’industria indigena, così la stampa ebraica mondiale non sa darsi pace per questo «malo esempio», che la Rumenia dà all’Europa incivilita. Due parole di spiegazione riguardo a quest’azione di difesa del ministero Sturdza . Negli ultimi decenni e specialmente, quando la Russia cacciò dai suoi confini gli usurai dell’affarismo ebraico. questi si riversarono come un branco di cavallette sui paesi confinanti, inondando particolarmente la Rumenia. Questa lasciò loro libero passaggio e libero esercizio di commercio e di industria. L’effetto non tardò a manifestarsi. Il metodo tutto proprio di tali affaristi, lo sfruttamento inumano del lavoro e della povertà, la concorrenza sfrenata, il monopolio, l’usura e la frode, coperta sotto mille furberie, trassero a sé in breve ora gran parte, se non la massima, del commercio e dell’industria rumena, impoverirono e pressoché annientarono l’artigianato, disorganizzarono ed oppressero i ceti industriali, portando terribili conseguenze alle condizioni sociali interne del paese che li aveva ospitati. Basti dire, che, per confessione della stessa Neue Freie Presse di ieri sera, vi hanno delle località in Rumenia, dove tutte le industrie, anche piccole sono in mano esclusivamente di ebrei. Tali terribili effetti dell’immigrazione degli ebrei nella Rumenia ridestò un vivo malcontento in tutta la popolazione indigena, la quale vedendosi impotente ad impedire una tale deleteria attività dell’ebraismo importato in paese, sorse a feroci sommosse contro gli ebrei, prendendo d’assalto ed incendiando gli aborriti negozi. Allo scoppiare di tali tumulti antisemiti, specialmente quattro anni fa , la stampa ebraica mondiale non mancò di gridare al fanatismo, agli odi di razza, agli odi di religione, reclamando dal Governo rumeno di soffocare col piombo e colle manette «la ferocia della piazza» e di tutelare la vita e le sostanze degli innocenti perseguitati. Il Governo rumeno non mancò al suo dovere, e protesse con la forza e con la legge coloro, che pure erano la causa del proprio male; ma nello stesso tempo ricercò le ragioni di que’ disordini sociali, che andavano affacciandosi e crescendo sul suolo rumeno, e studiò i rimedi per porvi riparo. Ed i rimedi compariscono ora per mano del ministro Sturzda in forma di progetti di legge al Parlamento; e il Parlamento non ancora signoreggiato dagli ebrei li approva, ed il Re non ancora serrato fra le maglie dei debiti verso gli ebrei le approva. Del resto, non si creda che sieno leggi di persecuzione o leggi eccezionali contro nessun suddito rumeno: sono semplici precauzioni da usarsi nel concedere il diritto di cittadinanza a forestieri ed il diritto di esercizio e di patente industriale a stranieri; sono leggi (come quella sanzionata giorni sono) che provvedono alla organizzazione dei ceti industriali, dell’artigianato e del lavoro indigeno; sono prescrizioni mediante le quali le amministrazioni pubbliche devono offrire i loro lavori possibilmente all’industria indigena; sono provvedimenti per promuovere l’educazione industriale indigena. Ed è forse degno di biasimo un Governo, che agisce in questo modo, ed è forse uno stato barbaro quello che vi dà di tali leggi sociali? Magari gli stati civili sapessero imitarlo; magari avessero adottato per tempo i provvedimenti, che ora adotta per sè la Rumenia: si sarebbero risparmiati tanti pentimenti ed avrebbero in radice impedito tanti disordini e tante calamità sociali. |
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| 01901-1905
| L’Austria è per la stessa struttura sua, più che per gli uomini che vi governano, uno Stato «naturalmente» refrattario alle riforme sociali e a un movimento che vi faccia capo. Le lotte nazionali fra due razze potenti, che si contendono disperatamente il potere dal Comune, alla Dieta, al Parlamento, distolgono di per sé l’attenzione da mali più profondi e più generali, e conducono a un sistema parlamentare, dal quale il popolo spera meno che mai una legislazione sociale riformatrice in senso democratico. Questo va premesso, per comprendere in quali condizioni sfavorevoli, che altri paesi non hanno, si è sviluppato e vive tuttora il partito cristiano-sociale austriaco. In Austria dal ’60 all’85 circa, spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. Alla testa della corrente liberale stava la nazione ebrea, che si rifaceva della prigionia patita negli anni dell’intolleranza. Vienna e l’Austria Inferiore – il cuore della monarchia – erano completamente sotto il giogo degli ebrei. Giornalisti, si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali, tenevano gli operai cristiani in condizione di schiavi; commercianti, facevano coi grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri, affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica. «Noi austriaci, mi diceva una settimana fa un deputato cristiano-sociale, temiamo sempre che all’estero non ci si comprenda quando vediamo nel nostro giudaismo l’origine di tutta la nostra miseria morale ed economica. Eppure è un fatto che la lotta nostra è un continuo agitarsi in cerca d’aria e di vita, è una marcia dai piccoli quartieri, in cui essi ci avevano riservati, verso le piazze e le vie grandi, ove si erano creduti re». Poco dopo il 1880 parve che il liberalismo avesse raggiunto l’estremo della parabola e incominciasse a discendere. Aveva trovato un avversario teoretico terribile nel celebre barone Vogelsang il quale nel «Vaterland» (ora giornale feudale-conservativo) e nella «Monatschrift für christliche Sozialreform» (questa rivista esiste ancora ed è diretta dal celebre professor Beck dell’Università di Friburgo) predicava i principi d’una riforma sociale cristiana. Egli fu certo per lungo tempo un predicatore al deserto, le sue idee furono monopolio di alcune poche intelligenze e non penetravano nella coscienza popolare. Dalla sua scuola però uscirono poi tutti quei politici e quegli agitatori che avviarono e diressero il movimento cristiano-sociale. Verso l’85 in Vienna s’andava compiendo un meraviglioso rivolgimento: il popolo incominciava a capire. Allora tutti quanti deploravano le rovine apportate dal pseudo-liberalismo divennero, naturalmente, alleati contro il nemico comune. La parola d’ordine era stata pronunciata dal principe Liechtenstein a un banchetto nel quale si festeggiava un giubileo del «papa sociale» (’87): «Tutto ciò che divide sia evitato». E così si trovarono in un medesimo campo cattolici convinti (la gran maggioranza) e convinti protestanti ed anche indifferenti di ambo le confessioni, i quali ultimi però si staccarono presto. Questa falange portava il nome – dato dal prelato dott. Sckeicher – «die Vereinigten Christen» (i cristiani uniti). Chi seppe tenere tutti questi elementi disparatissimi in un fascio solo e li condusse alla vittoria fu il dott. Carlo Lueger , un profondo conoscitore dell’anima popolare, un agitatore di eminenti qualità strategiche, uno dei primi oratori popolari che al dì d’oggi esistono in Austria, il quale per la sua bella e imponente figura, per l’ironia e l’acutezza della critica che sgorgava dalle sue labbra, trascinò le masse alla riscossa. Accanto a lui alla testa del nuovo partito stavano il principe Luigi Liechtenstein, che è tuttora uno dei più facondi oratori parlamentari, rampollo di nobilissima famiglia ed insieme fervente democratico; il prelato dott. Sckeicher, il quale colla sua opera «Il clero e la questione sociale» influì assai sui giovani preti; e infine il dott. Gessmann , che ha grandi meriti per l’organizzazione del partito. «L’unione dei cristiani» entrò in azione anzitutto nelle elezioni municipali della capitale. Ogni nuova elezione portava un nuovo trionfo, e finalmente nel 1895 il municipio di Vienna era conquistato. Allora il liberalismo fece gli ultimi sforzi e mise in moto tutte le leve più occulte. Il dott. Lueger venne eletto borgomastro, ma l’imperatore non diede la necessaria sanzione. Il Consiglio, ciò nonostante, rielesse Lueger; e il Ministero sciolse allora la rappresentanza e prescrisse nuove elezioni. Queste riuscirono una vittoria ancor più splendida per gli antisemiti e il Lueger venne rieletto per la terza volta. Ma di nuovo gli fu negata la sanzione. Seguirono tempi critici per la capitale. I viennesi col garofano bianco all’occhiello, cantando la Lueger-marsch (marcia Lueger) s’avviarono a migliaia e migliaia alla Hofburg (corte imperiale) e chiesero ad alte grida la sanzione di Lueger. In questi momenti pericolosi per tutto il movimento, l’uomo idolatrato dalla folla si sacrificò, fece eleggere nel suo posto l’amico Strobach ed egli venne eletto vice-borgomastro. L’anno dopo ricevette finalmente la sanzione. D’allora in poi il partito ebbe due mete: consolidarsi internamente, col rendersi più omogeneo, ed allargarsi alle altre province austriache. Del lavoro interno non diremo nulla perché a darne un’idea occorrerebbe un libro. Basti dire che i cristiano-sociali – così si chiamò poi la parte maggiore e più pura del partito – conquistata anche la Dieta dell’Austria Inferiore, svilupparono una rete tale di organizzazioni in tutte le classi del popolo da assicurarsi la vittoria per lungo tempo ancora. Celebri sono le società femminili (Frauenbund) che hanno assunto ora un’importanza colossale per il partito. Parallelamente in tutte le province si lavorava con alacrità nella propaganda, e il movimento fiorentissimo avrebbe invaso tutta l’Austria, se sgraziatamente non si fossero scatenate con raddoppiata violenza le passioni nazionali, quando il ministro Badeni emanò le famose ordinanze sulle lingue . In Boemia, dove prima il nome di Lueger suscitava entusiasmi, gli stessi socialisti perdettero i loro seggi di fronte al fanatico partito dei pangermani. Invece il Vorarlberg è ormai tutto cristiano-sociale e nella Stiria e nel Tirolo il movimento progredisce di anno in anno. Ma la gloria più bella di questo partito è il movimento prettamente operaio, che l’anno scorso nell’ultimo Congresso a Vienna si è dichiarato in quanto all’organizzazione autonomo ed indipendente dal partito politico, benché ne rimanga naturalmente una parte. L’organizzatore degli operai è Leopoldo Kunschak , una volta garzone sellaio, poi propagandista fervente per tutta la gioventù, ora redattore della «Christlich-soziale Arbeiterzeitung» (giornale dei lavoratori cristiano-sociali). Queste schiere lavoratrici, informate a uno spirito veramente cristiano sono le fresche riserve del partito. Chi ha veduto l’anno scorso i rappresentanti dei maggiori centri industriali al Congresso degli operai cristiano-sociali in Vienna e li ha visti giurare su di un programma profondamente cristiano e sinceramente democratico ed acclamare entusiasticamente a Leone XIII, aveva dinanzi l’Austria futura, se pur ve ne sarà una. Ricordavo allora il dilemma di Lueger: «O l’Austria cristiano-sociale o la dissoluzione!» Mentre vi scrivo i cristiano-sociali si preparano a una battaglia colossale e – in quanto riguarda il partito politico – decisiva. In autunno ci saranno le elezioni per la Dieta (rappresentanza della provincia) finora in mano ai nostri. Gli ebrei – i rappresentanti del capitale – hanno trovato degli alleati nei socialisti che qui sono veramente il partito internazionale al servizio dell’«Alliance Israelite», nei tedeschi nazionali e nei tedeschi radicali (Wolf- Schonerer). Questa coalizione che non sa lanciare contro un partito – il quale rialzò le finanze della provincia, emancipò l’Austria Inferiore dal capitale straniero e per il primo concesse il sistema elettorale più democratico che esista in Austria – nient’altro che la taccia di «clericalismo», metterà a dura prova le schiere di Lueger. Le previsioni sono inutili. L’Austria versa ora in una crisi profonda, e il fanatismo nazionale fa cambiare d’aspetto, da una elezione all’altra, un intero paese. Ma, avvenga quello che si vuole del partito politico, il movimento sociale cristiano continuerà la sua rotta trionfale. E dove passa la sua democrazia ritorna anche lo spirito religioso, il Cristianesimo. In Vienna, all’epoca del dominio liberale, le chiese erano deserte e i predicatori inascoltati. Quando sorse il nuovo movimento – e chiamarsi cristiano nella vita pubblica divenne un vanto – si incominciò anche ad esserlo veramente, le chiese si riempirono e i famosi predicatori P. Abel (gesuita) e P. Feund attirano tuttora grandi folle di popolo (uomini soprattutto) alle loro conferenze sulle «questioni del giorno», e le processioni del Corpus Domini si trasformarono addirittura in feste popolari, perché il popolo vedeva coloro che lo avevano liberato dalla schiavitù economica, e innanzi a tutti il dott. Lueger, andare francamente dietro la Croce. In Austria i conservatori cattolici si accorsero troppo tardi dell’efficacia morale della Democrazia Cristiana, che osteggiarono e in parte osteggiano ancora, e appena l’anno scorso, quando i cristiano-sociali si mostrarono l’unico baluardo contro il movimento scismatico «los von Rom», riconobbero a Lueger il titolo di «salvatore dell’Austria». Lo intendessero per tempo in altri paesi almeno, ove condizioni simili reclamano simili rimedi! Vienna, fine aprile A. Degasperi |
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| 01901-1905
| Vienna, 22 Per il passato, quando leggevo in parecchi scrittori anatemi e condanne inappellabili contro l’arte moderna, era sempre tentato a pensare ad un intransigentismo feroce, ad un rigorismo incompatibile, ad un’esagerata ortodossia. Il Pavissich e il Baumgartner erano gesuiti, il Weiss regolare anch’egli e terribile scolastico per giunta: e se Leone Tolstoi mi parlava di satanismo dell’arte moderna, non lo si può spiegare forse col suo idealismo evangelico che gli ha fatto dannare tante altre buone o indifferenti apparizioni della vita doggi ? Persino Romolo Murri – al quale noi giovani crediamo volentieri – quando nelle Battaglie d’Oggi deplorava nell’arte moderna un nuovo antropomorfismo, peggiore dell’antico, come motivo costante e direttivo, non valeva a persuadermi. Gli è forse che non avevo ancora afferrato il senso intimo della vita, e non mi era ancora accorto del paganesimo nuovo che domina. Né v’è da meravigliarsi, perché il paganesimo nasce da noi, ci accompagna nelle abitudini e nei gusti di moda, e ci viene poi più tardi imposto da una letteratura e da una stampa messe al suo servizio. Come a me, accade alla più parte dei giovani ed anche dei vecchi, ed è sintomatico che alla fine del secolo XIX il vegliardo di Jasnaja Poljana abbia sentito la necessità ed il dovere di scrivere un volume sul senso della vita, richiamando al confronto quella nostra di oggi con la vita ideale del Vangelo. Gli era, dirò ancora più giustamente, che la teoria della verità – a cui per via di induzione ed a fatica era infine venuto adattandomi – non aveva avuto ancora come dimostrazione di quegli esempi, i quali oltre che credere fanno subito sapere. Uno di questi esempi fu per me e quanti vollero comprendere, l’ultima esposizione della «secessione» viennese. Ebbi a notare altre volte in queste colonne, a proposito di altre esposizioni «secessioniste», che vogliono periodicamente mostrare al pubblico i progressi ultimi dell’arte di oggi, tendenze anticristiane e rinascimenti pagani; ma ciò compariva sporadicamente qua e là in qualche quadro o pastello e quasi sempre accanto a qualche lavoro d’arte sana, come per esempio l’anno scorso, accanto ai quadri grandiosi del nostro Segantini . Questa volta invece niente di cristiano, e quasi tutto pagano. Procediamo con ordine. Massimiliano Klinger , indiscutibilmente il più grande cultore delle arti figurative in Germania, lavorava da quindici anni intorno a un monumento di Beethoven, il celebre musico tedesco. Chi si era incaricato della réclame preparatoria, sapeva dire che il monumento sarebbe di materiale vario e preziosissimo: marmo di Syrna e dei Pirenei, opale e iaspide, che il Klinger stesso aveva scelto con cura in Grecia, nei Pirenei, ecc. Si confrontava questo Beethoven col Faust di Goethe perché ambedue queste opere, attraverso molte altre 1), rimanevano la cura costante degli artisti. L’opera tanto aspettata comparve finalmente nella Pasqua di quest’anno, e a Lipsia nell’atelier dell’artista venne esposta all’ammirazione del pubblico. Si seppe allora che Beethoven era ritratto dallo scalpello dell’artista non come uomo, né come superuomo, ma come un Heros o un dio; e in quanto all’ammirazione, basti dire che lo Schuman affermò potersi ripetere di quel monumento quello che scrisse Epitteto del Giove di Fidia: «Beata quella città che lo avrà entro le sue mura...». Vienna, la grande ammiratrice dell’autore delle sinfonie, volle vedere anche questo nuovo omaggio, e la Secession, di cui Klinger è membro corrispondente, lo fece oggetto unico dell’ultima esposizione. E qui prevalse un criterio nuovo: tutto quello che circonda il monumento – luogo e decorazioni – deve essere in relazione con esso. In quanto al luogo bisognava darci il carattere della monumentalità; al dio bisognava costruire un tempio. E il palazzo dell’esposizione si trasformò in un tempio d’uno stile tra l’egiziano e quello della pagoda: nel mezzo un quadrilatero che è come un sacrario intorno al simulacro, ai lati due sale più ristrette. Il soffitto (una curva lieve) è continuo, perché le due sale laterali sono divise da pareti che raggiungono appena metà dell’altezza del tempio, cosicché il monumento è visibile da ogni canto. Beethoven siede su un trono di bronzo col corpo superiore nudo proteso innanzi; il viso pensoso, i pugni serrati e poggiati sulla gamba destra che è a cavalcioni dell’altra. La parte superiore del corpo è marmo bianchissimo di Syrna, in contrasto singolare e forse troppo forte con la parte inferiore su cui è disteso un drappo d’onice giallo bruno, e coi bracci del trono che nella parte più sporgente sono d’oro risplendentissimo. I piedi sono legati nei sandali e il sinistro poggia sullo zoccolo di un marmo violaceo. Ai piedi un’aquila di marmo nero leggermente venato di bianco, con le ali pronte al volo guarda al divo che pensa. Questi è evidentemente ritratto nel momento che raccoglie tutte le sue forze per fissare una melodia, un motivo che gli passa per il capo; dunque nel momento immediatamente anteriore alla creazione 2); e l’aquila aspetta per poi darne notizia agli dei. Non tocco la questione, puramente estetica, se a così breve termine dalla morte di Beethoven era opportuno rappresentarlo nudo – mancando la «lontananza ideale» – e se l’applicazione dei colori nella plastica sia giustificata. Per me, per esempio, il Mosè di Michelangelo nella sua terribile e pur serena semplicità non ci ha a che fare col Beethoven, e il marmo bianco avrà sempre un fascino insuperabile. Sulle estremità esteriori della spalliera stanno cinque teste d’angioli d’avorio che nella diversa espressione del volto pare rappresentino le varie concezioni che tenzonano nel capo del musico. Il resto della spalliera è ornato ricchissimamente di pietre preziose. Non c’è che dire, il monumento senz’essere tutto quello che ne dicono critici tedeschi, è certamente un’opera grande per la Germania, forse per molto tempo unica. Ma ora appena arrivo al nocciolo della questione. I fianchi e lo schienale del soglio sono adorni di altorilievi che rappresentano la filosofia del Klinger, di Beethoven e in genere dei cultori dell’arte moderna. A sinistra Eva porge ad Adamo la mela appena spiccata dall’albero: il piacere goduto contro la proibizione di Dio. A destra Tantalo tenta invano di arrampicarsi su di una rupe a picco per cogliere il frutto dell’albero, ed una Tantalide non riesce, malgrado ogni sforzo, ad attingere con una conchiglia dell’acqua. Ambedue con la mano libera afferrano uno spettro che si libra fra loro. Questo rilievo bellissimo rappresenta evidentemente la voluttà insoddisfatta ed eternamente inestinguibile del piacere, infusa dagli dei come pena a coloro che peccarono contro la divinità. Nel mezzo dello schienale sta il terzo rilievo: in cima al Golgota con i tre crocifissi 3), Maria Maddalena che guarda il buon ladrone; in fondo Venere sorta dalla schiuma del mare; in mezzo san Giovanni in atto di scagliare sulla dea del piacere una tremenda maledizione. Abbiamo dunque il contrasto di due età, di due religioni. Lasciando da parte la maniera di ritrarre il contrasto, la quale per chi vede nel Golgota più che una tragedia umana, è semplicemente ributtante, attendiamo alla soluzione del problema. Chi vincerà? Per quale delle due religioni decide l’artista? Ci fu qualche benevolo che, tirando le cose ai suoi desideri, vide in san Giovanni il Klinger stesso, che scagliando maledizioni a Venere, origine di tutti i mali, la fa rientrare donde era uscita. Ma non è vero. La dea del piacere pare non si curi delle minacce e si rallegra della grazia delle sue forme e della sua nudità provocante. Non resterebbe che l’interpretazione più semplice. Klinger – come Beethoven – è scettico e dichiara la religione dell’arte la più grande delle religioni, come appunto l’heros siede più in alto, al di sopra di tutti i rilievi. Se non ci fosse che l’opera del Klinger solo, non durerei fatica a crederlo. Ma – purtroppo – c’è dell’altro. Dicevo da principio che in questa esposizione si pose alla concordanza di tutte le parti col monumento, cosicchè risultasse un medesimo concetto. Questo principio valse specialmente per le decorazioni, alle quali consentì espressamente Klinger. Ora il motivo che ritorna sempre in tutti gli affreschi laterali e che sono dovuti al celebre Klimt, è il finale della nona sinfonia di Beethoven: «Freude, schöner Götterfunken!». Ed ecco la rappresentazione del Klimt . Prima una serie di figure di donna che si librano orizzontalmente e si lanciano una dietro l’altra; con le braccia distese in avanti: significano l’ansia degli uomini in cerca della felicità. La corsa è contrastata dalle potenze nemiche che il pittore vede in Tifeo, il gigante contro il quale gli dei stessi si combattono invano e nelle sue tre figlie, le terribili Gorgoni. Voluttà, Intemperanza, Lussuria, Morbo, Pazzia e Morte, sogno orribile che ha creato la fantasia dell’artista. E qui – sia detto di passaggio – il più completo verismo; la negazione dell’arte classica. Corpacci deformi e schifosi di femmine, nudità ributtanti, le pose più apertamente oscene, gli atti più animaleschi. Da questa scena al di sopra delle «sozze scapigliate fanti» si stacca una moltitudine di strisce, variamente colorate, che si svolgono come le vibrazioni longitudinali di un’onda fino dall’altra parete 4). Sopra questa finalmente il Klimt dipinge la felicità, il regno ideale. Anzitutto la Poesia che disseta un po’ l’uomo dalla brama innata: poi le arti ci conducono nel regno ideale, l’ultima meta. Qui un coro angelico canta: «Freude, schöner Götterfunken!». E dietro a loro l’uomo, dopo tanti travagli, ha trovata la felicità nell’amplesso con una donna, nella soddisfazione dell’amore. «Dieser Kuss der ganzen Welt». È chiaro? Gustavo Klimt completa Massimiliano Klinger, ed ambedue interpretano Beethoven e tutti i moderni. Klinger dunque ha deciso; l’arte di oggi si è dichiarata per la religione del piacere, il paganesimo, o quello che si chiama con una parola nuova «ellenismo». V’è ancora chi ne dubita? Osservi le decorazioni di Andri nella sala destra, un affresco specialmente intitolato «Freude...», dove è dipinto ogni allettamento del senso e perfino oscenità aperte; guardi attorno alle altre decorazioni, e non vedrà che un’immensa apoteosi della forza, dell’amore sensuale, della carne, della passione. «E quindi sien le nostre viste sazie!». Tiriamo, amici, le conclusioni amare. L’arte moderna in paesi che si chiamano cattolici, è perfettamente anticristiana, spiccatamente pagana. L’arte di oggi non che nipote, non è nemmeno parente a Dio. Sparì la fede che a Raffaello dipinse le tele, scomparvero i Cherubini di Fra Angelico e le Madonne del Perugino, rinacquero le greche etere e Venere risorse trionfante dalla schiuma del mare. La religione del dolore e della prova, il cristianesimo, ha ancora i suoi templi, i suoi sacerdoti; ma i sacerdoti di un’altra religione, quella del piacere, erigono un tempio in mezzo agli altri, un panteon agli dei risorti. E su questo tempio sta scritto: «Der Zeit ihre Kunst...». Sì è dolorosa la constatazione «Al tempo la sua arte!». Quest’arte rappresenta la filosofia delle grazie come la diceva Wieland, la filosofia del gran mondo e del tempo! «Un pubblico numeroso e fremente di santo entusiasmo» 5) s’avvia ogni giorno alla «secessione», paga ed ammira: signori della Corte, borghesi, vecchi, giovani, fanciulle, tutte le «classi colte» portano il loro tributo. Fino a ieri i visitatori secondo la Neue Freje Presse erano 46.500. E così, amici, mentre i cristiani discutono, se la cultura moderna sia conciliabile col cattolicismo o no, risorge il Nirwana e il culto del superuomo, e mentre i cattolici innalzano monumenti al Redentore sulle vette dei monti, lassù sta ancora per Siegfried (il rappresentante della nazione tedesca) la bella vergine del Walhalla dormente, ch’egli dovrà risvegliare al suo amore, non curando le fiamme, né le rupi ardenti, perché lassù troverà la felicità, perché questa è la sua religione, la filosofia delle grazie! Oh che San Marco di Venezia, Santa Maria del Fiore di Firenze, San Pietro di Roma, l’eredità stessa dei capolavori greci e romani, serene speculazioni del bello, preservino la nostra borghesia da una simile decadenza! Restino le glorie dell’arte, le glorie della religione del Golgota! A. Degasperi 1) In questi 15 anni di mano al Klinger uscirono le seguenti opere: Salomè, Cassandra, Anfirite, la Crocefissione di Gesù, Cristo in Olimpo... 2) Secondo la regola di Lessing, dedotta dal Laocoonte. 3) Noto qui che il Klinger l’ha rotta affatto con la tradizione: Cristo è completamene nudo. La croce è composta di due rozze travi non quadrate, il corpo è quasi a cavalcioni di un legno che esce dalla trave principale. 4) Sono parole del signor G. M. di Graz, che nel Popolo del 14 maggio si mostra entusiasta del «Beethowen». A discolpa aggiungiamo che non parla delle decorazioni, e che evidentemente lo conosce solo dai giornali. 5) Forse rappresentano i desideri e le aspirazioni dell’uomo, i quali vanno via ad altra meta. |
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| [...] Signore, signori ! Io vi vengo a parlare ancora di ideali, di programmi, di idee! C’è anche fra i cattolici un gruppo di empirici ai quali tutto questo pare un chiacchierio inutile. Altri invece, buon’anime, lasciano volentieri che i giovani sognino, purché non facciano altro che sognare. Non baderemo né a questi né a quelli, ma nella coscienza dei doveri del presente e dei diritti che aspettiamo dall’avvenire, discutiamo per ora l’oggi, preparandoci un poco la strada per l’indomani. Oggi nel campo studentesco le cose sono a questo: la maggior parte degli studenti, chiusi in una società, di cui l’esistenza sola basta a testimoniare il relativismo della fiacca intelligenza trentina ; gli altri pochi raggruppati intorno ad una bandiera issata di recente fra applausi scarsi, ma con intendimenti ben determinati . I primi, quando cessarono di essere tutto e tutti, non trovarono nel loro programma un solo concetto direttivo che positivamente li distinguesse dai nuovi venuti, e per conservare l’armonia degli intenti finirono col dichiarare di non essere qualcosa e si chiamarono i non clericali; i secondi, staccatisi in prima dagli altri per un problema privato, di scienza, maturando le idee e i tempi, vennero successivamente a schierarsi con coloro che si dicono cattolici in senso più stretto, perché non staccano la vita domestica dalla pubblica, ma vogliono che l’uomo intero segua i cenni della Chiesa nella quale crede. Le società cattoliche trovarono però fra la gioventù studiosa due grandi nemici: le tradizioni del passato e le correnti predominanti del presente. Il passato della vita universitaria, il passato recente non conobbe società che facessero calcolo anzitutto delle convinzioni morali-religiosi e, mentre nelle università si combattevano epiche lotte fra i tradizionali principi cattolici e le nuove idee sorte in nome di una scienza che fece poi il fallimento, toccava ai figli di un paese cattolico starsene indifferenti quasi che non si trattasse di cose loro. Era forse riflesso del liberalismo moderno, indiscusso da altri tempi, forse anche nei buoni paura di crear maggior male. Ma intanto si fece strada il pregiudizio che le società dovessero di regola essere neutre, che le confessionali portassero inutili discordie, e le mamme ancor ora, quando congedano il candidato, gli raccomandano a calde lacrime le solite devozioni e continuano: Non impicciarti con società o, alla più, sta là dove ci possono star tutti. E per fortuna le poverette trovano anche qualche buon prete che sa tranquillarle in proposito! Da questa atmosfera infida parve un giorno ci dovessero liberare i socialisti. Erano giovani e si dicevano fautori dell’avvenire; si presentavano in nome di una dottrina e di un movimento ch’era ad un tempo religione e programma d’una vita intera. Parlavano di principii e di idee, riducevano la lotta nei suoi veri termini. «Dove passerete voi, passeremo anche noi» scrissero dopo il congresso di Pergine . Non fu vero! Nessuno s’accorse dopo l’entrata del socialismo, che negli studenti – le eccezioni non contano – siano penetrate nuove idee, abbiano fatto scuola nuovi ideali, e soprattutto che questi ideali siano stati messi a programma d’una società o scritti su di una nuova bandiera. Tutto si ridusse ad un po’ di radicalismo dalle tinte più vivaci; in questo o quel congresso si udirono delle frasi più forti e più arrischiate. Che era stato? I socialisti avevano cambiato al vecchio fonografo liberale il cilindro, ve n’avevano sostituito uno nuovo e si sonava allegramente; erano le medesime frasi, gli stessi motivi, ma più ben intonati, più forti secondo le nuove invenzioni. Di queste frasi parecchie suonavano accusa contro di noi; le più parevano fatte apposta per crearci attorno pregiudizi ancor maggiori e così s’aggiunse al passato il presente. Il nostro programma, le nostre idee giungono quasi sempre indirettamente agli orecchi degli studenti che escono di ginnasio, quasi mai a quelli dei genitori. Gioverà oggi che parliamo in questa Trento, centro intellettuale – almeno per gli studenti – ripetere quello che siamo e quello che vogliamo. L’Associazione universitaria ha scritto sulla propria bandiera: Pro Fide, Scientia et Patria. Permettete, o signori, che oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astrattismi ed esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici italiani, democratici! Ruskin disse una volta: «Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla Patria ed alla società». Con la nostra formula noi vogliamo quello che desiderava Ruskin. Cattolici! Siamo al punto fatale della divisione. Non risusciterò, signori, antiche polemiche, né ripiglierò i classici argomenti che svolsero i trentini in quei giorni, in cui si dovette rompere un infausto letargo e riscuotere il paese a quella vita, di cui oggi appunto ci rallegriamo. Ma è strano che di tutti quei rumori non sia arrivata nei circoli universitari tanta eco, da giustificare e motivare il nome che abbiamo dato alle nostre società. Giovani, negli anni nei quali con tutta l’anima si cerca ovunque il vero e l’ideale, venuti alle università, che furono per tutto il secolo XIX le officine di nuovi rivolgimenti intellettuali e sociali ostili al cattolicismo, avrebbero dovuto accorgersi che, alle soglie dell’aula magna, vengono a toccarsi cogli estremi confini due mondi avversi: mondi di idee e di convinzioni, ma che fuori nel turbine sociale corrispondono a due grandi soluzioni pratiche e radicali della vita presente ed avvenire. Questo contrasto, questa lotta suprema essi avrebbero dovuto affrontare e coraggiosamente superare in sé stessi e consacrare gli entusiasmi e le forze giovani all’una causa o all’altra. Si preferirono invece – pochi eccettuati – alle soluzioni radicali le soluzioni intermedie. Le idee «moderne» fecero un vile compromesso con quel po’ di cattolicismo che doveva restare per amor delle tradizioni familiari, ridotto naturalmente ad una somma più o meno grande di messe basse per non disgustare le ferie alla mamma. E quel tanto di cattolicismo che non si adattava al compromesso venne chiamato clericalismo, e a noi, che decisamente avevamo preso le parti di uno dei combattenti e ci eravamo dichiarati per una soluzione radicale, si gridò: fanatici, e turbatori della pace. Signori, anche Cristo un giorno ha detto: Non vengo a portar pace, ma spada. Ma regnava una pace in cui il bene era confuso col male, col vantaggio del peggio. Il Trentino è un paese, negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano. Mentre la fede dei lavoratori di questa dura terra trentina restò salda malgrado la marea, che ascendeva quasi difesa da baluardi naturali, non ne rimasero illese le nostre città, i nostri borghi. Lo spirito invadente del paganesimo, qualunque nome portasse, penetrò in questa società colta, ove coltura divenne più o meno sinonimo di scetticismo. O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri, la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono inspirati ad ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicismo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose. I nostri contadini comprendono che fra loro e i signori c’è una grande diversità di convinzioni, benché non sappiano misurare la profondità dell’abisso; e quando muovono alla chiesa e vedono il dottore o l’avvocato seduti alla porta del pizzicagnolo o dell’oste del paese osservarli con un cert’atto di superiorità e disprezzo, brontolano qualcosa che esprime il voto di un popolo intero più che non avvenga in cento comizi. E se domandate loro dell’origine di questi mali, vi rispondono: Ma, sono stati all’università! Conosco un buon uomo intelligente che aveva posto le più belle speranze su di un nipote che in ginnasio non aveva mai fatto parlar male di sé. A suo tempo, espresse allo zio il proponimento di andare all’università, e lo zio, pur continuandogli la sua benevolenza, incominciò a dargli del lei. E al nipote meravigliato motivava la mancata confidenza così: Mio caro, lei ora va all’università, quando ritornerà non penserà più come me ed è meglio ci avvezziamo ora a trattarci con deferenza. Nessuno vorrà negare che i nostri popolani nell’indicare la origine del male, non colpiscano nel segno. Sì, dall’università ci venne il paganesimo intellettuale, se non sempre la crisi morale. Ebbene, o signori, volevate voi che giovani convinti della loro fede ed entusiasti della sacra poesia della religione paterna, saliti là dove più distintamente s’ode il rumore della battaglia suprema, se ne stessero indifferenti osservatori? No, noi abbiamo ascoltato la voce del dovere, ci siamo stretti in un fascio, abbiamo spiegato la nostra bandiera e abbiamo offerto alla causa cattolica il nostro tributo di forze giovanili. Noi, ricordandoci delle parole di Montalembert , non abbiamo nemmeno supposto di non accettare le condizioni di un’epoca militante. Non bastava conservare il cristianesimo in sé stessi, conveniva combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti. Contribuire ora e più tardi al ritorno delle classi colte trentine all’antica fede della città del Concilio, e distruggere così l’abisso fatale aperto fra il popolo e la colta borghesia, ricondurre quell’armonia necessaria ad un popolo tendente ad alti destini, ecco quello a cui noi tendiamo e che esprimiamo mettendo a capo del nostro programma la parola cattolici. E a questo scopo ci soccorre la fede che solleva i cuori e la scienza che arma la mente. A chi nega la conciliazione dell’una con l’altra, risponda Pasteur . Disse una volta ad un cotale che gli domandava se fra i risultati delle sue esperienze e la Bibbia avesse mai trovato contraddizione: Signore, io passai la vita nello studio, e giunto alla fine credo quanto crede un povero contadino della Bretagna. Se vivessi ancora penso che le mie esperienze mi condurrebbero a quella fede che anima la più povera vecchiarella brettone! Signore! signori! I polacchi dicono che per loro polonismo e cattolicismo è la medesima cosa. Polacco significa già cattolico. Parlando di noi trentini potremo dire a più ragione: Cattolici significa già italiani. E avremo una parola di meno nella formula. Ma viviamo, o amici, in un paese di confine, ove valse finora per buon italiano chi giurò spesso d’esserlo, ove una borghesia di petrefatti ricantò nei caffè e nelle accademie ideali vecchi, tramontati già, se non mai sorti, per le masse popolari, belli se commuovono un popolo intero, quando seguirli venga stimato virtù; spogli di splen dore, abbrutiti quando non facciano conto della realtà delle cose e dell’anima popolare e vengano rappresentati senza uomini o partiti come passione senza il riconoscimento delle leggi morali e dell’ordine civile! Questi uomini e questi partiti o giovani, che ne ereditarono il fonografo, ripetono ancora oggi in buona o mala fede una terribile accusa contro i cattolici: mancar essi di patriottismo ed amore alla propria nazione. Ricorderò sempre, o signori, con sdegno la risposta che a me e ad un mio collega diede uno studente radicale in Vienna, quando eravamo accorsi come tutti ad interessarci d’una questione comune: Voi cattolici – lo sapete – non vi teniamo come italiani. Ah! Viva Dio, avremo dovuto rispondergli, i cattolici sono italiani da secoli, da quando sorse la nazione intorno alla cattedra di San Pietro; voi siete – se lo siete – italiani da dieci-dodici lustri. I cattolici hanno dietro quasi due periodi storici che furono guelfi, voi, forse, il ghibellinismo di cinquanta anni. Ma ci parve meglio ridergli in faccia. E così dovrei far oggi e passar oltre e dire: Guardate che cosa hanno fatto i cattolici trentini per la difesa della loro lingua e dei loro costumi, e vi basti. Se oggi sviluppo alquanto il nostro pensiero, non è per rispondere a certi giovanotti che di questi giorni proprio vanno, a rovina della patria e a vantaggio di un partito, ripetendo antiche menzogne, né per ottenere la patente di buon italiano da certi signorini che poi dichiarerebbero, magari dal podio del teatro sociale, di non crederci; ma io penso alle madri ed alle famiglie, ove la calunnia poté trovare credenza. A loro gioverà gridare di nuovo: No, questi giovani che si propongono d’essere anzitutto cattolici, non dimenticano socialmente di essere anche buoni italiani. Difendendo la fede e i costumi dei padri, compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemoratori delle glorie altrui ripetono doversi sacrificar tutto e idee e convinzioni. Questo concetto trapelò anche da noi in molte occasioni e quando si dice che davanti al monumento a Dante devono sparire tutte le misere divisioni di partito, che cosa si vuole insegnare altro alla gioventù se non altro che la Nazione va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Signori, non è vero! Noi ci inchiniamo solo innanzi a un Vero supremo indipendente e immutato dal tempo e dalle idee umane e al servizio di questo noi coordiniamo e famiglia e patria e nazione. Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo fino là dove finisce il cattolicismo. Pratica: non furono i cattolici che ordinarono i fatti di Wreschen, ma furono coloro che senz’altro ritegno di giustizia e moralità gridano: la nazione soprattutto. No, Iddio, il Vero innanzi tutto! Nella pratica della vita questo principio non ci ha impedito di accorrere ogni qualvolta lo richiedesse l’onore di tutti gli italiani: e noi giovani anche per l’avvenire non perderemo nella nostra propaganda democratica cristiana; rammenteremo sempre che vogliamo creare non soltanto buoni cattolici, ma anche buoni italiani, amanti della lingua loro e dei loro costumi, fieri di appartenere a quella Nazione che fu nella storia la prediletta della Provvidenza. Un’altra parte del nostro programma è espresso nella parola «democratici». Signore e signori! Se le esigenze del Congresso e la ristrettezza del tempo lo permettessero, io vorrei parlare a lungo su questo argomento. E non perderei tempo! A quei signorini universitari che se ne stanno anche durante gli anni dello slancio e dell’altruismo epicureamente lontani dal popolo e s’avvezzano per tempo al caffè donde c’è venuta una borghesia parassitaria, vorrei ripetere oggi questa parola. Anche in questo riguardo il periodo universitario è fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti. O che da giovani ci si avvezza a ridurre il mondo ai giornali che si leggono e ai membri della propria classe, e allora il giovane, divenuto dottore, avvocato, non discenderà fra le grandi masse popolari come fratello ai fratelli, ma come rappresentante di quella borghesia che si attirò nei tempi nostri tanti odi e maledizioni. O che si vede già da giovani oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune. Non è mancanza di modestia, o signori, se noi, studenti cattolici, ci mettiamo senz’altro fra i democratici. Io credo che nessuna associazione universitaria ha tanti membri che si siano, come molti dei nostri, buttati all’istruzione popolare ed abbiano affrontato con coraggio, quando i loro studi lo permisero, il problema di creare nel popolo trentino democratici cristiani. Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori dell’uomo, in tutta la vita pubblica. Signore! signori! Con questo programma che abbraccia tutta la vita, abbiamo alzato l’anno scorso, all’aurora del secolo XX la nostra bandiera. Questa bandiera l’abbiamo portata in mezzo alla gioventù studiosa, chiamando a raccolta e continuando a combattere. Noi vogliamo creare caratteri, vogliamo chiarezza d’idee. La nostra società è sorta come un’accusa contro i compromessi morali e religiosi. Noi rompiamo questa massa incolore, fortemente, ma lealmente! Numquam incerti, semper aperti! Non tema qualche buono che con ciò creiamo dissidi incancellabili. Vogliamo la guerra, ma per la pace. Quando gli studenti si troveranno di fronte con ideali chiari, con propositi precisi, sarà più facile intendersi. Ma fino a che regna la nebbia e il mare batte furioso, noi – la cavalleria leggera dell’esercito cattolico – stiamo sull’attenti, e al primo rumore che precorre l’assalto, gridiamo rivolti a tutti: Alle dighe; e vi ci lanciamo per i primi! |
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| 01901-1905
| Nel N. 199 dell’Alto Adige il prof. F. Menestrina rivolge agli studenti universitari una parola franca, la quale suona come un rimprovero, meditato da tempo, ma lanciato all’ultima ora, quando cadde la speranza di un’autocritica che avrebbe forse salvato a qualche studente almeno il diritto di parlare di dignità e di carattere. Benché il rimprovero non sia diretto propriamente a noi dell’Associazione cattolica che non abbiamo adottato una formula radicale alla quale non ci sentivamo di corrispondere in alto – almeno nella sua integrità – tuttavia ne fo cenno qui, perché mi dà occasione di esporre alcune idee in proposito, che maggiormente si accentuarono nella discussione su questo argomento nell’ultimo nostro convegno. Penso anzitutto che in quanto all’ideale tutti si trovino d’accordo: converrebbe andare tutti ad Innsbruck, prender d’assalto le cattedre parallele, vincere o venir vinti, restando in ogni caso per lo meno con vantaggio eguale. Ma nella pratica è possibile che tutti o quasi tutti si concentrino nell’università contrastata? Ragionavamo di questo con un amico che poi ebbe a dimostrare coi fatti la sua piena adesione alla tattica ideale, e calcolavamo il numero di coloro che avrebbero potuto trasferirsi da Vienna a Innsbruck. Ebbene? quattro o cinque soltanto. Parlo sempre dei trentini, ché degli adriatici le cose stanno pur troppo diversamente. Gli altri, chi per ragioni economiche, chi per ragioni di studio imprescindibili non avrebbero potuto compiere la concentrazione che a costo di sacrifici impossibili. Ma si dice che a Graz stiamo meglio in questo riguardo e che un numero abbastanza forte della facoltà giuridica potrebbe senza gravi sacrifici portarsi ad Innsbruck. Ciò giustifica e motiva pur troppo il rimprovero del prof. Menestrina, ma non dà ancora ragione a coloro che vorrebbero ripetere come parola d’ordine per la pratica avvenire «Tutti ad Innsbruck». Avremmo diritto di far questo quando per lo meno / degli studenti trentini fossero nella possibilità materiale di stare alla consegna, altrimenti si mette a rischio... nient’altro che l’onore. Per ora – direbbe il sottoscritto se avesse voce in capitolo – facciamo così: gli studenti che appartengono ad una delle società accademiche vengano interpellati uno per uno dalla presidenza. Il presidente cioè s’informi quali soci possano recarsi ad Innsbruck e ne faccia loro questione d’onore in maniera che il socio venga moralmente costretto a seguire la tattica della maggioranza. Anche i circoli universitari potrebbero far molto. Cosa sarebbe p. e. se in certi circoli, ove di un certo onore convenzionale da fioretto ce n’è d’avanzo, si obbligasse chi la voce pubblica mette tra i «possibilitati» a recarsi ad Innsbruck? So che qui c’è di mezzo la questione degli adriatici, una questione seria. Ma non si potrebbe ridurre anche quelli ad aderire alla tattica di Innsbruck per mezzo di persone serie ed influenti di laggiù? Ad ogni modo badino i Trentini prima a fare il proprio dovere, per poter poi colle spalle al muro rinfacciare gli altri di codardia. Un’altra faccenda dove ci sarebbe da ridire è quella dei comitati pro università. Sorti una volta in mezzo alla burrasca, quando valeva più l’impeto o l’entusiasmo che la moderazione o la costanza, furono costituiti solo di studenti, quasi che la questione universitaria passasse soltanto sopra le loro spalle. Ora, senza voler criticare l’opera loro fino ad oggi, credo però di non dir troppo se asserisco che per l’avvenire, essi saranno inetti a compiere un lavoro serio e continuo, nel quale devono godere la fiducia di tutto il paese. A mio credere, il lavoro che si dovrà fare richiederà più le attitudini del vecchio che quelle del giovane, o almeno ambedue proporzionalmente. Alle università quindi si eleggano comizi misti di studenti e d’altre persone attempate, il cui nome solo infonda fiducia. S’eviteranno così certe rappresaglie da settari, certe imprudenze e peggio, che possono o avrebbero potuto rovinare la buona causa. Concludo: organizzate in seno alla società e circoli studenteschi il concorso ad Innsbruck e così lavoreranno per lo scopo comune tutti, chi va e chi resta; costruite comitati che diano grande affidamento di sé, e nel Trentino avrete il concorso di tutti e non soltanto la bolsa lirica della stampa. L’associazione cattolica si è già espressa favorevolmente per queste idee. Riusciremo dopo tutto questo? Non lo so; ma almeno sarà salvo l’onore, e potremo dire come il vescovo Notker a Hugo von Sitten: Volui et volo; sed conclusi summa in manu Domini et nos et opera nostra; est enim quae nos trahit necessitas non voluntas, et iniunctis iustare nequimus: ex eo minus vota exsequimur a.d. |
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| 01901-1905
| La giornata di domenica ha mostrato al Trentino uno spettacolo nuovo. Dopo un lavoro sereno ed elevato, di tre giorni continui, intorno ai problemi più intensamente moderni, che interessano la religione e le classi superiori, noi abbiamo fatto un’affermazione solenne e vigorosa di coscienza cattolica e di principi democratici. Quei cinquemila operai e contadini che compatti passavano per le vie di Trento, superbi del loro nastrino e dei bianchi garofani, stretti intorno alle loro bandiere, avranno certo turbato i sonni felici ed eccitato il sangue di certi borghesi camorristi e dei settari del socialismo, ma hanno anco detto chiaramente al paese: La forza, l’avvenire siamo noi. L’hanno detto e lo saranno. Chi, anche scettico, ha assistito al nostro congresso, osservando, lo svolgersi laborioso della discussione in tutte le sezioni, chi vide la splendida chiusa della festa, ne dovette necessariamente trarre la convinzione profonda che l’idea democratica cristiana nel nostro paese è in movimento ascendente. E nella democrazia è la forza, l’avvenire. Noi non dobbiamo però addormentarci in questo bel sogno, non cullarci neghittosamente nelle belle speranze, per quanto fondate, non riposarci sui colti allori. Ma i bei sogni devono allettarci ad affrettare la corsa per raggiungere concepite, le speranze, accrescerci l’ardore dell’azione, moltiplicare gli sforzi tutti. In questi cinque anni noi abbiamo fatto un lavoro immenso, abbiamo percorso una immensa strada, è innegabile. Abbiamo coperto il paese di una fitta rete di società economiche, di società di credito, di consumo, di produzione, di assicurazione e di smercio e le abbiamo riannodate intorno a fiorenti società centrali che ne sono il sostegno e l’anima e che coordinano tutto il movimento. Quasi quattrocento società, ben organizzate e solide, e poderosi istituzioni centrali quali la Banca, il Sindacato, la Cassa centrale, la stamperia... in soli cinque anni! E tutto per il popolo liberato dalle angherie, dall’usura dallo strozzinaggio nel credito, nel consumo, nello smercio, nella produzione ed assicurato mutuamente nelle immancabili avversità! Quanto cammino in pochi anni! Ma la via non è ancora percorsa, la fabbrica non è ancora compiuta. Molto ci resta a fare ancora; basta leggere le risoluzioni del congresso , specialmente quelle che riguardano l’organizzazione professionale. E se ci resta molto ancora da fare estensivamente, quanto non ci resta da fare intensivamente! Nel campo della propaganda, specialmente e dell’educazione, siamo si può dire ancora agli inizi. In questi cinque anni abbiamo create le società, ora ci tocca di fare almeno in parte, i soci. Gli avversari più di una volta gettarono in fronte ai nostri l’accusa di incoscienza e risero dei 33mila cooperatori, portati avanti come sostegno delle idee cristiano-sociali. La verità anche dolorosa, è giovevole confessarla, e ce lo impone anche quella lealtà verso gli avversari che dev’essere la nostra base d’azione. Sì, non esito a dirlo, tra i nostri soci vi sono molti, che restringono le loro vedute ad una concezione gretta del nostro programma, e riducendolo a una mera azione economica. Questo è perciò il compito che ci spetta: creare una coscienza sociale in tutti i soldati delle nostre file. Noi dobbiamo persuadere i contadini e gli operai, che la democrazia cristiana, seguendo i sapientissimi indirizzi di Leone XIII, mira ad un totale rinnovamento della società, ad una instauratis ab imis fundamentis, per raggiungere la quale vogliamo che i rappresentanti delle nuove idee lavorino nelle assemblee legislative a difendere la Chiesa e il popolo. Bisogna persuadere i nostri cooperatori, che le istituzioni economiche non mirano soltanto a dare loro il fabbisogno ad un prezzo onesto e a liberarli dall’usura; ma che, senza un alto ideale cristiano sociale – che giustifica e spiega la aconfessionalità – esse perdono il loro fine mediato, ma importantissimo, e tosto o tardi degenereranno nelle miserie del neutralismo. Che, infine, quantunque, e anzi appunto perché la questione sociale è una questione essenzialmente morale, essa deve abbracciare tutto l’uomo, non deve limitarsi ad una visione unilaterale – come pur avviene di molti che pongono l’essenza del cattolicismo e della vita religiosa in certe esteriorità che formano a mala pena, se la formano, la scorza; ma deve pervadere tutta la vita sociale e accanto ai rapporti di carità occuparsi dei rapporti di giustizia. È una coscienza insomma che noi dobbiamo creare tra i nostri, integralmente religiosa e perciò anche sociale; coscienza dei loro doveri e soprattutto dei loro diritti di uomini e di cittadini, coscienza dell’importanza storica e delle altissime finalità, che, in questo secolo di crisi, attendono gli sforzi delle classi inferiori organizzate. Allora noi potremmo dire di essere veramente padroni del paese, quando nell’animo di tutti i nostri sarà diffuso un sentimento di un dovere sociale da compiere, quando ognuno saprà che egli non è membro di una società sorta nel suo paese per necessità tattiche dal momento, ma l’anello di una grande catena, la particella di un immenso edificio, che l’evoluzione dei secoli e il maturare delle idee vanno inalzando. Allora tutti staranno al loro posto di combattimento colla coscienza di combattere per la civiltà ed il progresso umano, che si aggirano sempre attorno ai principi del cristianesimo. Allora noi saremo invincibili. Il Belgio insegni. Al lavoro dunque! Il nostro Congresso ci ha additati tre mezzi potenti per la propaganda di idee: sta a noi il profittarne. E in primo luogo la stampa. Noi della stampa nostra ci siamo troppo poco occupati, abbiamo trascurato di formare intorno ad essa quel nucleo di studiosi che ne sposano in parte, in parte ne determinano le idee e ne sono i più validi sostegni. Noi abbiamo trascurato di migliorarla e di diffonderla, di assicurarle finanziariamente l’esistenza. Non dimentichiamo che una campagna giornalistica ben condotta ha vinto più d’una battaglia, che il giornale penetra e porta il germe fecondo di discussione e di convincimenti ove non arriva la viva voce, che l’argent fait tout, il quarto potere può ancora più del denaro, perché, alla fine, nell’uomo moderno, l’azione è determinata dall’idea, né le masse si muovono se il terreno non è preparato. In secondo luogo le conferenze. Il congresso ha deciso di promuovere un’attiva formazione d’una squadra di conferenzieri, che si rechino a propagandare le valli e diffondervi l’idea sociale. La simpatica associazione universitaria, che nella sua breve vita può orgogliosa mostrare un vasto lavoro d’istruzione popolare, ha raccolto con tutto l’entusiasmo giovanile la proposta, l’ha confermata nella sua adunanza speciale e già ieri uno dei suoi più valenti oratori cominciava, a San Lorenzo, la serie delle conferenze popolari che continueranno per tutto il mese. E ben venga quest’attività giovanile, ma sia sorretta dagli sforzi e dalla cooperazione di tutti. Né si restringa ai soli studenti; i nostri operai fatti coscienti ed educati alle battaglie della parola saranno i nostri apostoli migliori; essi conoscono le intime fibre dell’anima popolare, essi sentono i battiti del cuore di quella plebe, dalla quale sono elevati e sapranno penetrarvi, persuaderla, guadagnarla a noi. E finalmente venga la geniale, simpatica nuova istituzione: il «Giovane Trentino». Sì, la nostra società sportistica – ché nel primo convegno parziale dei soci ha preso questo nome, simbolo degli ideali tutti che affratellano, e delle speranze nostre nell’avvenire – è destinata a portare colla schietta energia e l’alacre entusiasmo dei giovani l’idea sociale in tutte le vallate del nostro paese, a trarre a noi tutti quelli che ci guardano diffidenti perché non ci conoscono, che stanno a noi lontani, perché non sanno che nel nostro programma è scritto tutto quanto v’ha di buono, di bello, di utile alla vita moderna. All’opera dunque, nel lavoro è la vita! Un reduce del Congresso. |
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| 01901-1905
| Amici ! Nella nostra terra trentina vennero eretti sul principio del secolo nuovo due monumenti. L’uno si va elevando lassù tra il verde delle conifere e voi, contadini di Civezzano, quando uscite la mattina al lavoro dei campi siete soliti ammirare quella sua facciata bianca che s’impone sempre più a questa conca di Pergine e alle valli; l’altro , se lo cercate, lo trovate in un giardino pubblico; e gli passa davanti più o meno riverente la folla dei cittadini che si riversa la sera in Piazza Dante cercando svago o spasso o un ritrovo. Questi due monumenti, o amici, son come una pagina della nostra storia modernissima e, ad un tempo, segnano i due cardini fatali intorno a cui si svolgeranno le lotte nostre nel futuro, in un futuro molto vicino. Sorge il primo presso il Santuario della Madonna di Pinè, ove i buoni trentini quasi annualmente vanno in pellegrinaggio a rinforzare e a dimostrare il sentimento religioso e la pietà. Sorge dedicato al Divin Redentore, quasi protesta che il Trentino dopo un secolo rinnegatore dei benefici del cristianesimo, vede sempre in lui, nel Nazareno, la verità e la salute. Sta là come un giuramento che il Trentino rimarrà sempre la diocesi degna di un san Vigilio. Quelli che verranno dopo di noi e leggeranno delle generose offerte dei comuni e dei privati, saranno grati alla generazione presente e la loderanno. Ma d’altra parte vi sono anche dei trentini degeneri che non credono quello che ci insegnano le nostre mamme, non ascoltano più la voce delle nostre campane, dimenticano tutto il buon Trentino passato, seminato di croci e di campanili. Anche in questo Trentino resta un ricordo marmoreo ed è il monumento a G. Canestrini , inaugurato clamorosamente in Trento fra applausi e imprecazioni. Questo monumento – l’hanno dichiarato essi – non fu omaggio ad uno scienziato più o meno grande, ma omaggio a idee e teorie contrarie a quelle che abbiamo creduto fino ad ora, e quello che si disse e si fece in quell’occasione fu come uno schiaffo in viso a chi sente e pensa cattolicamente, fu una sfida lanciata a tutti che vogliono il Trentino cristiano, dal Vescovo all’ultimo prete di montagna, lanciata a voi buoni contadini, a voi buoni operai. Ebbene, o amici, la storia dovrà decidere se noi cattolici trentini abbiamo accettato coraggiosamente la sfida, e se abbiamo combattuto da valorosi la battaglia. La guerra, la battaglia! Voi abitatori delle valli e dei monti non ne avete ancora sentito che i rumori lontani, ma ora il nemico è venuto ed ha fatto la dichiarazione di guerra. Per cinque anni giravano le città e i villaggi, parlando di vantaggi economici, di progresso e di scienza. Ma ora che ci hanno detto chiaro che cosa essi intendano per progresso, di qual specie di scienza intendevano di dire: baldanzosi per la conquista di un paio di città, si credettero sicuri tanto da calare la maschera e lanciar sfide a tutto il Trentino. Ebbene, noi cattolici, questa sfida l’accettiamo: e l’accettiamo non soltanto per respingere gli aggressori ma anche per conquistare. In queste due parole c’è tutto il nostro programma: formare una falange irremovibile che sostenga qualunque assalto e non lasci passare il nemico e contemporaneamente addestrare delle squadre di cavalleria leggera che muovano all’assalto e alla riconquista: c’è posto per i vecchi e per i giovani. Accenno a ciò qui in questa adunanza, credo opportunamente, perché i battaglioni di questo esercito sono formati quasi tutti dalle Società agricole operaie. Ricordatevene, o amici, sulle Società operaie pesa ora, si può dire, l’esito della battaglia, il destino della patria. Che non avvenga di nessuna di quelle che sono qui rappresentate ciò che accadde a qualcun’altra, la quale limita la sua attività a qualche pratica religiosa in comune, alla bandiera forse issata con qualche entusiasmo e poi ripiegata e messa nell’armadio ove con essa viene seppellita anche la vita sociale. Si ricordino tutti quelli che lavorano nel campo delle società operaie che esse hanno assunto ora – di fronte al Trentino cattolico – un grande compito d’istruzione e di educazione. In piazza ora si parla stortamente e a rovescio dell’inquisizione, di Galilei, dell’evoluzione, della democrazia; ebbene ora conviene spiegare nelle Società operaie che cosa fu l’inquisizione, che ne fu di Galilei, che cosa è l’evoluzione, qual’è la democrazia vera, che cosa vuole la democrazia cristiana. Solo, o signori, a patto di formare nel Trentino una coscienza nuova, d’infondere nelle valli un nuovo slancio di vita, saremo degni della vittoria. Qualcuno mi obbietterà che è cosa difficile, impossibile. A quello io addito Civezzano, perché gli serva d’esempio. Anche questo paese una volta andava a rilento e passava per «malva», ed ora dobbiamo venire da Trento a Civezzano per imparare che cosa sia la vita che cosa frutti un lavoro continuo. Con una settantina di Società operaie come quella di Civezzano noi rideremmo di qualunque sfida. Avanti dunque – dico rivolto alle altre – al lavoro, preparatevi alla guerra! Due grandi eccitamenti, due grandi fiotti di vita sono venuti a noi in questi ultimi tempi: 1) il Congresso cattolico che fu come le nostre grandi manovre, ove si vide il lavoro pratico, sociale prestato in cinque anni dai cattolici, e si sentì anche lo spirito nuovo che informava le masse dei contadini e degli operai poiché, o amici, non era più «la scarpa grossa» isolata, impaurita da ogni cosa nuova che si batteva sui marciapiedi di via Larga, ma erano cinque, anzi diecimila «scarpe grosse» organizzate in assetto di guerra; e passavano via superbi della loro coccarda sotto una bandiera, soggiogati da un’idea comune; 2) il Congresso degli altri, l’offesa recata, la sfida lanciata . C’è qualcuno al quale piacerebbe quel bustarello tolto via donde l’hanno messo e rotolato chissà dove! No, amici, lasciatelo lì anche perché ci serva d’ammonimento. Come quel generale persiano aveva l’incarico dal re di ripetergli ogni qual tratto: «O re, ricordati della sconfitta di Maratona», affinché il re ben si preparasse alla riscossa contro la Grecia, così quel busto ci ammonisca sempre del dovere sacro che abbiamo di rintuzzare l’offesa, di marciare alla riscossa. Se ognuno di voi che passa davanti al busto di Canestrini si ricordasse dell’obbligo di istruirsi, di prepararsi alla battaglia, allora nelle Società operaie si educherebbero tal «rospi» che quel tal dottore, riuscirebbe a stento a schiacciare Allora il nostro esercito – lasciate che m’immagini la nostra conquista morale in modo palpabile – fatto più cosciente più svelto e più leggero, discenderà dai monti nostri, su cui imperano le nostre croci, alle città, e forse allora si apriranno quelle certe finestre dei signori «filistei» che le hanno chiuse al dì del congresso, compariranno alla luce del sole certe bandiere che non si vollero issare e faremo campo in piazza Dante dinanzi al monumento di Canestrini. E non l’oltraggeremo, no! ma se l’iscrizione sarà spazzata via dalle ali del tempo (vedi discorso Altenburger) e se gli anticlericali nelle angustie della sconfitta non provvederanno a rifarla, ce la faremo noi la scritta, magari sulle tracce della vecchia, di fronte al Vaticano. E scriveremo: A G. Canestrini – studiò e faticò molto – ma sbagliò la strada – Riposa in pace. Allora l’arma non sarà un trofeo della vittoria del «libero pensiero», come si augurava il barone Altenburger, ma un ricordo della sua sconfitta. E l’unico interprete e testimone fedele dei sentimenti e delle idee della nostra età resterà il monumento alla Comparsa dedicato al divin Redentore il quale disse: Non praevalebunt! |
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| 01901-1905
| Vienna, 19 Ci andiamo avvicinando ad una grande battaglia elettorale. Gli abitanti dell’Austria Inferiore sono chiamati alle urne, donde usciranno i nomi dei nuovi rappresentanti alla Dieta provinciale. La giornata campale sarà per Vienna il 5 Novembre, per il resto della provincia il 28 ottobre. Nessuna elezione finora in Austria ebbe tanta importanza come questa, e nessuna campagna elettorale prese tali dimensioni dopo l’introduzione del costituzionalismo. Il giorno dell’elezione marcieranno l’uno contro l’altro due eserciti inconciliabili, quasi pari di forze. Dalla vittoria dell’uno o dell’altro dipenderà se il partito cristiano-sociale riavrà in mano la maggioranza dietale o no. La lotta è estremamente difficile. I cristiano-sociali dal ’96 in qua avevano la semplice maggioranza di due voti, a cui s’aggiungevano di volta in volta i quattro voti dei cattolici del grande possesso fondiario; la rielezione dei quali però dipende da un compromesso coi feudali liberali. Ora se si pensa che il partito cristiano-sociale si trova per la prima volta solo di fronte alla coalizione di tutti gli altri partiti e che ben difficilmente i feudali liberali rinnoveranno il compromesso, si comprende di leggeri la fatalità della lotta. Roma e Cartagine Non saprei meglio caratterizzare le due armate che verranno al cozzo terribile che paragonando la guerra imminente con quella di Roma e Cartagine. Il paragone è del principe Luigi Liechtenstein . Da una parte i cittadini viennesi, i professionisti, gli artigiani, il popolo onesto che lavora e i contadini della campagna che combattono pro aris et focis per le mura avite, per il focolare paterno: Roma. Dall’altra i semiti di Cartagine, i capitalisti che hanno assoldato un esercito di mercenari il cui grosso è formato dal proletariato socialista internazionale. Il primo esercito marcia sotto una bandiera su cui sta scritto: Per la Fede e i costumi degli avi, per l’emancipazione dallo spirito e capitale ebreo. L’altro inalbera bandiere diverse, ma su tutto sta un motto comune: Abbasso il cattolicismo ed il Cristianesimo. Passiamo attentamente in rassegna le sue file. Prima vengono i vecchi liberali, i quarantottisti, i rappresentanti dell’oro e della bancarotta politica, i fabbricatori della pubblica opinione (Neue Freie Presse, Tagblatt, Zeit ecc.), i padroni della borsa, i grandi industriali e commercianti: il capitale insomma internazionale, i cartelli, i trust e la «fournaille». Tutto questo po’ di roba messa insieme porta l’etichetta di Fortschrittpartei ma il vero nome è Alliance Israélite. Poi viene un partito che nell’Austria inferiore si chiama Misch-Maschpartei, perché è molto difficile a caratterizzarsi. (Fate conto come la «Lega liberale democratica» del d.r. Silli ). Officialmente si chiama «Deutsche Volkspartei» ed avrebbe nel suo programma l’antisemitismo a scartamento ridotto, se questa volta non si fosse pensato a ridurlo a zero. Il generale di questo corpo d’esercito è il borgomastro di S. Poelten, Völkl e i soldati gli «intellettuali» delle piccole città della provincia, qualcosa come i frequentatori quondam caffè Nones. Subito dietro a loro passa Wolf coi suoi «ost-deutsche», Schoenerer cogli «alldeutsche» e finalmente s’avanzano le schiere rosse, i giannizzeri, i mercenari dell’esercito. Il loro capo è l’ebreo Ellenbogen, innanzi al quale notoriamente «curvan la fronte...» Colmano, Piscel e Battisti. La riscossa Questi partiti, sorti o risorti finora sotto diversa bandiera marciano ora sulla medesima via alla riscossa. La Dieta si è addimostrata il più forte sostegno del regime cristiano-sociale. Se la dieta è in mano altrui il Comune di Vienna non si sente più libero. Dunque la riscossa deve incominciare di là. La uscita maggioranza ha assestato i colpi più duri al capitalismo ebreo creando la società di assicurazione, le latterie e le cantine sociali, i magazzini agricoli ecc. ecc.: dunque, quella maggioranza non deve rientrare, perché gli ebrei possano ricominciare l’asservimento dei cristiani. La maggioranza cristiano-sociale ha introdotto il Crocifisso nelle scuole, le monache negli ospedali, ha licenziato i maestri socialisti o pangermanisti, dunque tutti quelli che odiano Cristo e i suoi seguaci congiurano alla sua rovina. Che importa ai socialisti se i loro alleati sono proprio i grandi borghesi, i miliardari? Le ossa di Marx abbiano pace! Ora importa vincere nella «rude campagna anticlericale». Il «leader» della democrazia cristiana In questa lotta suprema, disse giorni fa il principe Lichtenstein, la nostra speranza, la nostra fiducia nell’avvenire sono come incarnate in un uomo, che ci è modello per il suo disinteresse, il suo amore al popolo cristiano, il suo coraggio di lottatore invincibile: il d.r. Carlo Lueger! Infatti tutti gli sguardi sono rivolti a lui: ed egli sente che il momento è solenne, ed ora più che mai consacrerà alla causa cristiana tutte le forze, tutta la sua ammirabile strategia, la sua eloquenza, la sua fama e popolarità di venti anni di lavoro. La sera, magari dopo fatiche eccessive che gli porta il suo posto di borgomastro, riprende il suo cappello a cencio, il suo vecchio Havelock e compare in due, tre anche più comizi popolari. La sua attività in questi giorni si può appena paragonare a quella di Roosvelt che attraversa gli Stati Uniti tenendo il suo discorso elettorale in tutte le stazioni del suo treno-tribuna. Il Lueger si sceglie i posti più pericolosi e più difficili. In tali occasioni si potè vedere di quanti amori e quanti odi sia oggetto quest’uomo. A Moedling p. e. quando comparve in un salone stipato da 2500 elettori, immensi furono gli hoch mentre circa 300 della coalizione con le grida di abbasso e con mille schiamazzi tentarono d’ostruire l’adunanza. E la cosa non finì fino che i 300 ad uno ad uno non furono portati fuori dalla porta o dalle finestre. A Wagran alla chiusa di un’adunanza di contadini in cui Lueger aveva parlato, qualcuno venne a dire che lungo la via verso Vienna si erano radunati dei socialisti per insultare Lueger nel ritorno. Fu un grido unanime: andiamo con lui! E i giornali riportano che per un buon tratto di via la carrozza del «terribile» Carlo era accompagnata da circa un migliaio di contadini. Ma quello che parve raggiungere il colmo dell’audacia fu la sua candidatura nel 2° distretto, nella «Judenstadt», collegio nel quale anche nelle ultime elezioni per il Parlamento soccombettero i cristiano sociali. Il generale deve mettersi nel posto più difficile, e Lueger vi si mise, anche a costo di una sconfitta. Sotto il comando di un tal uomo i cristiano sociali si preparano di buon animo alla battaglia. La campagna elettorale È incominciata si può dire già da un anno e la cerchia di agitazione si è venuta mano mano restringendo dalla campagna alla città. In campagna ordinano le mosse il professore di Seminario D.r Scheicher, il decano Kühsehelm, in città il d.r Gessmann e il principe Lichtenstein, il second’uomo del partito, il quale potè finire ier l’altro un discorso ai suoi elettori così: Ho la coscienza di meritare la vostra fiducia: i miei compagni di studio o d’età sono diventati tutti generali o ambasciatori: io da trent’anni ho difeso e promosso la vostra causa! L’azione fuori di Vienna raggiunse la sua massima intensità nel congresso cristiano-sociale, che fu tenuto proprio nel centro della coalizione. Fu una delle mosse più ardite e riuscite di Lueger. I treni straordinari, come sapete, partirono domenica da Vienna verso S. Poelten con circa 4000 viennesi salutati da altrettanti che erano appostati lungo la linea e dai soldati in consegna nelle caserme, i quali fecero una rumorosa ovazione a Lueger. A S. Poelten la scena si cambiò e un 400 fra «sozi» e Voelkiani assordivano cogli «abbasso» e le minacce. La cosa si faceva seria perché contemporaneamente dalla campagna parecchie migliaia di contadini invadevano la città dall’altra parte e se non fosse stata la precisa parola d’ordine dei cristianosociali di non rispondere alle provocazioni degli avversari e l’intervento di una cinquantina di gendarmi e di varie compagnie di soldati, quel giorno si sarebbe sparso sangue. Così a dispetto del partito che domina a S. Poelten il congresso si poté tenere, e circa 10000 persone intervennero all’adunanza a cielo aperto. Sarebbe interessante registrare tutte le menzogne che portarono i giornali avversari su quel congresso. Vi basti il dire che l’Alto Adige e il Popolo del nostro congresso cattolico al confronto dissero gloria. Un’altra cosa che interessò gli elettori fu la questione delle liste elettorali in Vienna. A giudizio di tutti gli imparziali quest’anno le liste furono più che mai perfette. Il luogotenente Kielmansegg stesso, a cui i cristiano sociali vogliono tanto bene che gli promettono già, se riavranno le redini in mano, il calcio dell’asino, dovette ammettere che i reclami erano nella maggior parte senza fondamento. Il Popolo ispirandosi all’Arbeiter Zeitung parla di non so quanti morti iscritti nelle liste elettorali. Ufficialmente i casi si riducono a tre, morti appunto mentre si componevano le liste. E che c’è di portentoso? A Vienna ne muoiono parecchi ogni ora. Tuttavia il fatto che il Lueger non permise assolutamente che si copiassero le liste a scopi di agitazione irritò i coalizzati tanto da provocare mezzo scandalo parlamentare. E la risposta di Koerber infuriò la Neue Freie Presse, la quale oggi minaccia di abbandonare il «fido» ministro che questa volta almeno non soddisfece le sue voglie, contro la patente giustizia. Ma lo scopo di tutto è probabilmente il poter avere in riserva una scusa ed un’accusa in caso di una disfatta. Se i cristiano sociali vincono avranno vinto imbrogliando se perdono... allora perdono malgrado i brogli. Chi vincerà? Impossibile farsi un’idea chiara della situazione. Tutto dipende dai contadini. Se essi votano, la vittoria sarà ancora per i cristiano-sociali. Ma se il tempo è bello i contadini non vanno alle urne, ma piamente dietro l’aratro. Dunque «ut pluviat»? Certo è che se anche i cristiano-sociali resteranno in minoranza, si rinnoverà la vittoria di Pirro. Disse Lueger nel congresso di S. Poelten: «Io non faccio previsioni: nemo propheta in patria sua; in questi ultimi giorni io parlerò ancora più frequente al popolo e non ristarò fino che non risorgerà tutto contro i suoi nemici morali e materiali, e poi vedremo l’esito. Una cosa è certa che i nostri nemici non godranno della vittoria. La lotta tenace che conduciamo ora la continueremo anche alla Camera fino che il popolo non avrà più né oppressori, né corruttori.» Fortis |
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| 01901-1905
| Vienna, 6 Pubblichiamo con piacere questo articolo del nostro Fortis, il quale compie quanto abbiamo già scritto in argomento rilevando nuove cause della vittoria cristiano-sociale in Vienna e traendone con tatto pratico ammaestramenti anche per noi. L’ampiezza della vittoria – Cause esterne ed interne – Nota pratica. Un anno di agitazioni e di lotta impegnata vivissimamente su tutta la linea, si è chiusa ieri con una vittoria provvidenziale. I cristiano-sociali entrano nella Dieta con una grande maggioranza, anche considerando perduti i candidati in ballottaggio; il che non è probabile. Mai fu celebrata una vittoria elettorale con più ragione de questa, che distrusse per sempre le speranze dei forti avversari coalizzati, che giunse inaspettata – nella sua pienezza – persino ai vincitori. Il Lueger stesso la dichiarò un terribile giudizio di Dio. Cadde infatti per la prima volta la rocca antica del liberalismo, la città interna, la City, il cuore di Vienna; e chi vuole comprendere tutta l’ampiezza di questa vittoria legga la Neue Freie Presse, che nel giorno delle elezioni incitava i suoi alla lotta, gridando che la perdita di quel distretto, ove sono le grandi banche, gli empori, i tribunali, la Corte ecc. sarebbe una grande vergogna di fronte a tutto il mondo civile. Ebbene in quel distretto spuntarono con grande maggioranza sei deputati schiettamente cattolici. Nella Leopoldstadt il Lueger trionfò sui socialisti e gli ebrei coalizzati (Ellenbogen, Jordan) con quasi 4000 voti di maggioranza, il principe Lichtenstein battè nell’Ottakring, distretto operaio, il socialista ebreo David; perfino in Favoriten l’Adler venne in ballottaggio. E così nella futura Dieta i liberali sono ridotti ai rappresentanti della Camera di Commercio e del grande possesso, i tedeschi popolari a pochi mandati della città di Provincia, decapitati però del capo Kienmann; i socialisti al deputato di Florisdorf; i politici sociali, fra i quali il celebre prof. Philippovich, e i pantedeschi scompaiono totalmente dalla scena. Chi si domanderà ora, a campagna quasi finita, quali furono le cause di un esito tanto lieto per i cattolici, troverà che esse sono di due specie: esterne ed interne. Anzitutto la splendida organizzazione del partito cristiano sociale, che abbraccia tutti i ceti, tutti gli strati della popolazione e il contatto continuo che i deputati tengono cogli elettori; poi l’ammirabile disciplina di partito, per la quale alla vigilia delle elezioni si assopirono tutte le questioni interne come per incanto. Alla vittoria contribuì poi grandemente la stampa liberale che stomacò tutti coll’immenso cumulo di fango che gettò contro gli uomini coraggiosi e indipendenti: i cristiano sociali accettarono la sfida, e lavorarono con una agitazione sempre più intensa (il Gessmann solo in questi quattro mesi diresse circa centoventi comizi) e nei giorni della decisione tutti andarono alle urne, dall’ottuagenario Cardinale arcivescovo all’ultimo facchino. E metteremo anche fra le cause esterne l’avere questo partito alla testa uomini come un Lueger, un Lichtenstein, un Gessmann, un Pattal. Tutto ciò sarebbe forse una spiegazione bastante per chi guarda le cose solo superficialmente, sempre però una spiegazione più convincente quella che dava il corrispondente dell’Alto Adige quando annunziava che Vienna voterebbe per i cristiano sociali, motivando: «le capitali amano distinguersi dalle altre città: Parigi è nazionalista, Vienna è cristiano sociale.» Noi però faremo cosa utile a studiare le molle interne della macchina luegeriana. Risaliamo un pochino all’insù per gli anni del secolo XIX. Vi fu un tempo in cui il popolo cristiano sembrò preso dal delirio, e vibrava in tutte le fibre del corpo sociale lo spirito rivoluzionario, rinnegatore di qualunque passato, e un grande rappresentante della coltura moderna, Victor Hugo cantava Grâce à toi, progrès saint, la Révolution Vibre aujourd’hui dans l’air, dans les voix, dans le livre. Ma quando la «Giovane Europa» conquistò dalle barricate la vita politica, trovò che l’ebreo Carlo Marx aveva già sconvolto la sociologia ed aveva già fondato la Lega dei Comunisti, che l’ebreo Lassalle aveva già un esercito in assetto di guerra, che l’ebreo Heine e le colte ebree dominavano già nella letteratura e nel salone, che l’ebreo Willamowitz regnava nell’industria libraria editrice e che una pleiade di professori ebrei avevano già conquistato la cattedra della scienza. Così la giovane borghesia, giunta dopo tanti stenti al potere, si trovò allato, se non dappertutto sopra i semiti, i quali si industriavano di soggiogarla, come nel medio evo avevano saputo regnare nelle corti dei principi. E vi riuscirono materialmente e spiritualmente. Le borse e le banche e la stampa, seppero tirarle nelle loro mani: il popolo pagava e credeva, e una grande maggioranza era schiava di una piccola minoranza. Questo stato di cose si manifestava, com’è naturale in tutta la sua gravità nelle grandi città capitali. E qui incominciò anche la reazione. Una dopo l’altra tutte le capitali – fuori che Roma – tentarono la riscossa: ma a Budapest con poco esito; Berlino cadde ben presto – restavano Parigi e Vienna. Parigi resistette splendidamente anche nelle ultime elezioni; quindi tutta l’influenza materiale e morale dell’Alliance Israélite si buttò su Vienna. Qui le elezioni ebbero perciò un’importanza mondiale. Ma qui anche gli ebrei si trovarono di fronte ad uomini integri e coraggiosi, che illuminarono il popolo e gli fecero comprendere tutta l’importanza del momento. E la coscienza di questo momento, il timore che l’ebreo non rialzasse il capo, fu una molla potente che spinse i cristiani alle urne. Ma c’è di più. Lueger quand’era sorto ed aveva chiamato alla riscossa tutto il popolo cristiano (è la sua frase prediletta) gridando: Fuori gli ebrei! si era opposto: Ma voi diventerete clericali? Ma egli disse: Ecco: per ora non parliamone! prima buttiamo fuori di casa nostra gli ebrei, e poi discuteremo. Ma vedi meraviglia! Scacciati dai pubblici poteri gli ebrei e i loro schiavi, liberali, combattuto l’influsso della stampa e dei teatri, continuando dall’altra parte il benefico influsso delle chiese e degli oratori ecclesiastici, gli antisemiti restarono di per sé quasi fino ad uno, buoni cristiani, lavorarono assieme col prete nella vita pubblica, combatterono per l’integrità della Chiesa contro il los vom Rom, per la scuola confessionale, per la revisione delle leggi scolastiche, per la famiglia cristiana. E chi volesse persuadersi di questo successo del piano dei cristiano-sociali – attraverso l’antisemitismo al cattolicismo – osservi oltre i già noti campioni i nuovi eletti ora nel primo distretto come un Baeclé, un Porzer, vicepresidente dello Schulverein cattolico, oppure vada nelle grandi adunanze ed avrà agio di osservare l’immenso entusiasmo del popolo per la sua religione. Ora l’assalto di tutti i partiti a quanto vi ha di più caro, la coscienza che si trattava di un conflitto fra Cattolicismo e Acattolicismo fu la seconda molla che spinse i cattolici alla vittoria. Ma c’è dell’altro. I partiti che sono semplicemente «reazione», per quanto sia buona la loro causa, non hanno in sé che l’energia di un periodo di storia relativamente breve. Ora il partito cristiano sociale è reazione all’antisemitismo, ma è azione positiva nell’indirizzo sociale. Esso è anzitutto sinceramente democratico e rappresenta gli interessi di tutte le classi. Fra i deputati trovate contadini, lavoratori, bottegai, piccoli industriali, maestri, professori, preti, avvocati. In questa maniera il partito ha potuto prestare, come sapete, vantaggi enormi al popolo, e il popolo ha avuto quindi un motivo di più per dar ragione anche questa volta colla scheda elettorale al Lueger. Notate ancora questo. In Vienna i cristiano-sociali appariscono come un partito progressista sì, ma ad un tempo continuatore di una storia gloriosa. Infatti, mentre i liberali non possono richiamarsi che fino al marzo del ’48, i democratici cristiani si appellano a tutto un evo di storia, e niente più sprona i Viennesi a schiacciare i nemici del cristianesimo, del ricordo degli antichi trionfi sui nemici dei cristiani nel 1683 , ed immenso è il loro entusiasmo quando il principe Lichtenstein rammenta loro che l’Austria deve restare cattolica, poichè essa fu fondata da un povero conte svizzero, proprio quand’egli smontò da cavallo per cedere il posto ad un sacerdote che portava il SS. Sacramento. Chi conosce un po’ della psicologia delle folle – direbbe il Sighele – converrà meco, quando asserisco che la continuità storica ha nell’evoluzione dei partiti una grande importanza; essa assicura nel caso nostro duraturi trionfi alla causa. E così gli ebrei sederanno ancora un pezzo sulle rive del fiume... Danubio, lamentando sulla città perduta, e l’uomo provvidenziale legherà fino alla morte la vittoria alla sua bandiera... e a voi, amici, lascierei volentieri il compito di seguire un buon esempio dato, e di applicare – mutatis mutandis – agli stessi mali gli stessi rimedi, se proprio oggi e dopo questa meditazione non mi piacesse ripetere una cosa che sanno tutti, ma che bisogna sapere sempre meglio. Nel trentino stanno di fronte a noi i socialisti – i giannizzeri dei liberali – ed ora gli... organizzatori della «democratica». Dei primi abbiamo, anche i più giovani, fatto la storia assieme; i secondi sono vecchi impenitenti, ribattezzati con un nome che contiene una contraddizione in terminis, affastellati in una Lega che vorrebbe esser nuova, ma tisica larva sdentata ritinta giovane di vecchia data. Ora noi soli abbiamo nello spirito del cristianesimo un’eterna giovinezza, noi soli abbiamo un programma di riforme intellettuali e sociali in consonanza alla realtà della vita, noi soli infine ci possiamo presentare come gli eredi e i continuatori di tutta un’epoca gloriosa che fu il Trentino cattolico. Ebbene, non basta avere delle idee, bisogna anche agitarle. C’è fra noi ormai tutta una generazione di giovani venuti troppo tardi per poter assistere alle epiche lotte di principio combattute anni fa; c’è fra noi una grande massa d’incoscienti che non oltrepassarono mai i limiti d’una sequela cieca; ebbene: a questi ed a quelli dobbiamo gridare e dire ancora, e sulla stampa, e nei circoli e nelle società operaie, perché noi combattiamo, chi siamo e che cosa vogliamo, non curando se qualcuno si annoierà – leggendo, per esempio, questa mia. Pensiamo ai giovani che devono divenire il sale del partito e che vogliono idee e discussioni di idee. E in quanto al programma, mi si permetta di fare una proposta. Anzitutto osservo che sotto questa parola io non intendo un complesso minuzioso di idee politiche o strettamente d’indole amministrativa – questo è cosa di una società politica. Ma sì piuttosto un complesso di tendenze generali che interessano un partito democraticocristiano in genere, tanto dal lato intellettuale che economico. Ora, non si potrebbe tutte queste tendenze esporle in un libretto popolare che vada per le mani di tutti? Vecchi desideri – direte. Ma non si potrebbe – ripeto io – far questo in un calendario tascabile? Ecco: ancora a Pasqua si radunano alcuni collaboratori: uno studia una questione, l’altro l’altra: municipalismo, contratti del lavoro, riposo festivo, femminismo cristiano, letteratura cristiana, socialismo e democrazia cristiana, alcune questioni politiche generali, come il suffragio universale, rappresentanza proporzionale, ecc. ecc. I collaboratori hanno da sette a otto mesi di tempo, trovano una letteratura amplissima su tutte le questioni, e il loro compito si riduce a darne una idea chiara e netta. Non dovrebbe poi mancare uno squarcio di storia patria che porta l’entusiasmo delle memorie. Non si potrebbe forse combinare questo futuro calendario della democrazia cristiana trentina colla «strenna della cooperazione»? In questa maniera aumenteremo il patrimonio delle idee e infonderemo un po’ di spiritualità nel nostro lavoro, senza che per questo il «calendario» voglia presentare il programma di un partito, ma solo portare un contributo alla discussione. E forse, amici, servirà anche a qualcuno dei propagandisti, nel quale forse penetra l’idea che a fare la propaganda bastino: l’essere dalla parte della ragione, e una buona voce! ... Purchè non si alzi anche contro di me qualcuno, e lanci l’idea che si raccolgano prima i denari per le spese di stampa! Fortis |
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| 01901-1905
| Vienna, 2. Le unioni accademiche cattoliche italiane di Innsbruck e di Vienna, scambiatesi le reciproche discussioni, tenute in separate adunanze circa la questione universitaria, di comune accordo deliberarono un programma d’azione incaricando l’Associazione universitaria triestina a volerlo dettagliatamente formulare e passarlo alla stampa. Il fine dell’azione è il raggiungimento di una università italiana a Trieste. Mezzo precipuo fu ritenuto l’intervento numeroso degli studenti italiani dell’Austria all’Università di Innsbruck. Per favorire il più possibile questo intervento si votarono come più pratici ed opportuni i seguenti mezzi; 1) Adoperarsi direttamente e indirettamente per mezzo dei deputati italiani per il trasferimento ad Innsbruck di stipendi esistenti in altre università o almeno degli stipendi attualmente goduti nelle stesse da studenti italiani. 2) Adoperarsi perché gli stipendi creati da comunità o da enti morali per studenti accademici italiani, sieno condizioni d’ora innanzi alla frequentazione dell’Università di Innsbruck. 3) Eccitare con tutte le forze il Governo e la Provincia a fondare in Innsbruck nuovi stipendi per gli studenti italiani di tutte le facoltà. 4) Procurare altresì che i comuni e gli enti morali italiani passino alla fondazione di stipendi temporanei condizionati come ad 2). 5) Rivolgersi al Governo e con caldo appello a tutti i connazionali, perché efficacemente venga agevolata la dimora degli studenti italiani in Innsbruck, sia riguado alla abitazione (casa degli studenti) sia riguardo al sostentamento. |
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| 01901-1905
| Il popolo giacente nelle tenebre ha veduto gran luce; e la luce s’è levata per coloro che giacevano in sito e ombra di morte (Isaia) «Noi viviamo in un’età misteriosa: dal protestantesimo spirituale di Lutero scaturì la concezione della vita di Kant e Schopenhauer, l’antica eredità della sapienza Indica ci venne per loro mezzo ridonata e il protestantesimo creò lo splendore della nostra poesia e della nostra musica. Tutto ci venne concesso, noi lo vediamo. E potè sembrare che la Fede e la Religione non fossero più necessarie. E tuttavia, ora che la scienza e l’arte dissero l’ultima parola, riappare di nuovo nell’anima moderna un’ansia, uno spirito di ricerca, un’aspirazione verso un cristianesimo più sentito e più semplice» 1). Così parlava non è molto, un celebre professore della storia dell’arte agli studenti di Heidelberg. H. Thode non è isolato: non è che una voce fra molte che risuonano in sul finire del secolo, quando se ne fece il bilancio spirituale. È una voce meno risoluta, meno tragica, come un lamento di questa povera coscienza moderna che cerca, cerca la luce perduta. Tutti gridano che non si può più andare innanzi, tutti gridano all’umanità che precipita nella decadenza: Indietro! ... Ma dove? Schopenhauer, disperato, tuona: Indietro nel Nirvana, nel nulla! Nietzsche: Indietro! nel neopaganesimo del rinascimento... Uno solo di questi veterani che suonano la ritirata ha scosso l’età nostra: Tolstoj. Al suo grido: «Indietro, a Betlemme!» l’umanità si è levata quasi desta da un sonno, come un cavaliere della tavola rotonda al concerto di un corno ben noto, dopo un sonno fatato. E allora si è ricordata «la minima tra i principi di Giuda» in cui «la Vergine concepì e partorì un figliuolo», si è ricordata l’antica legge d’amore, manifestatasi in una povera capanna duemila anni fa... e l’età nostra parve risoluta a portare il suo oro, il suo argento e la sua mirra dinanzi al presepio... Disgraziatamente, i sapienti di oggi non sono i sapienti dell’oriente, custodi di antiche tradizioni, ma educati in una cultura dalle basi false, pieni di pregiudizi contro la Chiesa, non videro splendere in cielo la stella dei Magi, e non ritrovarono la via per Betlemme. Il misticismo anarchico d’un Tolstoi non poteva condurli all’Amore, l’unica stella che può condurre a Cristo – la Chiesa – non vollero vederla. E così gli uomini colti di oggi si dibattono ancora nelle tenebre e nell’ombra, benché la luce si sia levata da un pezzo. Queste le considerazioni tristi che mi avviene di fare alla vigilia di Natale. Tanto più tristi, perché non valgono solo per il popolo tedesco, di cui si faceva interprete fra gli ultimi anche il Thode, ma anche per noi italiani, la nazione che dovrebbe godere più davvicino il bene della luce. Oh! tempi in cui l’arte nostra, interprete di un sentimento profondo, abbelliva l’Italia delle «Madonne col bambino» delle «Mater admirabilis», del Bambino in culla; e le madri vi vedevano un modello da seguire, e la sacra Famiglia di Betlem e di Nazareth regnava incontrastata nella famiglia italiana. Mentre ora sotto gli occhi del Capo della Chiesa, si attenta ai suoi sacri legami! La società che dimentica la gran legge dell’amore, predicata la prima volta nel Presepio, è condannata alla rovina. Ricordate lo specifico per tutti i mali che il buon Goldoni propose ai «Rusteghi» per bocca della «siora Felicita?» Amè, se volè esser amai! È il medesimo consiglio da Pantalone ai nobili nella «Famiglia dell’Antiquario». Ma la voce del poeta si sperdeva senza eco, e la vecchia Repubblica moriva nelle braccia delle dame e dei cavalieri fra gli odi della Rivoluzione, com’era caduta anche l’antica Roma, perché non aveva seguito la parola dell’amore. Ah! ripetiamola amici, questa parola! Noi specialmente che nella lotta quotidiana a corpo a corpo in difesa dei nostri ideali, riferendoci alla Chiesa vi aggiungiamo tanto volentieri l’epiteto «militante». Io penso al Natale come alla gran festa della democrazia cristiana. Quei piccoli paesaggi che mettono assieme con studio i nostri ragazzi con in mezzo la capanna ove pastori e re, poveri e ricchi, si prostrano in un medesimo sentimento dinanzi a un Dio bambino per amore di loro, non è la società ideale, il luminoso ideale, per il quale tutti i democratici-cristiani lavorano? Ebbene, prostriamoci anche noi davanti a questa culla, e se nel nostro cuore ci sarà ancora un qualche resto di un sentimento meno che cristiano, preghiamo: Emitte spiritum tuum et creabuntur et renovabis faciem terrae... E poi su, al lavoro; tendiamo con tutte le forze a far ritornare in questo corpo sociale irrigidito un po’ di quel calore vitale, un po’ di quell’amore di Betlem! Vienna, vigilia. 1) H.Thode, Kunst, Religion und Kultur, Heidelberg 1901. |
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| 01901-1905
| La XIV Esposizione della Secessione viennese, con il suo tanto esaltato allestimento ambientale, è uscita dal regno della realtà. Essa vive solo una vita di sogno, nel ricordo di coloro che l’hanno vista. L’uno si ricorderà soprattutto dell’atmosfera sensuale che avvolgeva il monumento a Beethoven, un altro soprattutto si riferirà al pensiero architettonico, un terzo forse allo splendore plastico e pittorico. Tutti costoro aderiranno all’inno di lode intonato quotidianamente dalla critica «indipendente» all’esposizione d’arte viennese: la quale sarebbe un vero trionfo dell’arte ambientale, che supera tutto ciò che il nostro secolo ha finora prodotto in questo campo. A chi però ha guardato, nella Secessione, più all’interno e ha osservato le idee di fondo e i motivi etico-filosofici dell’intera esposizione, non rincrescerà certamente che le sia toccato solo un destino effimero. In tutte le precedenti manifestazioni della Secessione viennese si doveva lamentare, nell’esposizione, la mancanza di elevatezza negli ideali magnificati o il banale naturalismo. Ciò riguardava tuttavia solo singole opere d’arte, create indipendentemente l’una dall’altra; e in quelle esposizioni si trovavano spesso anche opere buone, lontane dal genere artistico moderno, com’è avvenuto ad esempio l’anno scorso alla mostra di Segantini . Questa volta però compito dell’esposizione era di creare un’ambientazione degna al monumento a Beethoven di Klinger . Così, tutte le opere di pittura e scultura si sono messe al servizio di Klinger, e questo sia dal punto di vista estetico che da quello simbolico. Infatti si può non dare ragione, come vedremo più avanti, ad alcuni critici laudativi, quando pensano che gli affreschi sono sorti da concezioni diverse dal capolavoro: il tutto è dunque un’interpretazione di Klinger ed una molto ben riuscita, come ha dimostrato l’approvazione incondizionata da parte del Maestro. In tal modo purtroppo l’intera esposizione è divenuta una manifestazione della moderna corrente anticristiana, un sintomo della decadenza morale. Esaminiamo dunque per prima cosa il capolavoro in questione. Klinger rappresenta Beethoven non come l’artista pieno di sentimento, che molti hanno conosciuto personalmente, bensì come eroe, come titano, come il dio dell’ispirazione musicale. Distante dal mondo, il dio divenuto uomo siede troneggiante su una nuvola: è l’attimo prima della creazione di una delle sue più famose composizioni. Il corpo nudo, scolpito nel marmo bianco, è leggermente proteso in avanti, l’espressione dello sguardo e del volto, le mani energicamente racchiuse in pugno ci vogliono dire che in quel duro corpo di pietra alberga un’anima oppressa, che combatte e vince con potente fermezza nel mondo interno della musica. Tutto ciò che è meramente umano viene evitato, viene invece esaltato il mitico, l’eroico. Il musico non è caratterizzato da uno spartito, da una lira; al contrario, ai suoi piedi sta un’aquila, che guarda a lui in modo rispettoso, quasi timido. I suoi tratti corporei non corrispondono alla fragilità del suo essere, quanto piuttosto a una forma ideale dedotta dal regno dei miti. Ora, davanti a questo monumento moderno, al critico d’arte s’impongono una quantità di questioni estetiche, e la prima a cui rispondere è la seguente: se quest’opera realmente corrisponda al principio fondamentale che l’arte è = poesia + verità, o se invece qui è rimasta solo la maschera del volto del Beethoven reale. Questo non è però nostro compito, a parte il fatto che non sarebbe tanto facile dare una risposta, poiché la nostra opera appartiene a un orientamento artistico per il quale tutti i limiti e le regole sono state lasciate cadere e l’unico criterio di misura è la personalità dell’artista. Non vi è infatti ormai più alcun’altra arte che non sia la moderna arte individuale (Congresso socialista di Gotha ). Ma l’«artista filosofo», com’è stato denominato Max Klinger a seguito del suo Cristo nell’Olimpo, ha voluto esprimere anche in quest’opera la sua propria filosofia come se fosse quella di Beethoven. Sul lato destro del trono si vede Eva, nell’atto di porgere a Adamo il pomo appena colto dall’albero: cioè il piacere appena goduto contro il divieto divino. Sul lato destro c’è invece un soggetto pagano: Tantalo, il quale vanamente vuole issarsi su una roccia molto erta, per afferrare il frutto, e una Tantalide che invano cerca di attingere da terra dell’acqua con una conchiglia. Ambedue con la mano libera afferrano uno spettro che si libra fra loro: l’incaponirsi intorno a un godimento mai soddisfacente, che è la pena che gli dei hanno impresso nell’anima dell’uomo. Va notato, incidentalmente, che i due altorilievi vengono interpretati anche diversamente, come ad esempio l’ansia dolorosa di conoscere e i tormenti della conoscenza: ciò che non sarebbe in sé meno corretto, se si potesse interpretare nello stesso senso anche la parte principale della scultura. Ma poiché ciò non è possibile, dobbiamo restare alla prima spiegazione, essendo assolutamente necessario assumere una sola idea di fondo per tutta l’opera. La parte posteriore del sedile rappresenta una scena degna di nota. Su una roccia, che certamente dev’essere il Golgota, si scorgono i tre in croce, Maria in lacrime e Maddalena, che guarda su verso il buon ladrone. Ai piedi della roccia appare la dea nata dalla spuma del mare, Venere nuda, che volge il dorso alla croce: la spiegazione può essere, secondo i critici, di varia natura. In primo luogo, ci sembra insostenibile l’interpretazione di un giornale di Lipsia, ripresa anche da fogli cattolici per incrementare la polemica contro la Secessione. Sarebbe infatti inaudito e, secondo la filosofia di Nietzsche, anche falso che proprio il Golgota sia stato scelto per legittimare idee sessuali perverse. Maggior seguito ebbe la spiegazione del tutto tranquilla che dà anche August Lux nella sua Deutsche Kunst und Dekoration: sarebbero qui simbolizzate le idee ellenistische e cristiane, come elementi comuni della nostra cultura. Tra Venere e Cristo non vi sarebbe contraddizione ma solo differenza. Klinger darebbe ragione delle due componenti e così sarebbe qui rappresentata la mescolanza dello spirito germanico-cristiano con il mondo immagiunario ellenistico che persiste nella nostra formazione. Ma questa interpretazione – pienamente caratteristica dei tempi del relativismo moderno – è contraddetta da una figura del rilievo stesso. A lato della roccia sta infatti, in una posizione quasi impossibile, l’apostolo Giovanni, che indica con la mano alzata la dea ignuda. I tratti del volto e l’intero atteggiamento della sua persona mostrano la maledizione scagliata contro la dea della voluttà. Klinger dunque pone a contrasto le due sfere di sentimento; non si può parlare di mescolanza e di armonia. No! Qui sul Golgota è ritratta la tragedia divina, il fondatore della religione della rinuncia e dell’autosacrificio, la castità della madre vergine di Dio; là sulla spiaggia del mare invece viene simbolizzata in Venere la voluttà, l’amore sensuale: non ci può essere alcuna conciliazione e di fatto, anche per Klinger, Giovanni dichiara guerra alla dea. Resta da chiedersi a quale delle due parti l’artista dia ragione. Ha voluto rappresentare in Giovanni le sue proprie idee e sensazioni e quindi si pone dalla parte del cristianesimo? Purtroppo va data una risposta negativa. Venere infatti non sembra minimamente toccata dalla maledizione cristiana; ella si rallegra invece della sua nuda bellezza e espone fieramente la grazia del suo corpo alla luce del sole. Così sorge anche qui, come dopo l’apparizione del Quo vadis di Sienkiewicz , il dubbio se l’artista non debba procurarsi la sua gioia nel presentare contrasti e problemi, senza perciò anche preoccuparsi della loro soluzione. Ma come lo scrittore polacco ha in seguito precisato il suo punto di vista con la sua fantasia olimpica, allo stesso modo anche Klinger ha poi risposto alla domanda posta dal suo monumento. Veramente, in questo caso la risposta non è stata di tipo personale, ma è stata mediata attraverso gli amici viennesi dell’artista, che hanno procurato l’ambientazione al suo monumento – e ciò nella maniera migliore. Di fatto, come ho già detto, l’intera XIV Esposizione è stata una celebrazione di Klinger, il consigliere spirituale della Scuola. Innanzi tutto, andava preparato per il dio il suo tempio. Perciò gli ambienti dell’esposizione hanno preso la forma di un tempio, che può ricordare opere egizie o assire dell’arte templare, pur non essendo simile ad alcuna di esse. Non ha qui operato un principio storico o tradizionale, bensì solo una convenienza teleologica. Lo spazio è suddiviso in tre ordini. La sala centrale è il santuario, in cui si trova l’immagine dell’eroe. Tutto doveva richiamare un’atmosfera di consacrazione. Il ruvido intonaco delle pareti bianche, nei lati non toccati dalla pittura, non deve disturbare la «sensazione sacrale» che il visitatore nutre nella sua anima di fronte al dio troneggiante nella sua solitaria maestà. Due fontane collocate verso il fondo della sala procurano, con la loro monotona melodia, che la quiete del tempio non sia percepita come troppo intensa. Attraverso alcuni gradini si passa poi alla sala laterale sinistra, le cui pareti sono affrescate da Gustav Klimt. E così siamo giunti alla fase successiva del nostro compito. È già stato detto che gli affreschi devono essere letti come un’interpretazione di Klinger. Ciò vale in particolare per il ciclo Die Sehnsucht nach Glück dell’artista viennese Gustav Klimt. Anche qui vogliamo considerarne solo il significato simbolico, senza occuparci della nuova estetica decorativa, che per Klinger dovrebbe consentire «di superare le leggi formali e cromatiche, di per sé così fortemente vincolanti, della natura a favore di un impiego puramente poetico dei mezzi». Qui, da Klimt si segue in modo quasi servile la regola e si hanno le forme umane accennate solo schematicamente, in modo che ne venga pressoché escluso il confronto con la natura vivente, e anche le combinazioni tecniche e cromatiche sono così esotiche e strane che non ci si deve meravigliare se quest’arte a molti dà solo stimoli ad associazioni d’idee archeologiche mentre altri, che vogliono essere meno seri che sinceri, vengono mossi al riso. Con tali mezzi straordinari, Klimt – che pure è una personalità d’artista elucubrativa e filosofica – risponde ad una questione seria, rappresentando allo stesso tempo un lato del mondo sentimentale di Beethoven. Si pone dunque nuovamente la domanda: a chi si deve dar ragione? Alla religione del godimento o a quella della rinuncia? Dove sta la felicità, il regno ideale? È il cristianesimo o l’ellenismo? Su una parete laterale della sala a sinistra sono rappresentate forme femminili allungate e ondeggianti: l’ansia umana di felicità. Seguono poi tre figure terribilmente nude che cercano protezione presso un maschio benportante, ritratto arcaisticamente con una corazza d’oro: ciò raffigura l’umanità debole e sofferente, gli uomini inferiori, che si servono della forza del superuomo, per raggiungere il regno ideale. Compassione e ambizione, due figure che sembrano essere le consigliere dell’uomo di forza, si accompagnano alle preghiere dei deboli per spronarlo alla caccia della felicità. Alla rincorsa della felicità si contrappongono però le potenze ostili: il bestiale – la natura servile dell’umanità inferiore materializzata nella forma scimmiesca del gigante Tifeo – è l’ostacolo più forte nella battaglia per la felicità. Sette altre orribili figure costituiscono la sua genealogia: si chiamano malattia, follia, morte, voluttà, impudicizia e smodatezza, affanno logorante. Qui l’artista ha tentato l’indescrivibile. Forme come la crapula, l’impudicizia e la voluttà sono semplicemente impensabili. Se si guardano queste orrende figure e si volge poi lo sguardo, attraverso la grande apertura della parete destra, al Maestro divinizzato, si è tentati di dire, con Nietzsche: l’umanità sta andando in rovina, sta nascendo il superuomo! Le potenze ostili non possono però fermare la ricerca nella sua corsa; i desideri dell’uomo vi volano sopra; e finalmente la parete destra rappresenta il regno ideale. Prima di tutto la brama dell’uomo trova quiete nella poesia; poi viene condotta dalle arti nell’Eliseo. Ma che cos’è questo Eliseo? In che cosa consiste la felicità eterna? Un coro angelico canta l’inno che chiude la IX Sinfonia «Freude schöner Götterfunken» e, alla fine della parete, un uomo ignudo trova la felicità – nell’abbraccio di una donna nuda, «Diesen Kuß der ganzen Welt!»! Questa risposta supplementare, così decisa, suscita molti torbidi pensieri. La felicità, la felicità ideale è dunque la gioia, la gioia piena di vivere, come l’hanno conosciuta e goduta i Greci, ma poi è stata annullata dal cristianesimo. Sembra quasi che Klimt abbia voluto rendere contemporanea la seconda grande regola di Nietzsche: ridi! danza! energia, istinto, desiderio, la voglia di essere felice, si accompagnano per guidare l’uomo in questo Nirvana. Anche Auchenthaler ha trattato in un affresco della sala laterale destra l’inno finale «Freude...». L’azione, le figure sono così scandalosamente sensuali che qui non ne è consentita una descrizione. Quasi tutte le immagini che stanno in relazione, vicina o lontana, col monumento a Beethoven sono una sfacciata apoteosi della carne, dell’amore terreno, spesso addiritturta della nuda sensualità. L’ellenismo – il paganesimo diremmo noi – ha vinto completamente. Venere trionfa e Maria piange sotto la croce! Purtroppo è così! Ed ora solo brevi considerazioni generali su questa moderna esposizione d’arte. Mentre uno studioso cattolico, proprio a Vienna, riteneva possibile la conciliazione dello spirito moderno con il cattolicesimo, trovando all’inizio purtroppo anche il consenso della gioventù studentesca cristiano-tedesca, fu portato alla luce, nel centro della stessa città, un tempio, un tempio pagano. Questo tempio però non fu dissotterrato dalle macerie dei millenni, ma a partire dall’anima moderna. Il desiderio del tempo, la bramosia moderna, un mondo immaginario del tutto pagano incarnato in un uomo famoso – questa fu la divinità che venne là illuminata. I devoti visitatori, che secondo la Neue Freie Presse raggiunsero il numero di 50.000, erano i rappresentanti di questa società moderna, l’intelligenza dei tempi moderni. Il consenso da loro manifestato ha mostrato a sufficienza che questa esposizione d’arte aveva realmente incarnato lo spirito moderno, mostrando purtroppo anche che un’autoconfessione senza ritegno, come quella che si poteva leggere nelle opere d’arte esposte, resta senza effetto. Avremmo però desiderato che anche molti cattolici «moderni» si rendessero al tempio per riflettere un poco sul fanatismo per l’arte moderna e sulla loro nervosità rispetto all’iperconservatorismo della Chiesa. No: non v’è nessuna conciliazione tra gli ideali dell’arte che, come nessun’altra, ha meritato le accuse di Tolstoi, e gli ideali cristiani, che albergano nella Chiesa cattolica! Sono scomparsi i cherubini di Fra Angelico e le madonne del Perugino. Ormai dominano Venere e le etére greche. E se Morelli o il prematuramente scomparso James Tissot pongono la loro arte al servizio del cristianesimo, essi vengono passati sotto silenzio dalla mafia della stampa o addirittura dichiarati morti, che non sentono più il pulsare della vita moderna. In questa stessa esposizione della Secessione vi sono due quadri in cui potremmo vedere la rappresentazione simbolica di questi due mondi contrapposti. Mi riferisco ai due grandi quadri paretali Sinkende Nacht di Roller e Werdender Tag di Böhm , esposti nella sala principale. Nel primo, figure angeliche fluttuanti verso il basso e ripiegate all’ingiù portano alla tomba i soli ormai spenti, mentre in Böhm le fanfare squillanti della luce annunciano la salita dell’astro del giorno. Questi soli con la loro falsa brillantezza d’oro ci comunicano gli pseudoideali della società moderna, così ben illustrati da questa esposizione d’arte: essi devono finire nella tomba come a suo tempo già l’intero mondo romano e greco – e non devono mai più rinascere, poiché il cristianesimo vincerà con la sua luce che sorge dopo l’oscurità della notte. La religione del Golgota deve tornare ad ispirare l’arte, come quando Raffaello e Giotto e Michelangelo dipingevano e un Dante poetava. Solo allora si potrà parlare di conciliazione, o piuttosto allora la conciliazione ci sarà già. |
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| 01901-1905
| Nel 1897 in Italia di un movimento cristiano-democratico non si notava ancora traccia. Solo in singoli circoli accademici cattolici, in particolare a Milano, si sentivano lagnanze sull’indolenza di una gran parte dei cattolici che, nonostante l’enciclica Rerum Novarum, malgrado il movimento cristiano-sociale della Svizzera e dell’Austria che è simbolizzato dai nomi di Decurtins e di Lueger , rimanevano sui soliti binari. In quei circoli però si sviluppò a poco a poco un movimento intellettuale che era guidato da un giovane prete, Romolo Murri , e dal famoso sociologo e professore universitario Giuseppe Toniolo . Tuttavia le idee cristiano-democratiche trovarono la più tenace opposizione nei circoli conservatori e nella «Opera dei congressi» (il direttivo del partito dei cattolici); anzi al congresso dei cattolici, che nell’estate 1897 si era tenuto a Ferrara, i «Giovani», come venivano chiamati allora, non avevano incontrato grande favore. Non si poteva però soffocare il pensiero della riforma sociale cristiana e, nonostante tutte le opposizioni, i cristiano-democratici che si raccoglievano attorno allo «Osservatore cattolico» fondarono a Milano il primo «Fascio democratico cristiano». Poco dopo i cristiani democratici ebbero anche un organo scientifico, la «Cultura sociale» (Roma), che era stata fondata da R. Murri, il quale con questa rivista aveva assolutamente la stessa intenzione di F. Turati tra i socialdemocratici con la sua «Critica sociale». In questa rivista Murri predicava ininterrottamente i nuovi doveri del clero di fronte alla questione sociale, spronava gli indolenti al lavoro e formulava il programma per il movimento pratico. Ma agli occhi dei cattolici, in particolare di coloro che appartenevano ai ranghi dirigenti e che già da 30 anni erano abituati non solo ad astenersi dalle elezioni politiche (in seguito al «non expedit») ma anche a rimanere lontani da ogni genere di vita pubblica, la Democrazia cristiana era sospetta, e questo tanto più poiché alcuni accusavano la stessa di infedeltà nei confronti del comando del papa. Murri e i suoi sostenitori protestarono categoricamente contro questa concezione della Democrazia cristiana e la polemica contro i giornali cattolici (per lo più di sfumatura conservatrice) durò molto a lungo. Allora apparve nel momento giusto l’enciclica papale Gravos de communi re del 18 gennaio 1901, nella quale la Democrazia cristiana incontrò nuova approvazione. Da allora il movimento pratico progredisce con zelo. Murri pubblica un giornale popolare «Il domani d’Italia» (Roma), anche in altre città apparvero nuovi giornali redatti da studenti, preti e anche lavoratori, come a Firenze «La bandiera del popolo». Il piano dell’organizzazione è grandioso. Nei grossi centri vengono prima fondati i «circoli di studi», composti da preti, studenti, lavoratori intelligenti: questi sono i propagandisti organizzati che fondano poi le associazioni dei lavoratori, le associazioni economiche ecc. Se ci si vuole convincere dei progressi che ha fatto la Democrazia cristiana, basta solo leggere i fogli socialisti: si vede che il nuovo movimento cristiano non è comodo al socialismo. La Lombardia è la regione più sviluppata in senso cristiano-democratico, seguono poi la Toscana, il Veneto, il Lazio, Napoli, la Sicilia ecc.; solo la Sardegna non è ancora stata toccata dal movimento. Così noi vediamo all’inizio del 1902 la giovane Democrazia cristiana italiana che si sta sviluppando. Essa ha il vantaggio di avere un programma fissato punto per punto, con grandi ideali, che incoraggiano al lavoro in particolare le forze giovani. A Milano, a Firenze, a Torino l’estensore di queste righe ha trovato nelle unioni accademiche al tempo stesso associazioni di zelanti propagandisti. Murri e Toniolo sono i loro maestri, e lottano con entusiasmo «per la Chiesa, per l’Italia, per il Popolo!» |
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| 01901-1905
| Nei circoli cristiano-sociali austriaci le ardue lotte dei democratici cristiani italiani, soprattutto in seguito all’ultima crisi, vennero seguite con una simpatia così sincera che ai nostri lettori non dispiacerà ascoltare una valutazione della crisi in realtà non ancora superata da parte di una personalità che appartiene al direttivo del giovane movimento. Uno dei nostri collaboratori viennesi ebbe infatti in occasione di un suo soggiorno a Roma un colloquio col1’avvocato Luigi Stirati – direttore dell’organo principale della Democrazia cristiana «Il Domani d’ltalia» – il quale,in seguito alle dimissioni provvisorie di R. Murri, il noto promotore spirituale del movimento italiano, insieme ai suoi colleghi Gentili , Rosa , Valente , sta alla testa del movimento. La mia prima domanda, così scrive il nostro collaboratore, fu se gli fosse noto come la stampa cattolica tedesca in Austria e in Germania seguisse la disputa democratico cristiana in Italia. «Abbiamo letto con molto piacere – rispose Stirati – alcuni articoli della viennese «Reichspost», della «Germania», della «Kolnische Volkszeitung», della «Augsburger Postzeitung» e di altri giornali del Zentrum; da questi voci desumiamo che la stampa tedesca simpatiz-za per la nostra causa; anzi alcuni giornali, che non sono tra quelli nominati, sono ancora più radicali di noi stessi nella valutazione delle ultime disposizioni . In alcuni brani si credeva addirittura che la Santa Sede avesse veramente preso posizione contro la Democrazia cristiana.» Lei e i suoi colleghi non avete avuto alcun dubbio che non si potesse trattare di una tale condanna di principio? Mai! Sarebbe in un certo qual modo un grosso regresso per la Chiesa stessa. Del resto la giusta spiegazione non era particolarmente difficile per noi. La continua denuncia da parte della maggior parte della stampa cattolica conservatrice cercava sempre di rendere sospetto il nostro movimento agli occhi dell’autorità ecclesiastica superiore. Poi nell’estate scorsa ci fu il congresso di Varese, ove un gruppo democratico cristiano dell’Italia del nord sostenne opinioni radicali riguardo alla astensione dal voto . Allora i nostri organi avevano subito respinto con decisione ogni rapporto con queste idee; ma ciò nonostante una certa stampa approfittò di questi avvenimenti per accusarci di essere nemici dell’attuale indirizzo politico-religioso. Infine sopraggiunse la forte polemica di Murri contro la «Voce della Verità»; vennero dette molte verità grossolane che non potevano piacere all’organo degli elementi più conservatori di Roma. Tutto questo e ancora qualcos’altro hanno realizzato le ultime disposizioni. Erano appunto dirette contro il pericolo che dalla nostra agitazione sociale potesse formarsi un movimento del tutto politico. Ma questo pericolo non esisteva; il nostro programma e i tratti generali del movimento democratico cristiano ne sono una viva dimostrazione.» E se posso chiederle, come è stata la sua prima impressione dopo la notizia dell’ultimo decreto? «Scoraggiante. Potevamo veramente credere che la Santa Sede avesse perso la fiducia in noi. Lei deve ammettere che una simile... scoperta non era piacevole per quei giovani che fino ad ora erano convinti di sostenere con il movimento le idee della enciclica Rerum Novarum». Che cosa ha indotto lei e i suoi compagni di idee a cambiare 1a decisa posizione che «Il Domani d’Italia» aveva assunto contro gli statuti dell’Opera dei Congressi? «Bisogna innanzi tutto constatare che noi non abbiamo mai pensato a una ribellione contro la Santa Sede. Ci venne anche detto da diverse parti che non si voleva procedere in modo troppo severo nell’attuazione del decreto, ed è realtà che l’arcivescovo di Milano chiese a Roma la sospensione delle disposizioni per la sua diocesi. Se verrà esercitato lo stesso riguardo anche nelle altre province, allora il futuro è già assicurato.» II nostro colloquio – prosegue il nostro collaboratore – si dedicò poi al movimento cristiano-sociale in Austria e alle ultime elezioni viennesi e potei constatare con gioia che anche i democratici cristiani italiani conoscono esattamente i nostri progressi e li seguono con calda partecipazione. Sono anche in grado di comunicare che in Vaticano si lavora già con zelo a una seconda edizione del decreto e degli statuti. Sembra che si sia riconosciuto che secondo i nuovi statuti i vescovi sarebbero esposti a una responsabilità troppo grande anche di fronte alla legge. Speriamo che i democratici cristiani possano trovare, a vantaggio della Chiesa e della Democrazia cristiana, un maggiore riconoscimento nel decreto che attendiamo, o speriamo piuttosto,che i laici cattolici conservatori finalmente capiscano che oggigiorno non è più possibile pensare soltanto al 20 settembre 1870 . |
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| 01901-1905
| Le elezioni comunali in Italia hanno luogo in giugno. Come riferirà il corrispondente politico da Roma, i più eminenti leaders del partito cattolico hanno tenuto per l’occasione un incontro a Roma, per discutere i principi del programma che deve servire da manifesto elettorale . Il programma comprende la questione dell’istruzione, il riposo domenicale, la municipalizzazione di tutte le imprese pubbliche e l’applicazione dei principi raccomandati dal papa Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum all’intera vita economica e sociale, così in particolare la concessione di giusti salari, la verifica dell’orario di lavoro per gli impiegati nel servizio comunale ecc. In questo programma è inoltre dichiarato che i cattolici si pronunciano contro i sussidi concessi dai comuni alle Camere del lavoro a causa del loro carattere socialista; dall’altra parte però si raccomanda la fondazione di una borsa operaia di tendenze conservatrici. |
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| 01901-1905
| Come ha già dato notizia la «Reichspost», a Roma il 29 di questo mese ci saranno le elezioni del consiglio comunale . I democratici cristiani hanno qui per la volta redatto un programma che nell’insieme corrisponde a quello cristiano-sociale. Poiché dopo le ultime disposizioni vaticane volevano conservare l’unità con i conservatori, entrarono in trattativa con l’Unione Romana e le offrirono un compromesso, sulla base del quale ai democratici cristiani sarebbero toccati quattro mandati e nominalmente un artigiano e tre propagandisti della Democrazia cristiana, probabilmente anche Murri stesso. Sebbene le trattative non siano ancora concluse, sembra però che l’Unione Romana non voglia sapere nulla dai democratici cristiani. Questa associazione ha avuto finora, a partire dal 1870, il monopolio delle elezioni esclusivamente nelle proprie mani, questi candidati hanno finora amministrato assieme con i liberali. Hanno però sempre, come del resto succede abitualmente ai conservatori, trascurato il contatto con il popolo. Ora arrivano i democratici cristiani che potrebbero essere sicuramente un equilibrio nei confronti degli socialisti emergenti, che chiedono solo un’amministrazione per il popolo ma anche attraverso il popolo, ed ecco che i «cavalieri conti e commendatori» dell’antica città non tollerano ciò. Il «Domani [d’Italia n.d.t.]» tuttavia non dà la cosa per persa; noi dubitiamo però molto fortemente la possibilità di un accordo. Ciò nonostante da parte democratica cristiana viene fatta propaganda molto attiva. In ogni rione si tengono assemblee alle quali hanno libero accesso anche gli avversari. Il programma contiene tutti i provvedimenti sociali comunali: municipalizzazione dell’illuminazione, della tranvia, ufficio di collocamento ecc. Come modello serve l’amministrazione dei cristiano-sociali a Vienna e Murri, in un brillante discorso in cui sviluppò il concetto di municipio popolare, alla presenza di socialdemocratici e di conservatori indicò l’esempio di Vienna e concluse con un evviva al dr. Lueger e alla città di Vienna. Auguriamo ai nostri amici di Roma una brillante vittoria per il bene del cristianesimo e della democrazia. |
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| 01901-1905
| Signore! Signori! Amici! V’è nella storia degli italiani in Vienna dei periodi, la cui rimembranza fa nascere un momentaneo senso d’invidia: quando il Magalotti scriveva a Cosimo III di Toscana «non c’è in questa capitale persona che vesta civilmente, la quale non parli speditamente la dolce lingua». O quando Minatti, i Galeazzo, i Priorato, i Tintow, i Bonini e gli arciduchi, rinati arcadi, si raccoglievano all’Accademia italiana, intraprendevano coronati di lauro il necessario viaggio allegorico sul monte Parnaso, o discutevano «se un amante in presenza della sua dama debba impallidire o arrossire», «se le donne siano più vane che curiose» – e avevano la coscienza tranquilla e sicura di rappresentare la cultura ed il progresso, e il monarca ascoltava con interesse, con rispetto, come se ieri non avesse veduto partire gli eserciti alla difesa dei confini e oggi non si ripercuotesse ancora nell’aria l’eco dei rumori di guerra! Ora non più: schiere d’italiani colla miseria in volto passano per la via coperta di fango, oscura per la nebbia, gridando pane e lavoro, esuli, non ospiti; e noi stessi in volontario esilio, quando sediamo a una tavola comune non occupa più il pensiero delle belle Clori o dei vedovi ritrovi d’Arcadia, ma sentiamo tutta la precoce serietà della vita. Parliamo d’armi, di battaglie, di piani di guerra, di conquiste e di vittorie, membri coscienti di una società che arma e prepara, lasciate per un momento le affannose occupazioni di ogni dì, liberati per un momento dalla miseria della vita individuale quotidiana, in quest’ora di entusiasmo, l’uno indovina negli occhi dell’altro il profondo sentimento comune, la comune visione d’un avvenire migliore. E come dietro alle madonne ideali di Fra Angelico ritorna sempre la sua diletta valle del Chiana, così noi dietro al nostro ideale luminoso vediamo sempre delinearsi di lontano la cima dei monti e i colli e le torri dell’amata terra trentina. Partimmo una sera mesta e piovosa. Il noto suono di una campana si diffondeva da una torre sulla città, che abbandonavamo. Quel suono era lugubre, tristi erano i nostri pensieri. Pensavamo ai tempi in cui la medesima campana chiamava i cittadini a legiferare e a pregare, al tribunale e alla chiesa, quasi interprete quotidiana dell’unica, armonica coscienza morale del nostro paese. Oggi la campana dava un suono fesso, piangente. Noi al lugubre quadro che quel suono ci creava dinanzi mormoravamo una promessa mentre salutavamo le ultime case, le ultime torri, che sparivano dietro la curva del monte. E ora ci accade lungo il nostro esilio, pur da questa Vienna che sta facendo sì lunghi passi verso l’idealismo cristiano, osservare giorno per giorno venir smosse o magari cadere una dopo l’altra le pietre di quel tempio di cui gittò le basi S. Vigilio ed edificarono e custodirono i buoni per lunga serie di secoli. Amici, l’esperienza quotidiana e fatti recenti insegnano che è venuto il tempo anche per il Trentino, in cui il problema interiore s’impone a qualunque altro, che l’ora in cui il problema morale richiede una soluzione collettiva è suonata! La nostra borghesia liberale, impegnata in una lotta esterna, dalla quale a torto si crede dipendano principalmente le sorti di un popolo, dimenticò colpevolmente o volle ignorare che vale anzitutto l’unità interiore, l’unità morale e che un popolo è forte solo se inspirato ad un medesimo ideale, marcia ad una meta unanimemente voluta. E così si spezzò filo per filo tutta la mirabile tela intessuta dal cristianesimo. Ma d’altro canto forse anche da noi trovano applicazione le parole sfuggite recentemente all’Encken. «Non c’illudiamo: un forte sentimento di scontento con la civiltà attuale passa per l’umanità; noi sentiamo che la coltura moderna non penetra fino alla radice dell’essere, ch’essa non è capace di dare un senso ed un valore intrinseci alla vita e di riempire le anime con quel grande amore che rialza sopra ogni miseria ed angustia.» Stretto fra contrasti sempre più risoluti pare che in gran parte della gente colta l’indifferenza se ne vada e che nello scontento generale si assista anche da noi alla rinascita dell’ideale positivo. Cattolici, aiutiamo questa tendenza, impadroniamocene! Se l’idealismo ritorna, se ritorna la tendenza a cose elevate, non si fermerà davvero alla conferenza del professore superuomo, ma passerà oltre all’antico cielo. Sarà un ritorno alle chiese, disse tempo fa un professore della Sorbona. Questo cambiamento però non avverrà senza il concorso di quella parte dei cattolici i quali si sono impossessati di quel corredo medio di cognizioni e di forme che passano sotto il nome di «coltura moderna». Le forme si sono mutate: e ora al pergamo si aggiunge la stampa quotidiana, la conferenza, l’opuscolo, la rivista scientifica. Questo è il campo, o amici, ove i cattolici colti devono gareggiare cogli avversari, stretto campo neutrale, ove è però possibile mantenere il contatto con loro. E questo è il campo ove noi giovani potremo far molto, se la preparazione sarà adeguata all’altezza del compito. Troppo spesso la buona causa ebbe cattivi avvocati, troppo spesso i cattolici inneggiarono all’avvento della vittoria invece di prepararla. Nessuno vuole che da noi escano altrettanti agitatori politici, ma questo aspetta la patria: che dispersi o raccolti, in qualunque posizione o carriera, fedeli agli ideali, sentiamo sempre ed ovunque il dovere di cooperare alla loro realizzazione. E se la borghesia mancasse al richiamo dei tempi e alle nostre speranze e dovesse cedere il passo all’altro che sale al potere, avanti, o giovani entusiasti, avanti, o democratici; nelle nostre vallate alpine stanno tesori d’energie! Vi dico solo una parola. Quella parola che tre anni fa pronunciavamo quasi furtivamente nei convegni nostri, che spargemmo poi entusiasti nelle valli, ove ora corre di bocca in bocca, intesa, sentita dal più umile popolano come parola di redenzione che ammirando applaudimmo dalle labbra del Pontefice: democrazia cristiana. Quella democrazia che non conobbero né Atene, né Roma, ma portò alla metropoli latina un pescatore di Galilea. Modeste forze ausiliari del clero, ci siamo consacrati alla causa con zelo di neofiti, con l’entusiasmo e l’impeto della gioventù, criticati spesso anche da quei nostri amici, che avrebbero voluto mettessimo in serbo il buon valore e l’opera per gli anni in cui forse la libertà se ne sarà andata. Ed ora che l’Unione ci dà nuovi fratelli, passiamo innanzi la nostra parola, poichè la battaglia è ingaggiata su tutta la linea e molti sono i posti scoperti. Io non vi dico: tenete conferenze, agitate per la stampa; vi dico: siate democratici cristiani convinti; e ovunque troverete un gruppo di gente che vuole istruirsi, che vuole salire, fate quello che sta nelle vostre forze e negli obblighi professionali; ma anche quello che vi detta il dovere inerente a un tale carattere. C’è della gente, lo so, che ride del nostro entusiasmo e ci guarda in aria di compatimento. Lasciateli ridere. Ma non sarà meno vero che la patria è chiamata a grandi cose, solo se nella gioventù arde la face sacra dell’ideale. Non è meno vero che un male lamentato anche da noi è che i giovani ritornano dalle università rotti e sfiduciati della vita, invecchiati nell’anima a vent’anni, ridotti ad una sola beatitudine, quella che dice Giorgio ad Ippolita in un romanzo d’annunziano: «Beati i morti, i quali non dubitano più» ; e il cui curriculum vitae si scriverà colle parole di Gellert : Er lebte, nahm ein Weib, und starb. No, abbiamo occhi per la realtà del presente, ma anche fede inconcussa nell’avvenire. La causa nostra è quella di Cristo e della sua Chiesa; e davanti a Cristo mille anni sono un giorno, e noi dobbiamo lavorare innanzi pazientemente ignorando chi raccoglierà i frutti, ma certi che verranno. Alla fine della nostra giornata il nostro lavoro si aggiungerà al progresso di mille che marciarono tutti verso il trionfo del Bene e del Buono, fiduciosi in questo trionfo, checché ne dicessero i malvagi e gli indifferenti, col semplice motto serviendo consummar. E così rinnoviamo anche questa sera la nostra promessa di buoni cristiani e buoni trentini in seno a quest’alma Unione la quale custodisca e conservi acceso il fuoco sacro per tutta la vita. Soldati di fede e d’entusiasmo, non ci nascondiamo le difficoltà della lotta e soprattutto che gli [ami] nostri sono di preparazione e di studio, ma sappiamo anche momenti in cui vale la parola di Goethe: «In der jetzigen Zeit soll Niemand schweigen oder nachgeben!» Nel mondo degli inganni e delle illusioni accoppiamo ad una fede grande nell’ideale un carattere integro ed irremovibile, tanto che finito il compito nostro col nostro tempo, si possa dire di ognuno di noi: «Né mosse collo, né piegò sua costa!». |
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| 01901-1905
| Una volta, come tutti sanno, c’era l’Orco. Come fosse fatto proprio, non c’era chi sapesse dirlo. Ma questo era fuori da ogni dubbio: che aveva un pancione enorme e una boccaccia larga come una caverna della montagna. E quando il Tonin era cattivo e voleva quello che voleva e se no batteva i piedi in terra e incominciava a piangere e urlare, la nonna gli gridava in viso: Tasi vè, se no ciamo i gendarmi. E se Tonin continuava la musica, la nonna aumentava la dose: Tonin! vago a ciamar el spazacamin. E se il cattivaccio dopo un brevissimo intervallo di sacro terrore riprendeva ad urlare, allora la nonna ricorreva all’ultimo rimedio d’effetto immancabile. Faceva gli occhi grandi grandi e la voce grossa grossa e diceva: Ghel dirò mi a l’orco, speta, bruto! E il povero Tonin strozzava in gola i singhiozzi, guardava or la nonna, ora un canto oscuro della camera o dietro la stufa, dove sarebbe potuto apparire il mostro che inghiotte tutti i bambini cattivi che non ubbidiscono alla nonna. Con questo mezzo si tirarono su parecchie generazioni fino alla nostra, la quale inventò la luce elettrica; e allora l’Orco che non ha mai voluto che si vedesse come era fatto, scomparve persino dai luoghi più inospitali dell’alta Anaunia e della Rendena, perché anche qui i maledetti moderni (la devono avere specialmente col Lanzerotti) avevano piantata la luce. Per un pezzo di tempo non se ne seppe più nulla. Ma un bel giorno, cioè una bella notte al signor Gambetta , Presidente della repubblica francese che stava ripensando in qual maniera potesse far piegare i rappresentanti della Francia cristiana a certe sue leggi antireligiose, balenò un’idea stupenda. «Se inventassi un qualche cosa come l’Orco (il quale in Francia aveva dovuto sparire – per non fare anacronismi – ancora ai tempi del gas) pensò: Potrei fare il medesimo gioco delle nonne coi bambini, tutti mi ubbidirebbero». Detto fatto, la mattina tiene un discorso e dice: Cittadini, il nemico della luce e del progresso, della libertà e del benessere della patria, l’ho scoperto. Cittadini! il nemico è il clericalismo. Un uh! prolungato rintronò per tutta la sala; e in quei giorni non si scrisse e non si parlò d’altro che del clericalismo. Come fosse fatto proprio non c’era chi sapesse dirlo. Questo però era fuori dubbio che doveva portare un cappellone enorme da gesuita, avere dal collo in giù come un immenso sacco di carbone dal quale uscivano cento braccia con le quali faceva tutti quei malanni contro la luce, il progresso e la patria. Ma intanto dei furbi che imitarono il signor Gambetta ve ne furono in tutti i paesi, ed il clericalismo diventò l’orco di tutti i bambini grandi. Così per esempio in Francia il presidente Combes caccia via frati, monache e congregazioni, e se qualche deputato moderato osserva che cacciar via tanta povera gente non ha fatto tanto del bene alla Francia, non è una bella cosa il ministro gli dice: Ma è il clericalismo. Il deputato impaurì e vota per l’espulsione. Mettete che a Trento si facciano le elezioni, anzi si venga ormai al ballottaggio. Molti liberali vorrebbero accordarsi piuttosto con i cattolici i quali in fin dei conti sono gente pacifica e laboriosa, ma nel momento decisivo si svolge questa scena. Il Battisti fa da nonna e i liberali da Tonini grandi cioè da Toni. Il Battisti grida: il clericalismo, viene il clericalismo! e allora i Toni corrono tutti spaventati in Comune e sbarrano le porte con tanto di catenacci. Il Battisti intanto nel parapiglia viene portato dentro sulle loro spalle. Di questa gente, vedete, che a questo mondo hanno il nome di furbi (nell’altro ne pigliano un altro) ve n’è parecchi, e sanno dipingere le cose tanto per benino che io stesso una volta – e non mi chiamo Toni – a forza di sentire di oscurantismo e di regresso credevo che nelle vostre valli fosse buio pesto anche in pieno meriggio, da dover leggere il Fede e Lavoro col petrolio e che tutti i viventi, uomini, animali et universa pecora a camminare facessero come i gamberi. Morale: volete essere un Toni si o no? No! Ebbene non credete un cavolo a certe frasi, badate ai fatti. E se qualche messere, vi incomincia altitonante con luce, progresso, mangiati dal clericalismo, dite fra voi: ah! ah! questo qua ’l vol far da nonna ma ’l Toni non lo trova: e tirate dritto. |
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| 01901-1905
| Quando nell’autunno del 1895 i rappresentanti del partito «Vereinigte Christen» conquistarono per la prima volta il Municipio di Vienna con una maggioranza debolissima , la «grande stampa» assicurava che sarebbe stato un male passeggero, una di quelle improvvisate che fanno spesso le grandi città, dopo gli esempi parigini. Seguì quell’anno di inceretezze che fu il ’96, ove il liberalismo decrepito fece l’ultimo sforzo, mise in moto tutte le leve, tanto da innalzare fra principe e popolo una barriera che né quegli né questo volevano. Fu in principio di quell’anno che il nuovo partito cristianosociale tenne il primo congresso nel Musikvereinsaal, ove il Lueger incoraggiava i suoi con queste parole: «i nostri vecchi non avevano il telegrafo, e quando si avvicinava l’inimico, accendevano una grande corona di fuochi sulla linea dei monti. Quei fuochi volevano dire che il popolo si armasse ed accorresse, perché il nemico avanzava. Le ultimi elezioni comunali sono per voi, o Viennesi, una luminosa corona, e vi segnano che dovete sollevarvi tutti come un uomo solo. E voi ubbidirete ai nostri segnali, e spazzerete via coloro che della libertà non ebbero che il nome e che non rappresentarono mai i sensi del popolo... Il giorno della liberazione si avvicina, o popoli cristiani, e con esso finisce la lunga notte della dominazione liberale!» Queste ultime parole furono una profezia che i dotti del senno di poi appellarono facile. Agli 8 aprile del medesimo anno il D.r Lueger venne rieletto borgomastro per la quarta volta , e finalmente anche sanzionato. Da quel giorno si fanno sentire nella capitale i benefici influssi dell’economia cristiana. Dire in particolare di questi sarebbe ripetersi, ma ier l’altro il D.r Lueger gettando un breve sguardo sul passato, prima di entrare in un nuovo periodo di lavoro poteva dire: «Quando l’attuale maggioranza assunse il governo della città, ci si disse che non saremmo stati capaci a nulla; eppure siamo stati noi che abbiamo introdotto in questa nostra Vienna tutti i prodotti del moderno progresso. Lo spirito del Cristianesimo e l’energia del popolo tedesco crearono nei tempi antichi opere meravigliose come il campanile di Santo Stefano; lo spirito cristiano e la forza d’iniziativa del popolo faranno grande Vienna e la patria austriaca». Fu un momento solenne quando il D.r Lueger nell’ultima seduta comunale ritornò nel suo antico posto di sinistra, che aveva lasciato disoccupato per sei anni mentre si stava compiendo l’atto dell’elezione. Ritornava a quel posto, donde per anni e anni aveva fulminato la maggioranza liberale, e aveva mandato tante volte il grido d’allarme, finché il popolo cristiano venne e sedette a giudizio sopra gli sfruttatori. Ma vi ritornava per poco, perché 124 su 145 rappresentanti lo richiamavano subito fra grandi applausi al seggio presidenziale. Così questo «famigerato antisemita», come diceva il giornale liberale di qui, continuerà imperterrito per la sua via ancora per lungo tempo. Ma, signori miei, quest’uomo ha letto nell’anima del suo popolo e l’ha capita quest’anima, se ne è fatto giorno per giorno il portavoce, e quando agì seppe di avere il più largo consenso con sé in ogni asso popolare. A ragione quindi nel suo discorso inaugurale il campione della democrazia cristiana austriaca desiderava quelle due cose, rimaste compagne del suo passato: l’aiuto di Dio e la fedeltà del popolo cristiano. f.-s. |
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| 01901-1905
| § 1. Questo paragrafo di legge si basa sulla disposizione del § 59 della Legge fondamentale scolastica , in cui sono fissati gli estremi limiti obbliganti l’erezione d’una scuola popolare. È quindi in facoltà della Dieta provinciale di stabilire anche altre norme più confacenti alle circostanze locali. Ripetutamente si accamparono lagni contro la sistemazione della scuola giusta la legge provinciale 30 aprile 1902 a motivo che si vollero tentare troppe concentrazioni badando solo alla distanza e facendo poco calcolo dei pericoli che potrebbero ridondare ai nostri ragazzi dal lato della moralità e della sanità frequentando una scuola anche distante a cagion d’esempio solo 3 km. Sarebbe quindi da lodarsi la disposizione che non solo la distanza, ma ben anche i pericoli di sanità e di moralità siano presi in considerazione nell’erezione d’una nuova scuola, come pure l’erezione di scuole figliali dove tali pericoli non sussistono in modo grave, ma i genitori desiderino una scuola a sé. Il sig. D.r Hellweger propone che coll’adesione dell’Ordinamento e dell’i. r. Consiglio scolastico provinciale i ragazzi di una scuola soggetta a più Curatori d’anime possano avere separatamente l’istruzione religiosa nei rispettivi luoghi di Cura d’anime. Avuto riguardo alla speciale responsabilità di cadauno Curatore d’anime per l’educazione religiosa dei propri fedeli è questa una buona disposizione. Non è però a negarsi il fatto che con ciò nella maggior parte dei casi l’istruzione religiosa sarebbe menomata, perché cadauno Curatore d’anime, d’ordinario senza assistenti, dovrebbe impartire tale istruzione a tutti gli scolari della propria Cura contemporaneamente, come appartenessero ad una classe unica mista; mentre se tutti i Curatori d’anime d’un circondario scolastico andassero d’accordo potrebbero impartirsi fra loro gli scolari a seconda delle classi nei locali scolastici con maggior profitto. Sarebbe perciò a proporsi che solo in casi di estrema difficoltà di un accordo fra i Curatori d’anime, riconosciuti tali casi dall’Ordinariato possa ogni Curatore d’anime istruire i propri alunni a sé. § 3 In questo progetto di legge si tiene ancor fermo alla massima di non creare nuove concorrenze. Sorpassiamo il fatto che colla sistemazione in base alla Legge 30 aprile 1802 in qualche luogo fu soppressa la concorrenza che già da anni vi esisteva con danno della gioventù. Consideriamo invece i casi di Comuni vicinissimi le case estreme di uno dei quali sono molto più vicine alla scuola del Comune limitrofo che a quella del proprio, e che in passato i ragazzi qui dimoranti abbiano frequentata la scuola del Comune vicino per anni ed anni senza che sia esistita una speciale concorrenza e senza che nessuno abbia accampato pretese. Non si dovrebbe qui studiare la cosa per vedere se sia bene istituire di fatto una nuova concorrenza? § 5. Il § 7 della legge dell’Impero 2 maggio 1883 vuole che nello stabilire il piano d’insegnamento per le scuole sistematiche sia presa in considerazione la possibilità dell’introduzione dell’istruzione a mezze giornate. Ciò sarebbe da farsi in iscuole ad una classe sola con numero troppo grande di scolari. È però a desiderarsi che solo in caso di assoluta impossibilità di provvedere altrimenti, si attuasse una simile disposizione di assai poco vantaggio per i fanciulli. § 6. In parecchi luoghi avanti il 1894 esistevano più classi che attualmente, perché nella sistemazione delle singole scuole si procedette rigorosamente in base alla massima che siano da istituirsi due classi dove gli scolari sorpassano gli 80, tre classi dove sono oltre 160 ecc. Or chi non vede quanta difficoltà vi sia nell’impartire l’istruzione ad 80 ragazzi contemporaneamente? Il § 11 della Legge scolastica dell’Impero fissando ad 80 il numero massimo degli scolari per una classe l’agglomerato di un maggior numero di ragazzi ma non determina il numero minimo. È quindi in facoltà della provincia, per non dir che è suo dovere il curare che il numero delle classi di una scuola sia più che è possibile. Non sarebbe perciò fuor di luogo su proposta di qualche Consiglio scolastico locale l’accordare anche 40 scolari quale numero massimo per una classe, come nelle scuole di pratica annesse agli ii. rr. Istituti magistrali. Ad ogni modo è da accogliersi con animo grato la proposta di accordare una classe ogni 60 scolari. È questo tanto di guadagnato in pro dell’istruzione. § 7. Il primo capoverso interpretato letteralmente dovrebbe escludere affatto il caso che dove sono impiegate tre forze docenti si abbia una scuola a tre classi miste, e dove sono quattro i docenti una scuola a tre classi miste in prima e in seconda. Il numero delle classi miste dovrebbe essere limitato al puro necessario. Per conseguenza in iscuola con sei docenti si abbia una scuola a tre classi divise per sessi e dove occorrono più forze docenti si aumentino queste sempre a due a due, creando scuole di quattro, cinque ecc. classi. Solo dove vi sono due forze docenti si approva la promiscuità dei sessi nel senso apparente del terzo capoverso di questo § giusta la proposta Hellweger nell’interesse dell’istruzione. Per meglio però assicurare che la legge venga interpretata nel senso sopra esposto sarebbe bene che l’ultimo capoverso di questo § della proposta Hellweger suonasse così: «La separazione generale dei sessi deve aver luogo dovunque il numero dei docenti legalmente prescritto sorpassi i sei» (Continua) |
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| 01901-1905
| Ad § 8. Ammesso che una scuola ad una sola classe promiscua possa avere fino ad 80 ragazzi è certo cosa prudente l’affidare ad un maestro un numero così grande di ragazzi. Però è ammissibile che una classe promiscua di 40-50 scolari possa esser condotta con lode anche ad una maestra senza gravi sforzi, e così sarebbe assicurata anche per le ragazze l’istruzione regolare nei lavori femminili. Perciò sarebbe a desiderarsi che il terzo capoverso di questo § suonasse almeno così: Le scuole promiscue di una sola classe verranno di regola coperte con maestri. Però su proposta del Consiglio provinciale accordare per tali scuole una maestra fino a tanto che la media triennale dei fanciulli obbligativi non sorpassi il numero di 50. Il quarto capoverso di questo § nella proposta accorda alle maestre occupanti posti di maestre i medesimi diritti che avrebbero occupato definitivamente un posto sistemato per maestre. È questo un atto di giustizia verso quelle maestre, che altrimenti non potrebbero mai essere nominate definitive ed acquistare diritto a pensione. Avuto riguardo a quanto si disse parlando del § 7 non avrebbe ragione di esistere il quinto capoverso del § 8 di questa proposta, rispettivamente quarto capoverso del § 8 della legge provinciale 30 aprile 1892. Questo capoverso potrebbe forse venir utilizzato così: In iscuole con tre forze docenti vi saranno un maestro e due maestre, in quelle con quattro forze docenti due maestri e due maestre e con cinque forze docenti due maestri e tre maestre, del resto tutte le classi maschili devono essere coperte con maestri e le femminili con maestre. In mancanza di maestri potranno essere affidati a maestre anche i ragazzi dei quattro primi gradi di età. Ad § 9. È giusto che prima dell’eventuale soppressione di una scuola, o classe si provveda acché il docente rispettivo non abbia a patir danno nei suoi diritti. Ad § 10. In correlazione a quanto si disse nel § 6, essendo necessario favorire l’istruzione in tutti i modi sarebbe desiderabile qui esporre più dettagliatamente quali scuole o classi siano non necessarie in legge, e precisamente che venissero dichiarate tali solo le scuole figliali (§ 1 cap. 2) e le classi che si volessero istituire in più là dove la media degli scolari addetti ad ogni classe non sorpassa il numero di 60 e che solo per tali scuole o classi avesse ad aver vigore il disposto del § 10 capov. 3 di questa proposta. II. Frequentazione della scuola Ad § 16. Questo § è del tutto eguale a quello della Legge 30 aprile 1892 solo qui si concederebbe ai docenti il diritto di esporre il loro parere al Consiglio scolastico locale di caso in caso in merito all’assunzione di ragazzi che non hanno ancora compiuto il sesto anno di età. È questa una buona disposizione dal punto di vista che molte volte i genitori vogliono mandare alla scuola i loro figli molto per tempo all’unico scopo di liberarsi dai medesimi, senza alcun riguardo allo sviluppo fisico ed intellettuale loro, e solo i maestri possono essere giudici competenti in merito a prima vista, o dopo un breve periodo di prova. Ad § 16. Qui si richiede che debba seguire al più tardi entro gli ultimi otto giorni precedenti l’incominciamento dell’anno scolastico l’insinuazione al Consiglio scolastico locale dei ragazzi altrui tenuti a dozzina od al lavoro in età obbligata alla scuola colla relativa osservazione se e quale istruzione sia loro impartita e si stabilisce a chi spetta infliggere pene per trasgressioni contro le prescrizioni di questo §. Ad § 17. In questo § è chiaramente specificato in che consiste la prima parte della matricola scolastica, ossia la matricola scolastica propriamente detta e ciò serve anche a dilucidare la relativa ordinanza dell’i. r. Consiglio scolastico provinciale del 3 ottobre 1901 (Bollettino Leggi Provinciali N. 35). Ad § 18. In questo § il testo della proposta è sbagliato nel senso che vi è citato due volte il § 15 anzichè il § 17 appunto come nella legge 30 aprile 1892. Ad § 20. Qui è affidata alle Dirigenze scolastiche la controlleria sopra ragazzi che abbandonano colle loro famiglie un luogo per recarsi in un altro, affinché non avvenga che tali fanciulli abbiano a non frequentare alcuna scuola per troppo lungo tempo. Ciò è cosa naturale, giacché i maestri sono più alla portata di conoscere ciò, di quello non lo siano i membri del Consiglio scolastico locale. Questa proposta è analoga a quella della conferenza magistrale provinciale del 1899 fatta in questo riguardo. (Continua) |
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| 01901-1905
| Si vede da ciò che la scuola di ripetizione incontra degli ostacoli non indifferenti. In primo luogo stando all’ordinanza ministeriale 8 giugno 1883 N. 10618 non sarebbe ammissibile la scuola festiva o domenicale, in quanto che ivi si prescrive esplicitamente che la scuola si faccia solo nei giorni feriali. Del resto non potendosi tener la scuola di ripetizione che nel semestre invernale resterebbe ben poco tempo disponibile a tale scopo fuori delle ore delle funzioni ecclesiastiche. Tutt’al più potrebbesi la sera subito dopo i vespri tenere un’ora di istruzione religiosa speciale per i ragazzi obbligati a tale scuola, quando il Curator d’anime locale non ritenesse sufficiente la solita dottrina di ogni domenica. Non ci sarebbe che adottare generalmente anche da noi, come nella parte tedesca le due mezze giornate di vacanza settimanale (mercoledì e sabato) e tenere l’istruzione di ripetizione in questi due giorni per i ragazzi dai 14 ai 16 anni. Ma ordinariamente i fanciulli che dedicansi all’agricoltura (e sono i più) a quest’età vanno già a giornata e si incontrerebbero con facilità delle opposizioni da parte delle famiglie povere. Tale sistema sarebbe forse adottabile dal novembre in marzo nei luoghi di montagna. Nelle città e nelle borgate poi la faccenda riuscirebbe ancor più difficile coi fanciulli che in maggior numero si dedicano all’industria. Restano quindi le così dette scelte serali. Anche queste però dovrebbero essere regolate in modo che non dovessero essere protratte mai al di là delle ore 8 pom. e che fosse assicurata la dovuta sorveglianza sull’immediato ritorno degli scolari alle case loro. A questa condizione, ed a patto che l’istruzione che viene impartita in queste scuole sia tutta di pratica utilità nei bisogni della vita si può raccomandare la scuola di ripetizione, e renderla obbligatoria in tutti quei luoghi ove vengono accordate le facilitazioni generali dell’esenzione dalla frequentazione della scuola per i quattro ultimi semestri estivi, come pure in quelle città e borgate ove sono molti i figli di agricoltori che frequentano la scuola od i poveri che possono abbisognare dell’aiuto dei giovani figli per il maggior tempo possibile. Così la frequentazione alla scuola ordinaria potrebbe esser raggiunta più facilmente dal maggior numero di fanciulli, senza bisogno di continue misure coercitive, che dovrebbero essere limitate ai casi di negligenza assoluta e colpevole. Ad § 23. In questo § è lasciata facoltà al Consiglio scolastico locale di stabilire esattamente l’incominciamento e la durata dell’istruzione, nonché l’intiera frequentazione della scuola a mente delle norme legali vigenti. Il numero delle ore d’istruzione per i singoli oggetti invece è stabilito dall’i.r. Consiglio scolastico provinciale in occasione che pubblicherà i piani normali d’istruzione. Qui si ritiene però opportuno che la durata massima dell’istruzione sia di 25 ore settimanali, rispettivamente sia fissata a 20 ore in settimana per i ragazzi dei tre anni di obbligo, e fra la seconda e la terza ora non siano lasciati che dieci minuti di intervallo. Così si può ottenere di fissare due mezze giornate in settimana (mercoledì e sabato dopo pranzo) di vacanza, con vantaggio della frequentazione, specialmente nei comuni rurali, poichè se i genitori sanno di avere a loro disposizione i propri figli per due mezze giornate in settimana, sapranno adattarsi meglio a sottostare all’obbligo di far loro frequentare la scuola nelle altre dieci mezze giornate, e quindi il raggiungimento della meta d’istruzione non viene con ciò impedito, ma anzi facilitato. Inoltre si osserva che in base all’ordinanza ministeriale 18 maggio 1874 N. 6549, rispettivamente 3 aprile 1877 N. 21094 non sono prescritte che due sole ore di religione, il che è appena sufficiente per far apprendere ai ragazzi il catechismo, almeno nelle sue parti più importanti. Or non v’è nessuno che neghi l’influenza vantaggiosa dal lato educativo dell’istruzione nella storia sacra. Egli è perciò che qui si propone venga stabilito definitivamente che la Storia Sacra venga insegnata dai maestri stessi usufruendo delle ore stabilite per la lettura, facendo in modo che non venga con ciò impedito il trattamento conveniente degli oggetti reali a cui deve porgere appunto occasione il solito libro di lettura per le scuole popolari. Così non si farebbe che sanzionare quanto dispose il Consiglio scolastico provinciale col Dispaccio 29 luglio 1884 N. 14765. Ad § 24. Il capoverso di questo § non è che un’aggiunta al testo della legge provinciale, atta a meglio assicurare che i genitori si curino convenientemente dell’istruzione dei loro figli. Questa disposizione è basata sul § 23 della Legge dell’Impero 2 maggio 1883 (Continua) |
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| 01901-1905
| Vienna, 9 La cronaca dei tumulti universitari, delle lotte di partito fra studenti ebbe anche oggi materia esauriente di che occuparsi. I fatti accaduti negli ultimi giorni a questo Politecnico, fatti che condussero alla chiusura momentanea dell’istituto e al divieto generale di comparire con i propri berretti, trovarono questa mattina un’eco forte nell’Università, che fu un’altra volta teatro di scene rumorose. Verso le 11 l’aula era piena zeppa di studenti con una prevalenza assoluta di tedeschi nazionali, che si trovavano appunto là numerosi oltreché per tenere i soliti Bummel, anche per dare addosso agli studenti cattolici, quando questi, verso le 11.30 dovevano entrare nell’Aula e di lì passare nel loggiato interno dell’Università per tenere i loro Bummel. Prima a comparire fu la Società cattolica tedesca, Rudolfina, che dagli avversari fu accolta con fischi e grida di abbasso, e dietro alla quale furono chiuse le porte maggiori dell’Università. Subito dopo si presentò il rettore annunziando aver egli stesso fatto chiudere le porte e esortando tutti alla calma. Intanto giunsero anche gli studenti delle altre Società cattoliche tedesche, che trovando impedita l’entrata, si radunarono davanti. Dopo inutili tentativi fatti dai più arrabbiati pangermanisti, di atterrare le porte dell’aula, gli studenti abbandonarono quest’ultima, e per una porticina laterale lasciata aperta uscirono dirigendosi versa la grande rampa della facciata maggiore dell’edificio, ove gli studenti dei due partiti avversari avevano già incominciata la loro lotta a parole, e ove una folla enorme di curiosi stava guardando. I pantedeschi, che primi con insulti e sarcasmi avevano stuzzicati i cattolici scesero ben presto ai fatti, e già da una parte e l’altra piovevano i colpi di bastone, ma proprio in quel momento si misero fra i contendenti i poliziotti e riuscirono dopo grandi sforzi a separarli. Ma siccome la grande massa studentesca non ubbidì al comando di sgombrare il luogo, le guardie cercarono di arrestare i più renitenti, ma nel medesimo tempo una fiumana fitta si riversò su di loro, mentre altri fischiavano e protestavano contro la polizia, che aveva violato le libertà accademiche entrando su suolo accademico. La lotta si protrasse a lungo fra poliziotti e studenti, finché da ultimo alcune guardie a cavallo, con un agire, certo degno dei loro progenitori del Nord, coi cavalli riuscirono a snidare il gruppo dei più restii. In quel momento partirono anche i cattolici; alcuni studenti si portarono dal Rettore per chiedere ragione della condotto della Polizia, condotta non del tutto lodevole, e poco dopo, comparvero annunziando alla folla la promessa del Rettore di protestare presso le autorità contro il contegno della polizia. Dopo ciò la moltitudine a poco a poco si dissipò. |
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| 01901-1905
| Innsbruck, 11 Questa mattina il d.r Lorenzoni, che come generalmente si dice, terrà la sua prolusione verso la metà di questa settimana. Sul contegno che terranno gli studenti tedeschi, circolano voci tanto discordi da non poter per ora dir nulla di positivo: secondo gli uni faranno del gran chiasso, secondo altri si limiteranno a una dimostrazione, secondo altri ancora lasceranno passare quasi inosservato l’avvenimento: l’opinione predominante e però, probabilmente, la più giusta, è la prima: tra qualche giorno si vedrà. Intanto per stamane il Rettore, che in questi giorni pare occupatissimo, invitò separatamente ad un famigliare abboccamento i delegati dei diversi gruppi tanto italiani che tedeschi. Non so che cosa abbia detto agli altri studenti; agli studenti cattolici italiani si limitò alla raccomandazione di non voler essere provocatori di disordini, che potrebbero ridondare a grave danno di tutti gli studenti. Gli fu risposto che gli studenti cattolici italiani non furono mai provocatori, non lo saranno neppur questa volta, ma provocati ed offesi certo anche essi faranno valere le loro ragioni. Raccomandò poi di non voler festeggiare troppo calorosamente con applausi, con battimani, con evviva ecc. ecc. il d.r Lorenzoni nella sua prolusione, ma aspettare piuttosto a fargli l’accoglienza fuori dal suolo accademico, giacché i tedeschi mal sopporterebbero tali cose e sarebbe un eccitarli alla lotta. Lesse infine il decreto ministeriale giunto in questi giorni assieme alla venia legendi del d.r Lorenzoni, di cui qui dò un riassunto, lasciando i commenti e il giudicare quanto ad esso si possa credere, ai nostri lettori. Prendendo argomento dalla prossima venuta di un nuovo docente italiano, cioè del d.r Lorenzoni all’Ateneo enipontano, il Senato accademico in una sessione degli 11 marzo corr. ha deliberato di far allontanare quanto prima le cattedre giuridiche italiane dall’Università, appellandosi fra il resto ai disordini previsibili in quest’occasione e agli svantaggi che ne ridonderebbero agli studenti, ed ha proposto di erigere in quella vece in Innsbruck una accademia giuridica a parte. Il Ministro del culto e dell’istruzione deplora vivamente tali prevedibili disordini da pare degli studenti, riconosce il danno immenso che ne deriverebbe per il corso regolare dei loro studi, qualora si dovesse chiudere l’Università, ma tutto considerato non trova da aderire a questa decisione del lodevole Senato, poiché manca di una base reale e certamente non potrebbe condurre allo scioglimento della questione universitaria. Raccomanda invece caldamente alle autorità accademiche di mantenere indisturbato l’ordine e la quiete indispensabile allo studio, rammentando alle stesse il dovere che loro incombe di provvedere con tutti i mezzi all’istruzione superiore. Il ministero riconferma agli studenti tedeschi il carattere prettamente teutonico dell’Università enipontana riconosciuto in un decreto degli 8 marzo 1902 e dichiara di venir simultaneamente incontro ai desideri degli studenti italiani offrendo loro il mezzo di poter apprendere la coltura superiore nella madre lingua, conforma alla decisione presa nel novembre del 1901, in seguito ad una interpellanza dei deputati italiani. Soggiunge che l’idea lanciata dal Senato accademico di erigere un’accademia giuridica italiana a Innsbruck, invece di segnare un passo innanzi verso una pacifica soluzione, diverrebbe un nuovo focolare di discordia fra studenti italiani e tedeschi. Il ministero però sta esaminando l’idea di allontanare bensì quanto prima la cattedra giur. ital. da qui, ma di trasportarla in un’altra città – Vienna, Graz, Gorizia o Trieste – e di erigere ivi un’accademia giuridica italiana indipendente. Finisce assicurando che tale progetto, che non è ancora maturo, sarà fra breve un fatto compiuto e raccomanda caldamente a tutti gli interessati di far sì che non venga turbato l’ordine in questo Ateneo. Questa sera per discutere appunto su questo decreto e per stabilire il loro contegno alla prolusione di Lorenzoni, tengono un’adunanza gli studenti liberali tedeschi, a cui terrà dietro un’altra domani degli studenti cattolici, sempre sullo stesso argomento, nella sala N. 6 dell’Università. |
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| 01901-1905
| Vienna, 11 (Fortis). Finalmente anche nell’Austria un congresso cattolico! La Cisleitania non è terreno da congressi cattolici: le ragioni sono troppo ovvie per ripeterle. Forse l’unica provincia tedesca che può chiamare i cattolici a serene discussioni, ad un lavoro concorde, è l’Austria inferiore. Eppure anche qui quanti tergiversamenti, quanti rinvii precedettero il semplice congresso provinciale! Un anno fa, la lotta circa la questione eberardiana che minacciava, un altro il famoso convegno del clero di Mons. Scheicher la pietra d’inciampo! E così arrivammo al maggio del 1903. E dopo tante fatiche – appena due giorni sono consacrati ai lavori del congresso! Vi pare un brutto segno? – Giudicate forse male. La meravigliosa e potente organizzazione dei cattolici nel partito cristiano-sociale offre loro l’occasione di far sentire la loro voce in quasi tutte le questioni che sorgono, se eccettui quelle direttamente religiose. Il congresso quindi non serve che a scambiare le idee, già discusse e ventilate. È una rassegna della propria storia. Il congresso fu aperto ieri alle 2 dopopranzo e si chiuderà già questa sera. Nell’adunanza generale costitutiva viene acclamato presidente il conte F. Kufstein della diocesi di S. Pölten, il quale dichiara subito che il congresso si occuperà del movimento cattolico in generale, escludendo assolutamente il movimento politico, che i cattolici vedono con grande fiducia in mano del D.r Lueger. Questa dichiarazione espressa suscita grandi applausi. Dopo la lettura delle adesioni venute da tutte le parti della Monarchia, e l’elezione dei presidenti delle sezioni, l’adunanza generale è chiusa e si passa subito al lavoro delle sezioni. Sono aperte contemporaneamente quelle dell’educazione e quella della questione sociale. Riferirò per oggi brevemente di quest’ultima. È la più numerosa. I più sono laici; vi sono però anche molti sacerdoti, fra i quali saluto con piacere il nostro attivissimo on. Don Delugan. Alla presidenza siedono il D.r Scheimpflug e il prof. univ. Schindler. Riferisce il redattore della Christlich-soziale Arbeiterzeitung Spalowski sul movimento operaio in genere e in ispecie sulle «Gewerkschaften». La relazione è succosa e riguarda solo i principi fondamentali dell’organizzazione. Le questioni particolari vengono demandate al congresso dei lavoratori cristiano-sociali, che si terrà nel prossimo giugno. I pensieri fondamentali della relazione sono contenuti nella seguente risoluzione di cui traduco la parte più importante letteralmente dal protocollo. «Il congresso vede nell’organizzazione dei lavoratori cristiano-sociali secondo il programma dell’anno 1901 l’unico mezzo con cui offrire anche agli operai il modo di migliorare al loro condizione sociale ed economica; fra le diverse specie di organizzazioni viene raccomandata specialmente quella delle “Gewerkschaften” unioni professionali cristiane. In base all’insegnamento del cristianesimo, è certo che i lavoratori hanno diritto di unire i loro sforzi sia per migliorare la loro condizione economica, sia per partecipare ai beni della cultura moderna. Dal momento che i provvedimenti dello stato e della legislazione in questo riguardo lasciano molto a desiderare, l’organizzazione dei lavoratori nelle “Gewerkschaften” è assolutamente necessaria. L’organizzazione professionale deve specialmente avere per scopo: a) di pretendere e sorvegliare il mantenimento e l’attivazione delle leggi che proteggono l’operaio già esistenti; b) di tendere ad allargare queste leggi corrispondentemente allo sviluppo dell’economia industriale; c) di cooperare in comune per migliorare la condizione materiale e morale, dei lavoratori specialmente in quanto riguarda il salario e il contratto del lavoro e di promuovere la consulenza legale, le casse di mutuo soccorso e l’istruzione professionale, educando il lavoratore a rappresentare i propri interessi di classe. Le “Gewerkschaften” devono nella loro attività seguire i dettami della giustizia e dell’equità secondo i principi del cristianesimo. L’imprenditore è da considerarsi come un fattore necessario della produzione e quindi le “Gewerkschaften” devono escludere per principio la lotta di classe. Esse non si devono occupare di questioni religiose o politiche, e specialmente l’educazione e la coltura religiosa dei lavoratori va affidata – per quella parte che spetta ad un’organizzazione operaia – alle società cattoliche operaie e della gioventù. Siccome le “Gewerkschaften” già esistenti si chiamano bensì «libere», ma in realtà sono socialiste e, combattendo la religione e gli ideali cristiani, rendono impossibile la partecipazione dei lavoratori cristiani, è urgente organizzare i lavoratori in proprie “Gewerkschaften” cristiane». Come i lettori avranno già pensato, sull’ultimo capoverso vi fu una lunga discussione, che io non riporto perché, in quanto riguarda principi, non niente di nuovo. Constato solo che, uditi i criteri pratici con cui s’è messo mano fino ad ora all’organizzazione e visto che la posizione nostra è molto differente da quella della Germania, il congresso accettò la risoluzione ad unanimità meno un voto. La II sezione trattò poi la questione antialcoolismo. Il relatore accennò al recente congresso antialcoolista di Brema e deplorò che un movimento così umanitario sia quasi completamente in mano alla Massoneria. Raccomandò il «Katholischer Mässigkeitsverein für Oesterreich», il «Priesterabstinentenbund» e i loro organi, il «Volksfreund» e la «Sobrietas». Il congresso accettò ad unanimità una risoluzione analoga. Degli altri lavori di sezione riferirò più tardi. L’adunanza festiva della sera. Si apre alle 7 1/2. Una salva d’applausi accoglie il D.r Lueger che va a sedersi alla destra del nunzio mons. Taliani. La splendida sala è affollatissima: vi sono rappresentate tutte le classi sociali. Parla il Lueger. Saluta i congressisti a nome della città di Vienna, i cui abitanti sono in maggioranza cattolici, e cattolici di fatto. È venuto volentieri anche per un secondo motivo, perché è certo che quelli che lo ascoltano sono buoni austriaci. Se non fosse altro, basterebbe a provarlo l’assenza completa da questo congresso di qualsiasi rappresentante del governo. (Si applaude ostentativamente). Essi capiscono che i cattolici sono e rimangono buoni austriaci, né hanno bisogno per essere tali delle visite, dei carezzamenti, delle promesse degli uomini del Governo. Del resto, se il d.r Körber si presentasse a un congresso cattolico, avrebbe paura di perdere la renommée politica che gli fabbricano i giornali liberali. Noi siamo purtroppo avvezzi a questo sistema, ma lavoreremo affinché il popolo faccia intendere a questi signori che hanno il dovere sacrosanto di venire anche da noi (applausi). Augura al congresso attività e vuole dare anche un consiglio: Siate uniti, siate come un esercito. È una cosa molto bella che ci siano tanti presidenti, vicepresidenti, cassieri ecc., ma si badi a non procurare la dispersione delle forze. Sale alla tribuna Sua Eccellenza il conte E. Sylva-Taronca. Dice che ha voluto parlare subito dopo il d.r Lueger, per dire che quest’uomo è di per sé solo un intiero programma per il congresso, è la fortuna dei cattolici! Questa dichiarazione di un membro del grande possesso, partito che combattè una volta il partito cristiano-sociale, e che anche ora lo guarda con diffidenza, è susseguita da una salva di applausi ed è l’oggetto di molti commenti. Il conte Sylva-Taronca porta poi il saluto del comitato esecutivo per i congressi generali della Cislaitania e si dice lieto di poter annunziare che nella prossima primavera il congresso generale austriaco sarà un fatto compiuto. Seguono, secondo il programma, due discorsi, uno del Kundschak sull’elevazione del proletariato, bellissimo, senz’accademia, assolutamente pratico, e quello del principe Lichtenstein sulla necessità di un’Università cattolica in Austria. Impossibile darvene anche solo una pallida idea. Attacca vivacemente la coterie universitaria, le Facoltà ridotte a veri sinedri. Un cattolico non passa questa muraglia chinese. Narra dei casi speciali a cui ebbe parte egli stesso. Accenna a quello del prof. Pastor . Per dieci anni, egli dice, ha chiesto che venisse promosso all’Università di Vienna, e ogni ministro dell’istruzione riconobbe nel Pastor una capacità di primo ordine, ma non seppe rompere nemmeno lui la muraglia cinese. Dopo la chiusa, incominciò il commers delle associazioni studentesche. I fatti di questi giorni e la notizia recente che il senior della Norica era stato relegato dal politecnico per il semplice fatto che aveva domandato protezione per i deboli, avevano messo gli animi in grande agitazione. Il bar. Wilteskirchner, a nome della presidenza del congresso, saluta nel senior un martire dell’idea. Il conte Sylva-Taronca attacca vivacemente le autorità accademiche. Il Lueger stende la mano al giovane e dice: Così sretti assieme giovani e vecchi combatteremo per il buon diritto fino alla vittoria. Gli applausi non volevano più finire. Il borgomastro si rivolge poi al D.r Fuchs e lo prega scuotere un pochino il Centro. Uniti sapremo imporci al Governo! – Il congresso applaude! |
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| Diamo qui la relazione sui fatti avvenuti sabato ad Innsbruck in occasione della prolusione del nuovo docente d.r Lorenzoni . Purtroppo anche questa volta le cose non andarono lisce. Si vede chiaro che elementi amanti del disordine vollero provocare tristi scenate e questi elementi, come apparisce dai telegrammi e dalle corrispondenze spediteci, vanno cercati fra i tedeschi nazionali. Speriamo che lo sfogo di sabato non abbia a rinnovarsi, ma se gli studenti radicali che in simili occasioni vogliono prevalere, mostrassero di non essere ancora soddisfatti, sarà obbligo delle competenti autorità impedire i disordini e difendere il buon diritto degli italiani, fino a tanto che questi si troveranno ad Innsbruck. Né il rimedio opportuno dovrà al caso cercarsi nel sospendere le lezioni e colpire per causa dei mestatori tutta la studentesca; se le autorità vorranno, avranno ben modo di richiamare al rendiconto e ridurre al dovere i veri promotori e autori dei disordini, che spinti da odio nazionale, turbano la pace all’Università, ledono il diritto altrui e acuiscono le differenze nazionali con pubblico danno. Ed ora ecco la cronaca. Sabato sera ci giungeva da Innsbruck il seguente telegramma: «Verso le ore 3.30, in base al conchiuso di ieri sera, il corridoio dell’Università brulicava di studenti tedeschi. Prima delle 4 gli studenti italiani occupano la sala. I tedeschi affollansi fuori. Entra Lorenzoni, gli italiani applaudono, i tedeschi fischiano. Vogliono entrare, ma sono impediti dal professore Wirtinger. Il professore Lorenzoni fa la sua prolusione che passa quieta. Intanto la via davanti all’università si affolla. Terminata la lezione i tedeschi cantano Burschen heraus, Wacht am Rhein. Wirtinger invita alla calma gli studenti. Gli italiani escono passando davanti ai tedeschi occupanti i corridoi e cantanti la Wacht am Rhein. Quando gli italiani erano usciti dall’Università quasi tutti, gli ultimi vengono assaliti dai tedeschi; gli italiani si rivoltano. Incomincia un tafferuglio e una baruffa sulla porta, corrono bastonate. Due italiani, Girardini e Ben, ed alcuni tedeschi restano leggermente feriti. Allora si chiudono le porte. Lo studente russo Bakounin , di corporatura gigantesca, spalanca le porte, parla colle braccia incrociate, terrorizza ed arresta i tedeschi. I cittadini circostanti assalgono gli italiani alle spalle: intervengono le guardie. Gli italiani emettono grida nazionali e partono scortati dalle guardie e seguiti dagli studenti e cittadini tedeschi urlanti la Wacht am Rhein. Gli studenti italiani si recano all’Oesterreichischer Hof dove Lorenzoni prende la parola. Questa sera alle 8.30 adunanza». Innsbruck, 17. – A completamento del mio telegramma di ieri aggiungo i seguenti particolari. Gli studenti italiani erano una ottantina, mentre gli studenti tedeschi erano alcune centinaia. L’arrivo del prof. Lorenzoni fu accolto dagli studenti italiani con applausi. Gli studenti tedeschi sui corridoi allora si misero a fischiare e tentarono di penetrare nella sala, ma furono respinti dal prof. Wirtinger, decano della facoltà filosofica. La lezione alla quale assisteva anche il d.r Piscel passò del tutto quieta. Finita che fu, scoppiarono nuovi applausi, ai quali i tedeschi contrapposero il canto della Wacht am Rhein. Dietro preghiera del prof. Wirtinger ritornò la quiete. Gli studenti italiani allora lasciarono tranquillamente la sala ed uscirono dall’università seguiti dai tedeschi... nazionali. Pareva che tutto dovesse finire pacificamente, quando alla porta di uscita uno studente tedesco offese lo studente italiano Ambrosi con la parola vigliacco. Lo studente italiano reagì alzando il bastone: in quel punto nacque una baruffa fra tedeschi e italiani, durante la quale corsero bastonate da una parte e dall’altra restando leggermente feriti tre o quattro italiani e parecchi tedeschi. Le guardie accorse divisero tosto i contendenti e dopo pochi minuti il tafferuglio era cessato. Gli studenti italiani cantando per il Burggraben e la Mariatheresienstrasse si recarono all’Oesterreichischer Hof in Wilten, luogo delle loro riunioni. Alle 8 tennero un’adunanza nella quale il prof. Pacchioni ebbe parole di approvazione per il contegno degli studenti italiani e mandò un saluto all’università italiana. Anche il d.r Piscel prese la parola eccitando la gioventù alla riscossa. L’adunanza in fine deliberò che gli studenti italiani si recheranno a protestare al Rettorato dell’Università e alla Luogotenenza per la provocazione e l’aggressione di cui furono fatti segno. Che si presenteranno dal Podestà d’Innsbruck per chiedere la scarcerazione del legatore Barbi arrestato dopo la zuffa sulla porta dell’Università. Una rappresentanza di studenti si recherà a Vienna per interessare della cosa i nostri deputati. Lo studente Pedrotti, presidente della Società studenti, si recherà tosto a Trento per riferire in un pubblico comizio sui fatti avvenuti. Il d.r Piscel riferirà sullo stesso argomenti in un comizio a Rovereto. In genere la gente seria è unanime nel riconoscere che il contegno degli studenti italiani fu corretto e prudente. Gli studenti italiani feriti sono: Giov. Ambrosi, Veronesi, Girardini e Ben. Le ferite sono del tutto leggere. Solo allo stud. Ben la ferita fu ricucita con un paio di punti di sutura. |
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| (Fortis). Dall’Austria inferiore, dal Salisburghese, dall’Austria superiore, dal Tirolo, dal Vorarlberg, dalla Carniola, dalla Carinzia, dalla Stiria, dalla Boemia, dalla Moravia e dalla Galizia, si raccolsero ieri in Vienna i delegati delle organizzazioni dei lavoratori che aderiscono alla lega generale dei lavoratori cristiano-sociali (Christlich-sociale Arbeiterschaft). Già cinque anni or sono si era costituita in Vienna una commissione che doveva prendere in mano l’organizzazione generale dei lavoratori e convocare un Congresso. Questo ebbe anche luogo, ma questioni personali e la lotta colle cosidette «organizzazioni popolari» ove non v’è rappresentanza d’interessi e che vengono tuttora sostenute dal deputato Prohaska, resero difficile l’impresa. Aggiungete le scosse potenti che dovette sostenere tutto il partito cristiano-sociale dell’Austria inferiore, quando si doveva lavorare a difendere il più da nemici così molteplici, e comprenderete di leggeri, anche senza contare le paure di certi capi, il perché di questo tardo sviluppo di un’organizzazione propria dei lavoratori. In queste difficoltà e in altre d’indole nazionale, è da cercare la causa di un fatto che dovrebbe essere limitato all’Austria. La lega, cioè, è sorta per iniziativa dei lavoratori stessi, semplici lavoratori sono i suoi direttori, lavoratori gli agitatori e i propagandisti. Anche il Congresso quindi, a differenza dei socialisti, ove gli accademici hanno le carte in mano, era formato da semplici lavoratori e, se eccettuate un paio di giovani preti e tre redattori, non avreste veduto che uomini dalle officine o in generale membri delle Unioni professionali. Di qui il carattere schiettamente operaio, serio, quasi rozzo, se volete, del congresso stesso, che per la sua importanza e per l’anima che vi regnava, avrebbe fatto vergognare tanti congressi-teatro dei partiti borghesi. Dalla relazione del segretario della lega, Anderle, (Vienna) rilevo che la direzione sviluppò un’attività grandissima e soprattutto pratica. Numerose tournées di propaganda, emissione di foglietti volanti, istituzione di 53 segretariati del lavoro, adunanze generali e simultanee su importanti progetti parlamentari ecc. ecc. Questo sistema non ha ottenuto ancora i risultati che dovrebbe avere. La direzione fa stampare su foglietti volanti l’ordine del giorno che deve essere proposto in tutte le adunanze, possibilmente nel medesimo giorno. Le rispettive società poi dovrebbero spedire simultaneamente l’esito della votazione alla lega. Ma qui, in occasione appunto della tariffa daziaria, si dovette deplorare l’indolenza di molte società. Il presidente Kunschak deplora che i lavoratori cristiano-sociali di nazionalità czechi, che sono numerosissimi, non abbiano accettato l’invito al congresso, richiamandosi alla questione nazionale. Come sono venuti i polacchi e gli sloveni, potevano venire anche gli czechi. Speriamo che col tempo sarà superata anche questa difficoltà. Al Congresso sono rappresentati circa 40000 lavoratori, malgrado il rifiuto degli czechi e la poca partecipazione dei polacchi. Il presidente rileva inoltre, come il deputato cristiano-sociale Schoiswohl abbia presentato in parlamento in nome della lega la proposta che cada la differenza fra Associazioni politiche e non politiche. Se la proposta passerà, riuscirà più facile l’organizzazione. Saluta l’imponente organizzazione dei ferrovieri, e riferisce sulle disposizioni prese in occasione del Congresso di Friburgo e del Giubileo papale. Hanno aderito numerosi deputati cristiano-sociali, molte associazioni, il deputato Schirmer del Centro tedesco (Monaco). Fischer (Graz) riferisce sull’attività delle organizzazioni stiriane. I socialisti sono in decadenza; i cristiano sociali in breve tempo sono arrivati al numero di 6000 lavoratori organizzati. In quest’ultimo anno si tennero 570 comizi. Lamenta che vi siano ancora organizzatori che non hanno pagato la tassa della lega (4 centesimi al mese a testa). Gostincar (Lubiana) riferisce sull’organizzazione slovena. Nella lega generale non sono ora inscritti che i lavoratori di Lubiana (8000) ma assicura che altre 100 società della provincia nel prossimo congresso di ottobre voteranno l’unione alla lega (applausi vivissimi). È poi probabile che anche i Croati si uniscano agli sloveni, per sostenere la lotta. I lavoratori croati si trovano in condizioni difficilissime. Il loro organo Clas Naroda viene quasi sempre sequestrato. A noi si rimprovera d’essere un partito giovane. È questa la nostra gloria! I partiti vecchi devono essere messi in pensione! (Applausi). Si passa al I punto dell’ordine del giorno. Organizzazione Relatore Bittner (Vienna). Abbiamo stabilito un’organizzazione separata dai socialisti, quando abbiamo visto che il socialismo conduce i lavoratori su di una strada falsa e che combatte il cristianesimo. Anche le Gewerkschaften non sono più neutrali, e ormai lo dichiarano anche i socialisti (D.r Adler, al congresso delle Gewerkschaften giorni fa). Vogliamo anche un’organizzazione propria dei lavoratori, perché solo in questa maniera si possono salvaguardare i loro interessi e si può tenere il campo di fronte ai socialisti. I partiti cristiani, anche i più popolari, non potranno resistere all’invasione del partito socialista nella loro formazione attuale. Essi sono sorti in un tempo, quando il suffragio non era ancora allargato ai lavoratori. È necessaria l’organizzazione di classe. Per ora è possibile almeno l’organizzazione in tre classi entro il medesimo partito: lavoratori, contadini, borghesia. La lega si propone di organizzare i lavoratori cattolici in tutta l’Austria. Sempre restando entro il loro partito politico o nazionale, i lavoratori devono parallelamente avere una lega generale che protegga esclusivamente gli interessi loro. Le società si uniscono in federazioni diocesane, queste in provinciali, oppure si uniscono direttamente alla lega centrale. Una risoluzione in questo senso, dopo lunga discussione, è accolta fra applausi. Nella discussione viene raccomandato ai delegati di lavorare con tutte le forze alla costituzione delle Gewerkschaften 1). La Direzione della lega si mette a loro disposizione. Viene inoltre raccomandata la costituzione di leghe femminili e di società per i giovani operai, oppure di una sezione entro le società esistenti. Su questi tre punti si svolge un lungo dibattito, a cui prendono parte Fuchs (metallurgici), Malz (sarti), Fürlinger (associazioni giovanili), Bösbauer, Schauhofer ecc. ecc. Quest’ultimo raccomanda grande prudenza nel costituire società femminili. Fino che non si hanno tre, quattro lavoratrici, istruite già in una società cattolica, è facile che le organizzazioni vadano a male. Viene rilevata specialmente l’importanza dell’organizzazione di fabbrica. Le donne sono le migliori propagandiste. Fischer (Graz) porta ad esempio la società dei sarti di Graz, dove esiste una sezione femminile. Nel medesimo senso parla il delegato di Lubiana Krajitschek (Simmering) e raccomanda l’organizzazione delle donne di servizio. I rappresentanti dei pasticcieri sollevano un’aspra discussione sulla concorrenza delle donne nelle fabbriche. Si eccita la direzione della Lega a far loro comprendere la necessità di stare coi lavoratori. Da alcuni delegati dell’Austria Inferiore viene raccomandata l’istituzione di sezioni giovanili nelle società operaie, le quali abbiano da istruire la gioventù nella propaganda. La risoluzione infine chiede che i lavoratori si occupino di più della loro organizzazione politica. Fra grandi applausi si accetta la proposta di Rundschack di mandare un telegramma a Leoben, ove si tiene una conferenza per preparare il I congresso dei minatori cristiani austriaci. S’interrompe la seduta alle 12 1/2. Alle 2 dopopranzo si riprende la seduta. Sono pervenuti altri telegrammi di deputati del Vorarlberg. Hemala riferisce sul secondo punto dell’ordine del giorno Propaganda Raccomanda la costituzione di corsi di conferenzieri a seconda delle organizzazioni distrettuali o per vallate. La propaganda e l’agitazione sulle questioni principali dei lavoratori, come suffragio universale, assicurazione ecc. ecc. dev’essere fatta secondo un sistema e un piano simultaneo, prestabilito dalla direzione della lega. Nell’agitazione si deve introdurre il sistema dei giri di propaganda con risparmio di forze e di denaro. Nelle società si deve occuparsi specialmente delle questioni economiche. La tassa deve venir pagata puntualmente e l’operaio stesso deve farne volta per volta la quitanza. Durante la discussione Böslauer osserva che nelle associazioni si lavora troppo negativamente, invece che svolgere positivamente il proprio programma. Preyer raccomanda l’agitazione spicciola da uomo ad uomo. Trinko (portieri) osserva che questo metodo ha guadagnato ai socialisti più aderenti che non abbiano fatto le adunanze generali. Altri delegati raccomandano adunate piccole, ma frequenti, piuttosto che grandiose e rare. L’effetto delle prime è più tardo, ma più sicuro. Hemala, nella conclusione accenna all’importanza morale che assume la tassa quando essa venga pagata dai lavoratori stessi e quando questi siano consci di sostenersi colle proprie forze. Diritti politici dei lavoratori Relatore Preyer (presidente della società dei camerieri in Vienna). La sua relazione è la più discussa di tutte, perché riguarda anche le ultime elezioni alla dieta dell’Austria inferiore. Viene attaccato specialmente il deputato Prohaska. Il suo collega Schoiswohl riprende più volte la parola per difenderlo. Alla fine si accetta la seguente risoluzione: «Considerando che la tendenza dei lavoratori di migliorare la propria condizione economica, corrispondentemente ai progressi tecnici ed economici, è un diritto del popolo che sgorga direttamente dagli insegnamenti del Cristianesimo, il Congresso dichiara: Ai lavoratori è assolutamente necessario di poter influire sulla legislazione e sull’opinione pubblica; perciò essi pretendono libertà politica di parola e di stampa e piena libertà di diffondere le idee della riforma sociale cristiana, libertà infine di organizzazione per il popolo lavoratore. Conseguentemente si richiama il Congresso al programma della lega riveduto nel 1901 e specialmente ai punti che riguardano la libertà di stampa, diritto di coalizione, e diritto del libero voto. Il congresso chiede ai deputati dei partiti parlamentari cattolici, specialmente ai cristiano-sociali, di lavorare per la realizzazione dei detti principi. Il Congresso chiede inoltre che nella scelta dei candidati alle assemblee legislative, in quei luoghi ove la lega è organizzata, si proceda d’accordo coi fiduciari di quest’ultima. Prima di passare all’altro punto dell’ordine del giorno chiede la parola Alcide Degasperi. Non ha potuto parlar prima perché l’adesione della Federazione trentina gli è arrivata solo ora. Saluta i congressisti a nome delle società democratiche cristiane trentine che già i delegati conoscono 2). Anche i democratici cristiani italiani sono dell’opinione che solo una forte organizzazione dei lavoratori, a qualunque nazionalità appartengano, può servire veramente ai loro interessi. Le questioni nazionali devono cessare di fronte ai bisogni urgenti dei lavoratori. È da deplorarsi che vi siano in Austria ancora nazionalità, che non intendono l’importanza della questione operaia. Riguardo alle organizzazioni operaie democratiche cristiane del Trentino, può assicurare che, se finora non è avvenuta l’unione alla lega, il motivo non è da cercarsi in questioni di principio, ma in circostanze che si riferiscono al loro sviluppo. È certo che i lavoratori delle unioni professionali e specialmente gli emigrati in terra tedesca, i quali sentono maggiormente i danni dell’isolamento, saluterebbero con gioia questa unione. I democratici cristiani italiani vedono con simpatia il lavoro della lega e staranno sempre con coloro che faticano per il vero bene del popolo e dei lavoratori (Applausi vivissimi, evviva gli italiani!) Il Presidente Mender ringrazia l’oratore e dice fra l’altro: Noi non siamo certo di quella gente che provoca la lotta nazionale, noi vogliamo l’unione di tutti i lavoratori! (Applausi). (Continua) 1) Riguardo alle Gewerkschaften, devo notare che il D.r Mondada del Domani d’Italia erra quando riferisce che il Congresso cattolico di Vienna decise che esse dovessero avere carattere confessionale. Nella risoluzione invece era detto che i membri dovevano bensì accettare i principi del programma cristiano-sociale, ma che le società stesse non avrebbero ammesso discussioni politiche e religiose. Tutto sta come si vuol intendere la parola «confessionalità». 2) La Christlich-soziale Arbeiter Zeitung di Vienna portava nel penultimo numero con molte parole di lode una ampia relazione sul congresso della federazione delle società operaie cattoliche di Rovereto. |
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| Cavalese, 15 Prime impressioni. – Ci siamo! Un cielo azzurro quasi troppo, presago di quel che venne poi; le case addirittura soffocate dai festoni e dalle bandiere di ogni colore, tra cui frequentissime quelle dell’Impero, e un via vai di gente... ecco l’impressione prima al mio entrare nella gentile borgata. Degli operai davano degli ultimi colpi di martello agli archi, dimenticandosi, per amor del dopopranzo, che quella era la mattina più festeggiata della valle ad onore di Maria Assunta. Noto subito un contrasto: dei signori in «canna», tutti affaccendati e con un certo sussiego e un agitar di braccia che voleva dire: largo, siamo il comitato! e d’altro canto dei gruppi di valligiani che si avviavano alla parrocchia. Questi – ho osservato poi – hanno formato lo sfondo di tutte le scene pubbliche della giornata, mettendo fra i voluti o tentati entusiasmi della folla un certo sapore di ghiaccio. Passo davanti ad uno di questi gruppi. Si questiona forte, ma non afferro che la sentenza finale e ’l sugo de tuto. «L’è meio star fora de tuto e nar a bever la birra» pronuncia lentamente un fiammazzo puro sangue. «Ho capito». L’attesa Al tocco, puntualmente, si dispongono sulla via da Trento le bande di Cavalese, di Tesero e il «distaccamento» (dodici) di quella di Vigo di Fassa. Molti curiosi dei paesi vicini sono già scaglionati sull’erba lungo la via sotto un sole cocentissimo. Ad un certo punto la banda di Cavalese attacca l’inno a Trento, è un falso allarme; le carrozze passano avanti... senza i gitanti che sono già scesi ad aspettare. La concentrazione è riuscita poco felicemente. Vengono alla spicciolata con lunghi intervalli. Le bande si fanno in special modo aspettare. Ad alcuni bandisti è toccata la fortuna d’andare a piedi da Castello in su. Quindi recriminazioni e proteste. C’è però anche chi si lagna forte forte dei bandisti e che li manda a farsi impiccare. In tutta questa baraonda, di mezzo alla confusione generale si sente sempre ripetere un nome. «Aspetti il D.r Battisi»! «Verrà Battisti»! «Avvisi Battisti»! «C’è Battisti». E lui compare e sparisce colla velocità della... bicicletta. Per un momento è l’arbitro della situazione. Dà ordini secchi, napoleonici. Tratto, tratto consulta la sua carta strategica. Così passa un’ora e mezzo. Finalmente ci son tutti. Il D.r Cesare si arrampica come un gatto su di un’ertura, attraverso un campo di patate, sta in vedetta, ridiscende scivolando sull’erba, e ordina «avanti»! Il corteo La colonna è aperta dai ciclisti in bella mostra, colle tracolle azzurre, segue la banda cittadina di Trento, vengono le bande di Tesero e di Vigo, le fanfare, le società con bandiera fra cui quella degli studenti Trentini «senza civetta», osservava un cotale. Il corteo benché non arrivasse a soddisfare chi, edotto dall’Alto Adige, aspettava le migliaia, era tuttavia imponente. Un membro del comitato calcolava, bande comprese, 700 sfilanti. Alle «albere», vengono presentati al podestà di Trento i presidenti delle Comunità, i capocomuni della vallata e il Comitato locale. Il corteo è poi sfilato sotto un bellissimo arco colla scritta «salve fratelli» ed è sceso per la piazza al Municipio. Le case lungo la via quasi tutte imbandierate, quale per la sagra, quale per il ricevimento, dalle finestre cade una pioggia di fiori e di cartellini su cui sta scritto W. Trento, W. Fiemme, W. il Trentino, W. Fassa ecc. Chi fa parte della gita intona qualche evviva, ma, tolti gli applausi fiacchi di chi occupa le finestre, non trova corrispondenza. La folla sta a vedere e niente più. Questo fatto si è potuto constatare durante tutta la giornata, e il sig. Baroni dovrà gonfiare maledettamente, per continuare il tono dei famosi articoli di fondo «augurali». Nessuna meraviglia del resto se certi evviva non venivano capiti che da pochissimi (i lettori dell’Alto Adige) quando si pensi che nell’appello stesso del comitato locale si è evitata ogni parola che pur di lontano potesse presagire il vero carattere della dimostrazione, riducendo tutto a un po’ di finale delle feste vigiliane. Il comitato ha fatto bene a mettere le spalle al muro. Avanti il Municipio si sono poi suonate varie marcie, e si è prodotto anche il coro di Trento. I gitanti applaudirono ad invicem. Una fanfara attacca fra gli applausi dei gitanti la nota marcia nella quale si sente l’inno di Garibaldi. Si assicura che il Comitato è stato redarguito. Finalmente si va a pranzo, e la folla si sperde nelle diverse locande. Il dopopranzo Dei gitanti incomincia con un terribile acquazzone. Scendiamo lungo il viale ombreggiato dai tigli secolari. Anche qui la decorazione è bellissima. Ai fusti degli alberi sono legati gli stemmi delle diverse borgate, e sul prato della parrocchia eretto un palco per le presentazioni. Ma l’acqua cade a catinelle e i gitanti si riparano, in un chiosco, sotto i tigli e ippocastani e (vedete un po’ che cosa fa la dura necessitas!) molti si rifugiano sotto l’atrio della chiesa, e dentro addirittura! Quando il tempaccio credette bene di dar tregua, erano ormai le 6, per cui cadde il concerto e venne rimandata alle 8 la cena a freddo sul prato. La consegna della medaglia Le signore si fanno avanzare sul palco; vi sale il podestà di Trento, quello di Cavalese, il presidente della banda di Cavalese, l’onor. Tambosi e – oh dei! – il d.r Silli ecc. Il D.r Cesare mi pare che arrivasse fino al secondo gradino. A destra si suona l’inno a Trento. Il Podestà di Trento, commosso, dice: «Consegno questa medaglia alla banda di Cavalese a nome della rappresentanza di Trento e della cittadinanza tutta che ha creduto necessario di conferirgliela per i suoi meriti artistici. Essa ricordi inoltre l’occasione e la circostanza in cui fu conferita, quando un popolo intero fa affermazione di solidarietà nazionale. Queste parole sono scritte appunto sulla medaglia, ma sono anche scritte sull’azzurro del vostro cielo, sul verde dei vostri prati, sugli alberi che coronano i vostri boschi, e fin sulle dolomiti, ma soprattutto nei nostri e vostri cuori». I gitanti applaudiscono. Vari evviva restano isolati o muoiono in qualche piccolo gruppo, il solo grido forte era W. Fiemme, perché allora s’aggiungevano anche le voci robuste indigene. Ad un certo punto da un lato si sentono degli urli. Il signor Baroni che era salito sul palco con quella certa sua mantelletta caratteristica zittisce, accennando olimpicamente. Si attacca l’inno di Trento a sinistra. Parla il signor Cristofoletti a nome della banda di Cavalese. Ringrazia e finisce colle parole: «Siam fratelli, siam stretti ad un patto!». I gitanti applaudiscono. Dopo una suonata, il sig. Spazzali, che è stato tutto il giorno il gran factotum del comitato, prende la parola per assicurare che le signore di Cavalese le quali hanno emesso un grido di gioia quando sentirono della cortesia di Trento, hanno incaricato la signora Mendini di fare un presente alla banda di Trento e lui d’esprimere i loro sentimenti. Dopo ciò la signorina Cristofoletti ha consegnato alla banda di Trento un piccolo stendardo di seta. La banda di Trento, per mezzo del suo rappresentante, ringrazia e offre a sua volta il ritratto dei bandisti e una marcia d’occasione «tutti a Cavalese» del m.o Bussoli. Il repertorio è esaurito. Ricompare sul palco il D.r Cesare che ordina uno squillo di tromba per annunziare che la cena sul prato è alle 8. La sera l’illuminazione è splendida, specialmente il vasto prato della parrocchia, coi mille punti luminosi nel corpo della notte, è suggestivo. Lungo i viali pendono innumerevoli palloncini. In mezzo, dei trasparenti con le scritte W. Trento, W. Fiemme, W. il Trentino, W. Fassa ecc. Il prato dov’è imbandita la cena presenta un aspetto magico. Si mangia e poi si canta. Attorno non v’è gran folla. Ad un tratto si suona l’inno socialista, e un fortissimo «Abbasso le spie!» Forse perché passava in quel momento l’odiata veste del prete? La banda e le fanfare suonavano. Dimenticavo di dire che sul far della notte le bande incontrarono i ciclisti di Brescia. Erano una ventina. Dalla casa del D.r. Rizzoli vennero loro lanciati dei fiori. Un’altra cosa. La banda di Vigo di Fassa fu segno in tutto il giorno di speciali attenzioni, e si volle che salisse sul palco. I gitanti applaudirono e gridavano «Viva Fassa italiana», ma quei dodici, buone anime loro, soffiavano impassibili nei loro tromboni, oppure guardavano con un certo viso come a dire «Bah! non ci fidiamo!» Conclusione: il Comitato s’è fatto onore, i Trentini si sono divertiti, il popolo è restato freddo come il ghiaccio, la causa di Fiemme non è proceduta d’un passo. Bisogna lavorare più seriamente e in altra maniera, diceva un capocomune della valle, venuto anche lui come gli altri «per no parer orsi»; bisogna aiutarci! E concludeva così un colloquio con un ex caporione del partito rosso. FORTIS |
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| 01901-1905
| Cosa strana! L’Alto Adige, che dipinge la gita nella valle dell’Avisio come un passaggio trionfale attraverso un popolo entusiasta, premette alla sua descrizione con un articolo furibondo, col quale vuota la bile che gli riempie il petto contro il clero e contro i cattolici. No, caro Alto Adige, che è passato in trionfo per la valle, non ha né tempo né voglia di scrivere articoli siffatti. Simil roba non si butta giù in un momento di amara delusione, quando si va cercando a dritta e a manca qualcuno su cui sfogare il dispetto. Del resto non siete voi il primo su cui capita la disgrazia. Già durante la gita, altri, sotto l’incubo dell’indifferenza popolare, diede la stura all’amarezza che lo ingombrava, e ne sono testimoni i pistolotti del Bazzani a Cavalese e del Battisti a Predazzo. Si vede chiaro che vi è toccato quello che ogni persona conoscente delle valli, prediceva fin da principio: i radicali e i socialisti non trovarono simpatie nelle vallate. Vi fu, però non dappertutto, sfoggio di addobbi e ricevimenti da parte dei preposti comunali e dei pochi componenti i comitati locali, ma punto lì. Il popolo non si commosse. Ma avete voi ragione di lamentarvi che i cattolici non sono intervenuti? A questa domanda fu già risposto da una pezzo, ma è bene tornarvi sopra. Dite un po’, vi ricordate quando un anno fa 5000 trentini delle vallate inondarono la città di Trento per la chiusa solenne del primo Congresso cattolico trentino ? Quale accoglienza fece il Municipio cittadino a quell’immensa folla di fratelli, per i quali era stato pregato di esporre, in segno di simpatia, la bandiera? E l’Alto Adige e il Popolo come si comportarono? Forse che quello spettacolo meraviglioso fece loro dimenticare per un istante le ire di parte per ricordarsi solo della fratellanza trentina? O non piuttosto l’uno e l’altro dei due giornali tentarono con ridicole calunnie e frizzi scipiti di esporre al dileggio e allo spregio tanti valligiani accorsi da un capo all’altro del Trentino? E che fecero radicali e socialisti pochi giorni dopo, ai 14 settembre, per cementare la concordia dei figli di questa terra? Chi non rammenta ancor oggi con profondo disgusto la città di Trento convertita in teatro di gazzarre per opera dei canestrianiani ? E in dicembre, in occasione delle elezioni comunali, forse che i radicali e i socialisti proposero la vecchia concordia fraterna alle mire di partito ? O non si unirono anche allora, dopo essersi atrocemente ingiuriati, per togliere qualsiasi rappresentanza pel comune di Trento ai cattolici, che pure avevano raccolto un terzo dei voti? Ah, sì! Costoro invocano la concordia, quando si tratta di spillare dalle tasche dei cattolici i quattrini, quando v’è speranza di servirsi di loro come di sgabello per salire, come di araldi per procacciarsi l’entrata nelle vallate, come di cantarini per attirare il popolo e farlo gridare; poi la concordia cessa ed essi si accomodano nel nido, magari nel nido di altri, e deridono i fratelli traditi. Ma queste arti non riescono più. È passata quell’era in cui i cattolici si adattavano, per amore di unità, come si diceva, ad accettare i liberali nelle loro società economiche popolari, a moderarsi nelle pubbliche manifestazioni, a comprimere la loro vita di partito, a sacrificarsi in una parola, mentre gli avversari, che in nome della patria pretendevano tali eccessi di sottomissione, andavano organizzando le loro fila e tentavano di irretire tutto il paese . Quei tempi sono passati. Risuonò il grido della riscossa e la riscossa fu potente. Né Silli, né Battisti potranno più rinnovare la pittura riccaboniana di infausta memoria e imitare le gesta di quell’uomo che prescriveva dal ruolo dei trentini chi non si piegava alla sua politica, di quell’uomo che i radicali e i socialisti rovesciarono dal piedistallo, solo per salirvi essi stessi e continuarne le tradizioni. Quei tempi sono passati. La coscienza cattolica è troppo potente, troppo aperta è la professione di anticlericalismo nei radicali e nei socialisti, troppo grave il pericolo che sovrasta il popolo nostro, troppo evidente la mancanza al proprio dovere, l’avvilimento della propria dignità, la macchia inflitta alla propria bandiera, se i cattolici stringessero la mano agli schiacciarospi e agli atei; e tutti questi fatti elevano fra noi e gli avversari una tale barriera che nessuno avrà l’ardire di sorpassarla. I cattolici, come sempre hanno lavorato per la patria e per il popolo a preferenza di tutti gli altri partiti, così in avvenire moltiplicheranno i loro sforzi per rispondere alle sempre nuove e più urgenti necessità, né varranno a distruggere l’opera loro le ridicole sfuriate di giornalisti e tribuni che volessero accusarli di nemici della patria, perché non ballano al suono del chitarrino radicale o socialista. I cattolici, lavorando indefessi e tenendo alto il loro principio, toccheranno certamente la meta desiderata, a differenza di chi semina continuamente la confusione nella sue file e ne sfibra i caratteri. No, le note dell’inno operaio cattolico non si confonderanno mai con quelle dell’inno socialista, che risuonò in mezzo ad altre canzoni ed altri concerti sul prato della parrocchia a Cavalese. I propagandisti cattolici non si confonderanno mai con ciclisti che spargono l’Asino sulla via che percorrono nelle vallate. I soldati della democrazia cristiana non marceranno mai accanto a gitanti che interzano ai loro discorsi i moccoli, a mo’ di punti, di virgole e di esclamazioni. Tutti coloro cui preme che il popolo guardi con orrore i corifei dell’ateismo e della ribellione non si faranno mai vedere a braccetto con questi corifei dinanzi al popolo, che ammirato spalancherebbe gli occhi e la bocca e direbbe: Ed è questi il diavolo? Questi con cui i miei capi conversano così all’amichevole e vanno scarrozzando e divertendosi? No, è vano che si chiedano da noi tali cose, per quanto si cerchi di orpellarle e nasconderne il vero aspetto. Sappiamo che radicali e socialisti sentono di ciò un gran dolore, ma potranno sollevarsene insultando il clero e i cattolici come l’Alto Adige, o pronunziando qualche discorsetto velenoso alla presenza del podestà di Trento, che però protesta nulla esservi di partigiano nella gita. Tanto, a noi di questi sfoghi importa poco; ci importa invece assai che il nostro esercito fiero e immacolato prosegua alacremente la sua via e salvi ai nostri paesi la religione dei padri, ne difenda i diritti nazionali, ne promuova il benessere economico, ne sollevi a più fortunata sorte i figli sudanti sulla dura zolla. |
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| 01901-1905
| Ziano, 16 Ha finito testè di passare il pellegrinaggio radicale-socialista con la fila di bande che l’accompagnavano. L’addobbo esterno della via per cui esso doveva passare, consisteva in un arco con la scritta: «Benvenuti» e in cinque o sei bandiere parte coi colori di Trento e parte coi colori del Tirolo. Si tentò di far intervenire la banda e la rappresentanza comunale, ma non ne fu nulla. Anche l’accoglienza da parte della popolazione fu dura, fredda, agghiacciata. Alle grida che emettevano i giganti, di «via Ziano» ecc. non fu mai risposto dal popolo, che in piccol numero era accorso al loro passaggio nell’andata e ritorno. Lamenti ve ne sono molti, specialmente per gli sconcerti successi durante la processione col Santissimo e durante la Messa cantata, che fu disturbata da un continuo andirivieni di ciclisti. Altre notizie generali e particolari le serbiamo ad un’altra volta se il Popolo e l’Alto Adige non s’accontenteranno di questo. a.d. |
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| 01901-1905
| Amici! A nome dell’Associazione universitaria cattolica trentina, vi invitiamo al Congresso che si terrà gli 8 c. m. a Caldonazzo. Tutti coloro che ci sono stati larghi del loro appoggio, tutti gli amici della causa cattolica non manchino di venire a Caldonazzo. Nell’impossibilità di spedire a ciascuno apposito invito, si consideri tale questo pubblico appello. Trento, 1 settembre 1903 Per l’Associazione univ. catt. trentina Il Presidente Il Segretario A. DEGASPERI G. DECARLI Programma del Convegno 7.14 Ricevimento alla Stazione. 8. Adunanza privata dell’Associazione Universitaria. 10. S. Messa con intervento in corpore delle Associazioni cattoliche. 11. Pranzo sociale nella sala del Castello Trapp, gentilmente concessa 1). 1.30 Ricevimento alla stazione delle Società cattoliche della Valsugana. 2. Sacra funzione. – Sfilata delle Assoc. per il paese. 3.30 Adunanza solenne al «Circolo cattolico». 6. Accompagnamento alla Stazione. 8. Rappresentazione teatrale. 1) Chi prende parte al pranzo è pregato insistentemente d’insinuarsi prima del 6 settembre presso il Signor Francesco Chiesa. – Caldonazzo. Programma dell’Adunanza solenne 1. Relazione generale del Presid. e lettura delle adesioni 2. Discorso di R. Piccinini stud. all’Università di Vienna. 3. Parole del Rappresentante il «Giovane Trentino». 4. Discorso dello stud. G. Dal Ri dell’Univ. d’Innsbruck. 5. Brevi parole del M.R. Bortolini a nome delle Società cattoliche della Valsugana. |
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| 01901-1905
| [...] Signore, signori, colleghi! La mia relazione non sarà un nudo enumerare dei fatti e degli avvenimenti ai quali prese parte in quest’anno sociale la nostra Associazione e che ne formano la vita sua esteriore, ma piuttosto una descrizione sintetica dei moti – direi così – della sua psiche, un rilievo che faccia spiccare la logica del suo agire, la conseguenza delle sue manifestazioni. Il fiorire della Società. L’educazione delle coscienze Anzitutto una constatazione evidente: noi siamo cresciuti. Cinque anni fa, l’Associazione si agitava appena nella culla ed ora è venuta su come robusta e fiorente virago. Dopo un inverno breve ci troviamo nella nostra primavera. Ma non siamo soltanto cresciuti di numero. In questi ultimi anni, si è fatto sempre più chiaro nelle nostre menti, e nei nostri cuori, si è venuto rinvigorendo la fiamma antica per il sostegno degli amici, nella lotta cogli avversari. Est enim in nobis (direbbe Cicerone) is animus, ut non modo nullius audacie cedamus, sed etiam omnes improbos ultro semper lacessamus. Siamo cresciuti di energie, di coraggio. Tuttavia ogni qual volta ci troviamo a rendere conto ai nostri amici, ne chiediamo il compatimento. Tanto è difficile il nostro sentiero, tanto alto e inaccesso il compito nostro. Non temo smentita quando asserisco che la nostra società tiene nelle nostre organizzazioni uno dei posti più avanzati, e l’essere per gran parte dell’anno tagliate le comunicazioni col grosso dell’esercito cattolico, rende oltremodo faticoso il lavoro di educazione e di formazione interiore. Eppure in questo proposito si è fatto molto, e s’io volessi oggi riferire tutto quanto accade anche solo nei due ultimi semestri nelle Unioni locali di Vienna e di Innsbruck per l’educazione dei soci, non mi basterebbero i pochi minuti assegnatimi. Si racconta che i bambini negri, al passaggio delle cavallette, siedono sul deserto per pigliarle nell’aria a bocca aperta ed ingoiarle come fossero leccornie. Simile avviene nel deserto anticattolico che li circonda, e se considerate che accade spesso anche a persone vecchie ed assennate di prendere qualche locusta liberale per una leccornia cattolica, comprenderete la difficoltà di tenerci nel campo delle idee sulla via maestra. Tuttavia noi, fiduciosi in Dio e nella virtù della nostra stirpe, andiamo formandoci da noi stessi in mezzo, ma contro lo spirito anticristiano di oggidì, né ci lasciamo come il piombo inerte fondere in qualunque forma da una mano qualunque. Di questi sforzi che noi facciamo contro corrente poco appare all’esterno, ma la relazione fatta dai giornali delle nostre feste, vi dà anche la risultante di tutte le nostre fatiche, coronate dal radicarsi in noi delle convinzioni e dell’entusiasmo crescente, dimostrato in queste occasioni solenni. L’istruzione che venne data nelle adunanze settimanali, versò specialmente sulle relazioni fra la fede e la scienza o sulla molteplice questione sociale. Noi, o signori, non pretendiamo che i nostri soci diventino tutti propagandisti, ma pretendiamo che ognuno si occupi nelle ore libere in modo specialissimo delle questioni che si agitano ora, perché è qui che trovate anche le nostre ragioni d’essere, i nostri diritti di diventare sempre più. È inutile che i nostri colleghi avversari cerchino differenze e contrasti nel campo nazionale. No, no, signori miei, voi evitate la questione prima, in cui vi sentite troppo malsicuri per accettare la prova. Cristiani o non cristiani e socialmente cristiani, ecco la questione. Nel campo religioso e sociale anzitutto erigiamo le nostre colonne, le quali staranno secolari come le colonne dei nostri templi, malgrado le folle che vi si accalcarono d’intorno. Conferenze, propaganda, l’appoggio degli amici Le nostre conferenze popolari si mantennero sempre in questo indirizzo. Parecchi colleghi hanno già percorso gran parte del Trentino nella propaganda e delle simpatie che hanno guadagnato sono testimonio il plauso e la presenza, o l’adesione di moltissime società operaie a questo nostro congresso. Parecchie furono anche le conferenze d’igiene popolare a cui va data una lode speciale al d.r Pizzini che, nel breve tratto di sei mesi, ne tenne otto, applauditissime. Noto quest’anno anche un aumento della collaborazione alla nostra stampa, quotidiana e settimanale, che vorremmo fosse oggetto di attenzione speciale da parte dei colleghi. Solo una cosa abbiamo da deplorare che intorno al periodico edito dall’Associazione non vi sia maggiore intensità di lavoro e maggior buon volere, ma abbiamo ragioni per assicurare che questo lagno chiuderà un periodo triste. L’appoggio che trova il piano finanziario fatto nel I Congresso cattolico, ci dice che molti dei nostri amici non aspettavano che il nostro appello. Li ringraziamo vivamente. Vedano i colleghi di pensare più efficacemente alla collaborazione specialmente quelli che, liberi dalla pressura della propaganda, vi dovrebbero consacrare almeno gli ozi della vacanza. Questione universitaria Alla questione universitaria accenno brevemente, perché è stata oggetto di discussione nell’adunanza privata. Nel comizio convocato l’anno scorso a Natale abbiamo offerto alla causa dell’università italiana l’appoggio dei cattolici trentini, cioè della maggioranza del paese. Per tutta risposta ci hanno esclusi dai comitati . Per certa gente sono italiani soltanto i liberali, come Hutten in tedesco voleva dire luterano. Ora si è inaugurata solennemente una nuova tattica: quella di ignorarci. È la tattica del «volere e non potere», e finora non ce ne siamo accorti granché. Noi invece seguiremo attentamente le mosse degli avversari, sempre pronti a discuterle, e del resto continueremo tranquillamente per la nostra via, come abbiamo fatto durante l’ultima fase della questione universitaria. Per tutto questo rimandiamo alle nostre dichiarazioni precedenti. Incoraggiamenti, ideali, speranze Signore e signori! Noi abbiamo avuto durante quest’anno sociale anche delle tempeste e dei temporali ma furono temporali di primavera; e vi passiamo sopra, per considerare soltanto la bellezza della stagione. L’appoggio dei cattolici, specialmente quello autorevole di gran parte del clero, la solidarietà delle organizzazioni democratiche cristiane di cui offre un esempio così bello questa adunanza, ci testificano che la fiducia in noi è aumentata, che si vede in noi giovani che hanno serietà di propositi, occhio e cuore per i tempi che corrono. Signori! Tutti noi, vecchi e giovani, abbiamo comuni due grandi amori: l’amore alla Chiesa cattolica, e quell’altro complesso di idee e sentimenti, che io chiamerei il «trentinismo», l’amore a questa nostra patria, che vogliamo difendere tanto dai nemici esterni che interni. Conservatori e innovatori ad un tempo, speriamo e prepariamo tutti un mondo nuovo, un’era novella che assomigli a tempi migliori. L’era d’oggi pare anche a noi, come a Fichte , un’ombra che si aggira gemendo sopra il suo corpo, dal quale l’ha cacciata un’infinità di mali, che invano tenta tutti i mezzi per ritornarvi dentro. Aure vitali circondano già quel corpo, ma esso non ha senso per loro, già dentro si sente il rumore di quella vita che dovrà farne una figura sì bella; ma non basta. Che dobbiamo fare? Anche l’aurora del nuovo mondo è sorta di già ad indorare le cime dei monti e fa immaginare lo splendore del giorno che verrà. Ebbene prendiamo questi fasci di luce, in cui si intravede la nuova giornata, e teniamo il dinanzi come specchio all’anima avvilita, al corpo morto. E ritornerà l’anima nel corpo e ritornerà la vita e si rinnoveranno i tempi. Signori! Se questo congresso potrà mandare solo un raggio quale specchio salutare sul nostro tempo, oggi celebriamo una festa, che sarà segnata nella nostra storia. |
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| 01901-1905
| «Il signor Alcide Degasperi, studente dell’Università viennese, trovò cosa sana e divertente fare una gitarella in questi paraggi, onde ingannare il tempo delle vacanze che scorre sì monotono, in provincia». In questa maniera il corrispondente del Popolo di Hohenems esordisce un temetto di quinta ginnasiale (magari del Collegio Vescovile, nevvero signor Dalmonego?) mandato al giornale per rassicurare i compagni trentini, casomai temessero qualche... conversione!– Gli amici mi perdonino se io stesso vengo a riparlare della «giterella» in argomento, non certo per dire del gran divertirmi che ho fatto o dei bei risultati igienici (qualcuno ne sa qualche cosa!), ma per mettere in carte parecchie osservazioni che vengono, credo, a proposito . Gli italiani emigrati nel Vorarlberg rappresentano uno dei tanti risultati del bel governo della Provincia e della nostra borghesia . Spinti all’emigrazione dalla fame, hanno cercato una seconda patria in un paese ove fiorisce la grande industria. Venuti là quando in patria mancava il necessario, hanno accolto a braccia aperte l’offerta dell’industriale, ed anche oggi ne vivono relativamente contenti. È per questo che una propria organizzazione di resistenza manca ancora, e, data la crisi industriale odierna, è probabile non sorga nemmeno in un prossimo avvenire. La stessa organizzazione socialista non è in fin dei conti che una società per la diffusione di teorie; almeno nessuno nel Vorarlberg si è accorto che sia divenuta qualche cosa di più. Di fronte a questi pochi organizzati (li chiamo così, benché alle società del Vorarlberg si possa applicare la definizione che dava del suo circolo Dino Rondani) sta la maggioranza che nel campo delle idee religiose è con noi, ma in quanto ad organizzazione ha assistito attonita al rapido sviluppo del nostro movimento, senza capirne le finalità e le ragioni intime. In questa massa non regna l’atonia morale, dolorosa caratteristica delle classi proletarie trentine, ma un’atonia sociale, avanzo forse ancora della sfiducia in ogni sforzo collettivo, che infuse la vita pubblica del nostro paese. Conveniva scuotere ed eccitare; ed è quello che si è tentato ora. Sembra che l’esito non sia stato troppo addietro alle speranze. In quasi ogni conferenza vi fu contraddittorio e le ragioni portate dai socialisti, se non sempre il loro contegno, furono tali da spingere dalla nostra i riottosi, da confermare e rassodare chi già era per noi. Così a Wolfurt-Kennelbach, a Dornbirn, a Hohenems e a Bludenz, vanno ora nascendo le nostre società, che per il numero dei soci aderenti si lascieranno addietro di gran lunga le unioni socialiste. Entreranno nelle file della democrazia cristiana nuove forze, e gli operai dell’industria fraternizzeranno cogli operai della terra. Le società operaie del Vorarlberg hanno come scopo primo l’istruzione, l’educazione dei soci e il mutuo soccorso. Gli italiani stanno di fronte a una popolazione di cultura soda, dalle convinzioni religiose radicate. Se talvolta i poveri emigrati devono sorbirsi il titolo di «dumme Welschen», è colpa della patria che li ha condannati alla vita randagia e a mendicare il pane presso un’altra nazione. È colpa della nostra borghesia, che fece la così detta politica nazionale rivolgendo le sue mire precipue verso Sud, senza avvertire i bisogni delle classi meno abbienti che dovevano tendere, in rapporto inverso dell’egoistico indirizzo borghese, verso Nord. Ma un po’ di colpa l’hanno anche gli emigrati stessi, che rimasero per lungo tempo allo stato d’incoscienza assoluta. Potè accadere così, che mentre nel nostro paese il popolo organizzato tentò e riuscì spesso a rompere le catene del liberalismo borghese, nel Vorarlberg, ove la lotta fra il liberalismo e la democrazia cristiana è quasi definitivamente chiusa a favore di quest’ultima, gli italiani accorsero col loro voto incosciente a puntellare l’edificio crollante dei liberali, dei fratelli cioè dei loro avversari più accaniti in patria. Questo stato di cose deve cessare. Gli operai emigrati stanno ora organizzandosi, o amici, ma abbisognano di tutto il nostro aiuto. Conviene anzitutto formare una biblioteca: e questa dev’essere senz’altro un regalo che i democratici cristiani trentini presentano agli emigrati. Io spero che ad un appello eventuale della Federazione delle Società operaie cattoliche verrà risposto con largo appoggio da tutte le società, da tutti gli amici. Sarà anche una delle poche opere veramente nazionali fra le tante che è in voga oggi chiamare così. Ma dobbiamo aggiungervi la propaganda orale, e qui mi rivolgo specialmente ai giovani amici, invitandoli con tutto il calore a intraprendere tratto tratto delle «gitarelle» di propaganda. V’impareranno anche per proprio conto, quanto sia necessario lo studio delle idee democratiche cristiane e lo spirito di sacrifizio per propagarle, vogliano o non vogliano certi signori, che chiamano il nostro lavoro aberrazioni o fanatismi giovanili per ridursi poi a fare in Germania in ritardo su questo mondaccio che ha avuto il torto di non accomodarsi da sé all’alchimia delle loro idee. Concludiamo dunque: il corrispondente di Hohenems, l’unico che s’è fatto vivo, scrive sul Popolo che colle conferenze si è voluto provare il taglio del prato. Ebbene, sì; e abbiamo trovato che si avvicina la mietitura. Essa sarà una nuova festa della democrazia cristiana trentina, che ha allungato le braccia lontano lontano, ed ha stretto la mano a tanti amici, a tanti fratelli che credeva di non ritrovare mai più. a.d. |
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| 01901-1905
| Che i deputati tutti della provincia abbiano perduto il senno in un sol giorno, dopo tanto lavoro, da votare ad unanimità una legge non nazionale? Per parte mia non lo credo. Lascio che pensino ciò i corrispondenti del magno organo socialista. Io ritengo, e credo lo riterrà la maggior parte dei maestri della Provincia, che la nuova legge che ora si va stilizzando, è per i maestri, nel suo complesso, una buona legge. È vero che i maestri maturi che avessero a venir occupati in uno degli attuali luoghi di II classe, o di I, vanno a perdere 180, rispettivamente 360 Cor. annue. È vero che i maestri abilitati dei primi cinque anni occupati nei medesimi luoghi, perdono 200 rispettivamente 400 Cor. annue di ciò che percepirebbero secondo la vecchia legge. È vero che questi nel periodo dal 6.o al 10.o anno perdono ancora 100 Cor. all’anno di fronte al salario iniziale di I classe per luoghi e 120 annue nel 5 anni seguenti, rispettivamente 80 negli anni 16-20. Ma è pur vero che al 21.o anno ottengono tutti già quel salario che avrebbero percepito a quest’epoca i docenti di I classe locale, con un aumento di 100 Cor. al 26.o anno, rispettivamente 120 al 31.o, 220 al 36.o e 320 al 41.o. Restando quindi le cose come furono progettate nella seduta dietale dei 17 and., è giocoforza ammettere che vi fu un notevole miglioramento per il salario in sé, e per l’equità della ripartizione dello stesso fra i membri in base alle loro anzianità di servizio, giacché tutti i maestri che vanno ad occupare uno degli attuali posti di terza categoria locale, già al 6.o anno di servizio dopo la loro abilitazione ottengono un aumento di 300 Cor. annue, di fronte a quello che percepirebbero secondo la legge vigente, aumento che sale gradatamente fino a 800 Cor. in più al 41.o anno. Dell’indennizzo d’alloggio che verrà pagato ai singoli docenti anche colla nuova legge, non parlo, quantunque sia a sperare che almeno per i luoghi di I e II classe locale sarà più elevato di quello che ci vien pagato oggi. È da notarsi invece che almeno per i luoghi di I, e II categoria locale vi sarà l’aggiunta locale di servizio che spero sarà commisurata nel massimo importo di 350 Cor. annue per i luoghi di I classe ed almeno di 200 Cor. per quelli di II classe e che eventualmente si accorderà un equo importo di aggiunta locale anche per luoghi di III categoria che per circostanze speciali lo richiedessero. Queste aggiunte locali, se non tolgono tutte le differenze da me esposte di sopra, le ridurranno per lo meno al minimo termine. Solo sarebbe qui da osservare che, considerando per un aumento di salario esclusivamente gli anni di servizio prestati, siccome ben pochi, per non dir quasi nessuno, arriveranno a sorpassare il 3° anno di servizio, ne verrà che il più dei maestri andrà in pensione col massimo importo di 1280 cor. e pochissimi raggiungeranno le 1720, 1800 e 2000 cor. Da questo lato sarebbe certo di notevole vantaggio per i maestri che: a) le aggiunte di salario venissero commisurate in modo che la quinta ci fosse assegnata già al 30° anno di servizio dopo l’abilitazione od al massimo al 35°; b) che fosse stabilita al 15° rispettivamente al 25° anno di servizio la promozione al salario propriamente detto di 1300-1500 Cor. accordando che tale promozione abbia a seguire anche per meriti; c) che almeno calcolando il salario puro di cor. 1100-1300-1500 come salario di classe, si procurasse che il 20% dei maestri fosse nella massima categoria di salario ed il 30% nella mediana, uniformandosi così al progetto governativo. Si parla di mancanza di forza retroattiva alla legge. Credo che ciò debba intendersi solo delle aggiunte di salario, non essendo neppure da pensarsi diversamente. Anche il progetto governativo ammetteva ciò, o meglio per questi aumenti partiva a calcolare gli anni solo dal 1 gennaio 1894, come sarà anche del progetto dietale attuale. Da ciò conseguirebbe che i docenti vecchi, i quali dovettero in passato lottare colla fame, andando ora in pensione, vanno perdendo tosto una, due, tre e quattro aggiunte computabili in pensione in base al minore o maggiore numero di anni prestati prima del 1894. Equità vorrebbe che anche per le aggiunte di salario si partisse subito dall’epoca di abilitazione; od almeno per venire ad una via di mezzo, che si stabilisse il 1894 come scadenza del primo aumento. Inoltre si dice che la legge entrerà in attività col 1 ottobre 1904. Se si verifica ciò, dovrà la Provincia pagare un’altra volta le aggiunte provinciali stabilite nella seduta dietale 1 maggio 1900. Se la legge entrasse in attività col 1 gennaio 1904, invece cadrebbero le aggiunte provvisorie ed i maestri starebbero meglio senza che la Provincia ne sentisse notevole aggravio. In fine è da notarsi che i maestri della attuale I classe locale che non hanno ancora compiuto il 10.o anno di servizio dall’abilitazione e quelli della II che non hanno compiuto il 5.o anno, percepirebbero di salario nominale meno di quello che percepiscono ora. Ma è certo che nella nuova legge verrà introdotta la clausola transitoria che un salario nominale percepito dai docenti fin qui eventualmente superiore a quello stabilito dalla nuova legge, sarà loro conservato inalterato, finché per anzianità di servizio avranno diritto ad un ulteriore aumento. Fin qui parlai dei maestri. Eguale ragionamento potrei fare anche per le maestre aggravando alquanto la cosa per quelle che già sono in I categoria locale. Io credo interpretare il sentimento della massima parte dei maestri e delle maestre del paese, se rivolgo all’Ecc. Dieta la preghiera che ove sia possibile apportare al nuovo progetto di legge scolastica delle modificazioni nel senso suesposto senza pericolo di vederlo naufragare, lo faccia pure, ma che piuttosto di mettere in pericolo la legge stessa lo voti quale è. UN MAESTRO. |
6d95ee7e-974a-4553-843c-f35b714d126d | 1,904 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| Forse qualcuno leggendo il titolo di quest’opera crederà che si tratti d’una delle solite vite dei santi, spesso troppo stucchevoli perché siano lette anche da chi non lascia da un canto (per principio) ogni lettura spirituale: colpa questa non della vita vissuta dal santo – tutt’altro! – ma dell’agiografo. Costui si ingannerebbe: quest’opera del Clementi è invece un saggio di quel risveglio che già da tempo s’è fatto fortunatamente sentire anche nel campo agiografico. La vita narrata dal Clementi è la vita di un eroe della religione e della patria, d’un grande italiano ingiustamente dimenticato. Non a torto l’Autore lo chiama il «Savonarola del secolo XIV», tanto l’opera del ferrarese è parallela a quella di Venturino . Oratore efficacissimo egli inizia un risveglio religioso che sarebbe parso impossibile in tempi sì tristi, e colla forza della sua parola trae dietro a sé migliaia di convertiti a visitare le tombe dei principi degli Apostoli, in un pellegrinaggio rimasto famoso nelle cronache di quei tempi. Con occhio di profeta egli conobbe la triste sorte futura del suo paese, scoprendone il germe nelle condizioni d’allora, e volle cercarne un rimedio radicale, adottare il quale lo spingeva insieme l’amore della religione. Ma la sventura e la persecuzione, retaggio dei grandi, non gli permise di promuovere la crociata contro i Turchi da lui ideata. Reso sospetto dall’invidia dei suoi avversari alla corte d’Avignone, viene relegato al di là delle Alpi. E qui Venturino appare più che in altro tempo, grande mistico, talché egli non fu secondo a nessuno dei capi della scuola mistica tedesca nel medio evo (Ruisbrock, Enrico di Lovanio, Eccardo, il Taulero, il Susone ecc.). Finalmente gli fu resa giustizia; per incarico di Clemente VI, disceso in Italia, diviene apostolo della crociata, le fa dare un capo, che a lui sembrava degno, e l’accompagna egli stesso. La morte lo colse a Smirne assediata da Omer pascià, impedendogli così di veder svanire tutte le sue speranze. Da questi pochi cenni è chiaro che la vita del Beato meritava che uno storico se ne occupasse con intelletto d’amore. Il Clementi riuscì pari al compito assuntosi: dopo lunghi anni di viaggi, di ricerche minuziose, di studi accurati, egli ci offre ora uno studio pregevolissimo, una vera opera storica, quale la richiedono i tempi moderni. Le molteplici connessioni della feconda attività del Bergamasco colla vita politica, sociale e religiosa d’allora, danno occasione al Clementi di tratteggiare con mano maestra le condizioni dei tempi in cui il Beato visse, e di cui fu tanta parte; il che rende assai più interessante l’opera sua. Alla vita narrata con grande accuratezza critica, con eleganza e vivacità non troppo comuni in tali lavori, l’Autore fa seguire vari importanti documenti e gli scritti finora scoperti del Beato. All’opera del Clementi auguriamo fortuna, che se la merita. La Società di Cultura (Roma, Montecatini 5) spedisce l’indice a richiesta. M. |
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| 01901-1905
| Scientia sine charitate inflat Charitas sine scientia aberrat Ho trovato nel Tolstoi un paragone bellissimo. Gli uomini nel loro stato attuale, rassomigliano ad uno sciame sospeso ad un ramo. La sua situazione è provvisoria e deve assolutamente essere cambiata. Bisogna che esso voli e cerchi un’altra abitazione. Ogni ape lo sa e desidera modificare questa situazione, ma esse sono attaccate le une alle altre e non possono volare tutte insieme, e lo sciame rimane sospeso. Se nessun’ape prendesse il volo senza aspettare le altre, lo sciame non cambierebbe mai posto. Ma basta che un’ape apra le ali e voli via perché una seconda, una terza, una decima, una centesima la seguano e perché tutto lo sciame si sollevi liberamente. Amici! I battaglioni degli operai che marciano il 1° di maggio in nome di una grande riforma e di una vendetta sociale, le grandi riunioni ove si acclama ad un rinnovamento radicale, ricordano lo sciame delle api sospeso ad un ramo. Tutti sentono l’insostenibilità della situazione, la necessità di un mutamento, l’urgenza della riforma; ma nessuno, pensa che la riforma deve incominciare da sé stesso, che quest’onda che deve rimuovere e riportare, deve partire anche da lui, che se la società volerà a lidi migliori, sarà perché l’individuo, ognuno per suo conto, avrà aperto l’ali e preso il volo senza aspettare gli altri. Si pensa il processo della riforma come un movimento fuori del centro verso la periferia, ma non si risale alle origini del centro medesimo, che siamo noi stessi. Accade questo anche a molti cristiani nella vita pubblica, benché essi accentuino magari contemporaneamente la base morale del problema sociale, cioè appunto la sua interiorità. È naturale che i giovani credano più facilmente a tali soluzioni esteriori ed è sintomatico che il motto di Dante «libertà va cercando ch’è si cara» trovi anche nella pratica degli studenti nostri tutte le interpretazioni fuori di quella che gli diede l’autore della mirabile visione. L’Unione non ha da farsi questo rimprovero, è bene ricordarlo! Noi abbiamo detto fin da principio che lo scopo precipuo della società è formare l’individuo. Mente chiara, cuore ardente, ecco quello che cerchiamo. La vita universitaria è un macchinismo complicato che elabora l’individuo come fa del legno il tornio. Solo che non lascia posare mai l’occhio dell’anima sua, secondo l’ammonimento della Scrittura, costruisce con le sue mani il tempio delle proprie idee; ai più viene imposto come una cappa di piombo. Per i più la vita universitaria significa l’estinzione volontaria della ragione e della facoltà volitiva. Costoro formeranno poi «l’illustre, il dotto ed il censito volgo»; e il popolo aspetti la riforma da che non seppe formare sé stesso! Amici! Fino che dura la vostra vigilia e non è ancora sorto il giorno dell’opera, cercate la chiarezza, la precisione della vostre idee sulle questioni che la vita vi muove incontro, perché il cristiano, dice il nostro Rosmini , non deve giammai camminar nelle tenebre, ma sempre nella luce. Questa luce infine non è che la chiara comprensione del compito della nostra vita, di tutto il nostro programma integrale. Quando noi ricordiamo il nostro motto «cattolici, italiani, democratici» non facciamo che adattare la nostra lingua ad un difetto, ad una mancanza che hanno portato i tempi nella pienezza di significato della parola «cattolici». E noi aspiriamo a questa riforma, a ridarle colla pratica della vita tutto il significato integrale. Ma prima dobbiamo farlo nel campo delle idee, sì che il nostro tempio non abbia che una sola base e un sol disegno, in cui tutte le parti armonizzino coll’intero. E dopo questo, lasciamo pure che il cuore s’accenda ai propositi più generosi, che ci trascini l’entusiasmo dei grandi ideali, e nessuno potrà accusarci di sogni immaginari, di effervescenza del pensiero. Dio disse: «Son venuto a portare il fuoco in terra e voglio che si accenda!». Commilitoni, non credete ai nuovi sofismi della viltà, alla decadenza della razza, all’azione di forze impersonali. Dio arma ogni cristiano alla battaglia e ognuno deve guadagnarsi il suo posto. Intanto, mentre nel ricambio delle idee e nella risonanza delle anime prepariamo il nostro domani, guardiamo alla patria e preghiamo: O Dio! fa libera Questa misera, schiava terra, sì mortalmente fredda, Spira soave la tua primavera, cade il verno fugge impaurito (D. Gray) E la vita sia il paragone delle parole! |
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| 01901-1905
| L’ideale della grande Croazia ridotto a parole vuote per il popolo, a fanatismo senza freni per l’intellettualità ignorante ha potuto trascinare finora a compromessi e a sotto missioni tanta parte del clero che ha appoggiato coi denari della Chiesa un giornale come l’Obzor, il quale attacca gesuiti e preti d’altri paesi sempre impunemente quando v’aggiunga come epilogo l’assicurazione che il clero croato, grazie alla buona costellazione slava è ben lungi dall’assomigliare agli esotici fanatici. Il Hrvatsko combatte vigorosamente la battaglia buona in nome della sincerità, della purezza del programma cattolico e delle idealità del popolo. I cristiano-sociali austriaci seguono con attenzione le fasi della campagna. Abbiamo segnalato altra volta il sorgere di un partito autonomo cattolico in Croazia e abbiamo scritto che la fondazione del giornale quotidiano Hrvatsko con programma cattolico-sociale significava la rottura della coalizione croata-nazionale la quale, sotto una neutralità apparente, favoriva il liberalismo e la reazione alla democrazia. Notizie recenti da Essegg confermano ora la nostra previsione. La lotta è ingaggiata apertamente fra l’Obzor, organo della consorteria, e il nuovo valoroso giornale. Altri tempi ci ritornano alla mente seguendo la polemica dei due organi. Quietismo per norma d’azione e servilismo nella forma nascondono un’altra volta la mancanza di un programma vivo, e l’assenza di carattere e d’idee sincere. Solo quando il clero croato, seguendo l’esempio dei sloveni, ritroverà la coscienza del suo primo dovere nella vita pubblica, ritornerà la pace nazionale, o sarà ricacciato indietro almeno dagli altari e dai pulpiti l’odio di razza, il quale funestò spesso i templi consacrati alla pace. Appena allora sarà udita la voce del popolo che chiede pace e lavoro. I nostri voti non si compiranno fra breve non abbiamo visto noi nella Boemia, nella Moravia, e nella Slesia processioni armate contro processioni malgrado marciassero dietro il medesimo Cristo morto per tutti? E non abbiamo assistito noi che sedevamo in un congresso internazionale d’operai cristiani, dal quale erano stati lontani gli operai czechi malgrado la comunanza degli interessi e delle aspirazioni, perché trattenuti alla greppia nazionale dal clero boemo? I congressi socialisti rappresentano a Vienna benché imperfettamente la fratellanza dei popoli, i congressi cristiano-sociali l’impotenza di un ideale superiore di tutte le idealità socialiste, un’impotenza dovuta non alla virtù intrinseca del pensiero cattolico, ma ad uomini infedeli alla realtà e refrattari alla democrazia. fortis |
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| 01901-1905
| Trento, 12 Facciamo un po’ di cronaca del mondo. Nel 1889 s’aduna a Parigi il primo congresso per la pace. Quasi ogni anno che seguì ebbe a contarne uno. Quello di Berna fonda nel 1891 un ufficio internazionale permanente per la pace. Nel congresso di Chicago, contemporaneo all’esposizione, viene presentato un memoriale per la pace universale. Lo sottoscrivono anche tre prelati insigni Gibbons, Corrigan, Satolli e il governo degli Stati Uniti lo comunica ufficialmente a tutte le potenze. Li 29 luglio 1899, l’imperatore delle Russie convoca all’Aia il congresso per la pace. Si fonda il tribunale arbitramentale per la pace, al quale sono rappresentati tutti gli Stati Europei, gli Stati Uniti, il Giappone, la Persia. Conseguentemente si conchiudono arbitrati tra la Francia e l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, l’Italia e l’Inghilterra, l’Inghilterra e la Germania. Il re di Svezia ne annunzia uno con la Danimarca. A Monaco sorge l’«Institut de la Paix», a Lucerna il «Kriegs- und Friedensmuseum» di Ignazio Block. Il Nobel fonda un premio per il più grande promotore della pace. Rivive l’«Union interparlamentaire» , alla quale partecipano 2000 deputati che rappresentano 17 parlamenti. Nel suo ultimo congresso in Vienna (1903) il d.r Körber risponde al presidente: Il tribunale arbitramentale è divenuto ormai parte integrante della politica internazionale... Intanto la baronessa Berta von Suttner – die Friedensberta – lancia la sua fatidica parola: abbasso le armi! Il Tolstoi grida che la guerra è peccato; i congressi operai, le adunanze femminili vogliono la guerra bandita per sempre. È tutto un idillio, un disio di pace. L’ideale della pace perpetua sembra dominare il mondo desideroso di quiete, portar l’angelo «irene» di nazione, in nazione il ramoscello d’olivo. Il mondo rassomiglia ad un chiostro a mezzanotte, quando nella deserta chiesa della badia si destan lente le voci dei monaci protesi che pregano pace, pace, pace... Aspettate! Il sogno è fugace. Gli uomini non hanno vestito la cocolla, né il mondo è divenuto una tranquilla badia. È rimasto Titanica fucina ove i maghi giganti S’abbatton senza posa d’innumeri braccianti, Con epico fragor! L’inno boero risuona di popolo in popolo a risuscitare gli spiriti guerreschi. Come polvere a polvere si accumulano le invettive, contro questo «fantasma» contro questa «pace», per amor della quale un popolo eroico è lasciato alla mercè del più forte. La gioventù vorrebbe combattere, pugnare contro l’oro e il numero; vorrebbe la guerra per un ideale sublime, per l’indipendenza, la libertà. Passa anche la guerra boera e la guerra ha generato la pace. Victrix causa diis placuit, sed victa Catoni! E il mondo degli idealisti sta di nuovo per cullarsi nel grande dolce suono della bonaccia perpetua, della pace perenne, quando rimbomba improvviso il cannone. È la guerra, ancora la guerra. Una guerra di vita o di morte fra due popoli, due razze. Il mondo cambia faccia per incanto. Gli orrori della guerra sono il cibo morale di tutti i giorni. Si legge, si pensa, si sente che la guerra è inevitabile, che la guerra, non la pace è eterna. Chi pensa alla pace? La guerra s’impone a tutti. E sotto l’incubo delle nuove che porta il sotto-marino orientale, i patriotti francesi riparlano con una specie di voluttà della revânche, Guglielmo affida i compiti più gravi ai ponti sul Reno e Ricciotti Garibaldi prenota adesioni più calde e più serie. La guerra è divenuta dappertutto possibile, probabile, l’unica soluzione! Guerra è fatica, guerra è tormento Mortal vicenda che non ha fine, Inclito nome passa qual vento; Rüine e pugne, pugne e rüine! Chi ha seguito quanto hanno scritto i giornali e le riviste in proposito, dopo lo scoppio della guerra russo-giapponese , deve conchiudere che almeno nella polemica quotidiana chi infine ha ridotto in silenzio l’avversario furono i militaristi. Un eminente scrittore militare prussiano il barone Von Goltz riassumeva nella Deutsche Revue la sua teoria semplicemente così. «La pace è assenza della guerra come il freddo è assenza del caldo». (Una definizione, a dir vero, che non mi va, ma che vale tanto che quelle del Bluntschli , del Mohl , del Kathrein di tutti i giudici e moralisti, le quali dicono ancor meno.) La guerra è soluzione sistematica di contese. Ma la contesa è stato di natura per l’umanità: lo prova la storia, e il fatto che le contese e le lotte nascono in genere per la fame, per la questione dello stomaco, la quale è eterna. La pace non può essere che là ove non regna desiderio alcuno. Ma questo stato d’inerzia psichica non è, né sarà mai della natura umana. La pace è possibile solo entro un campo potenziale (Machtgebiet), cioè là ove una forza superiore a tutti i bisogni e desideri umani impone, rende obbligatoria la pace; ciò avviene p. e. nello stato moderno. Guai però se lo stato moderno perde questa forza: la conseguenza sarebbe la guerra interna. Guai se questa forza non s’impone all’estero: la conseguenza sarebbe la guerra esterna. Quanto più nei mezzi ci prepariamo alla guerra, tanto più vicini siamo alla pace. Quanto più uno è pacifico cioè inteso alla pace, tanto più promuove la guerra: l’imperatore della Korea che non ha saputo essere una potenza guerresca, ha provocato, come altra volta la China, una guerra per rettificazione di confini. La pace armata non è dunque un paradosso più che non lo sia tutta la natura umana; è una necessità. La sfida era troppo aperta perché gli irenici non l’accettassero. Povero Descamps, povero pastor Neumann, povera Suttner! Ecché? Voi dite che l’umanità progredisce, che ci muoviamo dalla barbarie verso la civiltà, dall’egoismo verso l’altruismo e che la guerra, frutto di quella, dovrà sparire col subentrare di questa? – Il vostro ragionamento è un circolo vizioso.– Ma i progressi dell’agitazione per la pace, gli arbitrati, il tribunale dell’Aia?– Tutto si riduce a poco, rispondono i militaristi. Che vale un tribunale senza un organo esecutivo? Perché volete ammettere voi nel diritto delle genti un giudice senza la sanzione della forza, se non lo ammettete nemmeno nel diritto civile? L’attività del tribunale ha finora dimostrato solo questo, che se uno dei contendenti vuole evitare la guerra trova in esso un comodo mezzo per cedere in via di fatto. Ecco tutto. Ma potete voi imaginare i principali rivolgimenti storici arrestati da un arbitrato? La guerra di Cartagine evitata in forza d’un tribunale internazionale? Tale in ultimo lo stato della questione e il risultato della polemica. Ha ragione infine lo scettico che si beffa degli sforzi inutili degli umani o il fatalista, impassibile a le sorti «magnifiche e progressive». Vediamo un po’ la storia degli ultimi tempi. Un progresso verso la pace c’è indiscutibilmente. Lasciando anche da parte i 1200 casi in cui secondo il Descamps gli Stati dal 1815 in qua riscorsero all’arbitrato, sta il fatto del raggruppamento degli Stati in alleanze le quali non sono nient’altro che ingrandimenti del «campo potenziale» ove la pace è imposta. Nessuno sogna più la monarchia universale, ma in Europa il cosiddetto «equilibrio», in America la dottrina di Monroe la sostituiscono in via di fatto – non diciamo ora a che prezzo! Di più i progressi della democrazia hanno reso impossibile la guerra personale e di famiglia. È ben vero che un popolo, specialmente se è nazione, non è meno orgoglioso e geloso dei suoi diritti reali o supposti di quello che lo sia un re. Ma d’altro canto la democrazia che s’allarga ed invade lo stato apporta questi due vantaggi: le camarille o le caste che si preparano alla guerra non per la pace, ma perché vi vedono un mezzo per sostenersi e di governare vengono sempre più ricacciate dall’ambito della vita pubblica. In secondo luogo gli Stati moderni tendono (non importa per la questione di principio, se il modo non ci va) al progressivo armamento di tutto il popolo, in maniera che in una guerra eventuale viene cointeressato non il principe coi suoi mercenari, ma un numero massimo di cittadini i quali essendo contemporaneamente partecipi del potere legislativo e sovrano, sapranno evitare guerre che non siano o vengano credute veramente inevitabili. Tanto che non sembra irraggiungibile l’ideale che la guerra si riduca a una lotta pro aris et focis. Battaglie saranno come quelle d’Ettore e d’Enea sotto le mura di Troia. Tutto questo ad una condizione però che concerne il carattere di questa democrazia. Siamo al solito bivio che separa tutte le questioni del giorno. Alla missione pacifica della democrazia non cediamo, fino che non è pacifica in sé, nei suoi mezzi, nelle sue mosse quotidiane. Il pensiero della rivoluzione è ormai il pensiero della guerra, e i socialisti che prevedono nel loro programma una guerra civile prima di dare la scalata al potere, sono tristi emissari della pace. Chi semina odio e ribellione fra classe e classe non raccoglierà la pace, frutto d’amore. Come non abbiamo una fede assoluta nel tribunale dell’Aia, molto meno crediamo in quello d’Amsterdam, a cui inneggia Enrico Ferri . L’orifiamma non è bandiera di pace. Ben altri presidi d’ordine morale devono accompagnare la democrazia! Non pensiamo ora alla proposta, presentata già al concilio Vaticano e rievocata sempre, d’un Vicario di Cristo, paciere supremo. Gli è che la democrazia dev’essere cristiana, i progressi suoi, progressi della carità di Cristo. Di quell’amore di cui ardeva Francesco là su la sacra Verna, quando, abbandonato l’arme, visse per la pace. Il monumento del Rossignoli eretto lassù ove sta con trepido volto il garzoncello dinanzi al Santo, e stringe le pudiche palombe al cor, è il labaro della pace perpetua che si compie nel gran regno avvenire, ma che viene preparato quaggiù. Isidoro del Lungo v’ha posto quest’ iscrizione: Al Santo della fraternità cristiana. E ha dato al suo discorso inaugurale una conclusione che voglio mettere in fine alle mie considerazioni. «E quando a questo magnanimo principio di fraternità, la civiltà, che da Cristo prende l’era ed il nome, avrà dato la sua maggiore espansione con la fraternità degli individui, delle nazioni, delle classi sociali amicate dalla feconda compensatrice legge del lavoro e dell’amore, i venuti dopo di noi in quel giorno sereno, che Dio sul capo nostro, traverso le tempeste matura, rileggendo qui, appiè di codesta Statua “al Santo” soggiungeranno, in quell’augurata pienezza di tempi, e al Profeta!». FORTIS |
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| 01901-1905
| I. Ricordi Ero scolaro della settima ginnasiale e vivevo ad occhi chiusi nel regno della «tollerenza», della transigenza, di quella moderazione «santa» che secondo certi consiglieri ci avrebbe fatto andare avanti lontani e sani, piano piano, comodi, comodi senza urtare né a destra né a sinistra. Guardavo a quei quattro sciamanati di studenti cattolici (uh! che nomaccio ostico) come a chi ti passa accanto sur una motocicletta, volando all’impazzata come un dannato. Veramente ero punto anche un po’ dall’invidia: sulla motocicletta ci sarei montato anch’io, se non fosse stata quella «santa» prudenza... E poi, cattolici! – si fossero detti almeno cristiani!, passi, coi turchi non ci tenevo a stare in pace! Del convegno di Cles mi erano arrivate poche notizie, o punto. Ma il Congresso di Pergine minacciava di far troppo rumore, perché io non andassi almeno a vedere. Ci andai, e fu agli 8 agosto 1899. Avevo il fermo proposito di far parte a me stesso e starmene ad osservare. Già, potevano aver ragione, ragionissima loro, ma la giusta via di mezzo, quella d’oro che mi vedevo davanti io, i cattolici non l’avevano infilata di sicuro. Sto a sentire: il presidente prof. Poli parla della missione storica del Trentino cattolico, giù giù dalla riforma in poi. Belle parole, e dentro di me gli davo ragione, ma le mani le tengo ferme in saccoccia. Perché, cos’ho da dire di me stesso, se mi lascio trascinare di botto? Calma soprattutto, figlio mio, mi sussurrava mamma «prudenza». Poi sale alla tribuna il Lanzerotti. Vederlo e classificarlo è tutt’uno: rubrica dei «radicali» incurabili. Parla di Volta , della fede e della scienza. Per bacco, commentava il mio io in platea, sono più moderni di quello che credessi questi cattolici, i quali incominciano con un inno alla pila elettrica. Ad un tratto passa come un uragano di battimani sopra l’uditorio. I rappresentanti delle associazioni universitarie italiane, con i loro berretti, invadono la scena. Tutto il mio sistema di classificare mi va in rotoli, perché classificarli come portava l’uso, come «fanatici» mi sembrava poco e mi manca la rubrica dei «superfanatici». Ma quelli lì sono indemoniati addirittura! Il ragionamento sapeva oramai di autoironia e d’autocritica. Quando Paolo Arcari , portò il saluto di Davide Albertario «che è l’affermazione delle grandi idee, che vive di una perpetua gioventù, immedesimandosi e marciando alla testa dei nuovi movimenti di idee e di azione», e tutta l’assemblea scattò in piedi fra un uragano di applausi, mi trovai senza saperlo con la sinistra nella destra, calde una più dell’altra per i grandi battimani che ci avevo fatti. Mannaggia la fretta! Non mi si lasciò il tempo di pentirmene. Dopo l’Arcari parlò il Necchi , il Molteni , il Paolazzi, l’Andreatti, Don Degasperi , il d.r Micheli e non so più quanti altri. Era fatta. Tutta quella gente là mi pareva avessero alterato tutti i connotati, come se fossero allora allora usciti dal salon d’un parrucchiere. Il bello è che mi pareva di averli mutati anch’io. Quando l’Arcari disse: «E noi qui siamo; sì quella primavera, non solo nella giocondità dei nostri vent’anni, ma nella grandezza della nostra fede che dà al vegliardo del Vaticano non la mestizia del dicembre, ma il profumo e la gagliardia del maggio, ma calda, animosa, fatidica gioventù di mente e di cuore», se allora dico qualcuno, fosse stato anche il primo amico, avesse espresso il minimo, minimissimo dubbio ch’io con quel noi e con quella primavera non ci avevo a che fare, gli avrei ricacciato in gola l’audace menzogna. L’indomani del Congresso, la Voce Cattolica che mi ero affrettato a comprare, scriveva: «Il convegno di Pergine, lo scriviamo con convinzione e non per fare della rettorica, apre un nuovo periodo nella storia della nostra patria, è l’alba di un’epoca nuova, è il preludio della conversione del laicato studioso alla professione integra e cosciente del principio cattolico». Intanto colla mia conversione non aveva da fare solo il cuore. Smaltito l’entusiasmo, ci avevo fatto sopra i miei bravi ragionamenti da figliuolo per bene. Lo stud. Armani aveva dichiarato ad Innsbruck «guerra all’etica delle classi dominanti, alla morale moderna del patriottismo, della famiglia». (Avvenire del Lavoratore). Il D.r Rissoli e il Pasini parlavano ai socialisti, che s’erano messi già a capofitto nella propaganda marxista, si discutevano teorie, si tenevano adunanze, tutto il Trentino era messo a rumore. I soci fondatori dell’«Unione di Vienna» erano stati accusati di derubare le vedove ed i pupilli, nientemeno; s’accentuavano le lotte dei principi... Quando uno studente socialista scrisse all’Avvenire del Lavoratore queste parole: «Io sento maggior stima per voi che per quegli altri, sedicenti liberali, che non appartengono a nessun partito, perché essi sono superiori ai partiti. Voi avete un ideale e lo difendete apertamente e lealmente; noi siamo costretti a stimarvi». Allora, dico, la mia mente s’era associata al cuore, allora la famosa strada d’oro, per la quale a dir vero avevo avuto più rassegnazione che simpatia, s’era fatta tutta di spine, ma tant’è si chiamava la via del dovere. D’allora in poi i ricordi sono troppo vicini a noi per rimetterli alla luce quotidiana. I nostri rappresentanti avevano rinnovato i serbatoi dell’entusiasmo (maledetta la tecnica!) al congresso catt. universitario di Como e a quello internazionale di Roma; nel congresso di Mezocorona l’amico Grandi parlava della missione sociale della gioventù (ahi! perché non risorgi?), un altro oratore, mio intimo, della cultura presente e di una necessaria riscossa cristiana; e a queste idee corrispondevano in pratica la partecipazione degli studenti alla propaganda democratica cristiana e la fondazione della Rivista tridentina. Cominciavamo a far breccia davvero! Nel congresso della Società degli Studenti Tridentini a Rovereto (1901) il quale segnò apertamente il passaggio della società nel campo anticlericale, il Marzani ebbe a dire: «l’associazione universitaria cattolica non ci dà ora verun pensiero; ma col tempo lasciandola crescere indisturbata potrebbe divenire un nemico pericoloso della nostra». La rude campagna anticlericale, fatta sulla stampa e sulle piazze venne a crescere quel «pericolo» di cui temeva il Marzani, perché si andava formando l’ambiente di lotta e le nebbie della confusione, mantenute a posta da chi ci trovava il tornaconto, andavano mano mano diradandosi. La situazione nel 1902 venne descritta dall’oratore del nostro V congresso, il quale incominciava il suo discorso-programma così: «Oggi nel campo studentesco le cose sono a questo: la maggior parte degli studenti, chiusi in una società, di cui l’esistenza solo basta a testimoniare il relativismo della fiacca “intelligenza trentina”; gli altri pochi raggruppati intorno ad una bandiera, issata di recente fra applausi scarsi, ma con intendimenti ben determinati. I primi quando cessarono di essere tutto e tutti, non trovarono nel loro programma un solo concetto direttivo che positivamente li distinguesse dai nuovi venuti, e per conservar l’armonia degli intenti, finirono per dichiarare di non essere qualchecosa e si chiamarono i non clericali, i secondi staccatisi in prima dagli altri per un problema privato di coscienza, maturando le idee ed i tempi vennero successivamente a schierarsi con coloro che si dicono “cattolici” in senso più stretto, perché non staccano la vita domestica dalla pubblica, ma vogliono che l’uomo intero segua i cenni della Chiesa nella quale crede». (Continua) |
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| 01901-1905
| II. L’ora che corre Il recrudimento della lotta universitaria , emergente più da vicende improvvise che per effetto voluto da uomini, parve ad un tratto sospendesse tutte le ostilità nostre, e le due Società , volta la fronte contro il nemico comune, camminarono per un momento parallele. L’amore della patria che ci infiammava i petti, ci fece dimenticare le ingiurie aperte e il sarcasmo quotidiano. Giova ricordare oggi la generosità di quei pochi che osteggiati aspramente dai più, pur combatterono le prime campagne universitarie, non curando chi in fine raccogliesse gli allori; intenti solo a provare in via di fatto al nemico la concordia e l’unanimità del paese. Fu merito dell’Associazione cattolica, se gran parte del clero e dei cittadini militanti, nel comizio di Natale alzarono la loro voce in favore dell’Università italiana. Fu merito nostro, se molti comuni, se avversari più sereni e i fattori competenti fuori dal Trentino, finirono per giudicare della questione universitaria, non come d’una mossa dei partiti radicali, ma come d’un postulato di tutto il paese. Certo non lo volle credere chi diresse in via di fatto la lotta universitaria: lo spirito di setta e le preoccupazioni di partito ebbero la prevalenza; e i rappresentanti delle Società cattoliche dovettero abbandonare i comitati universitari, come riserve sfruttate. Gli studenti anticlericali si costituirono in assemblea esecutiva d’un paese nella sua maggioranza cattolico, cattolico non solo nelle chiese, ma cattolico – e mi appello ad un futuro prossimo, che se i democratico cristiani. vorranno, farà cadere le presenti illusioni – anche nelle manifestazioni della vita pubblica. I propositi nostri furono allora questi: fare per nostra parte tutto il dovere davanti alla nostra coscienza d’italiani, senza curarci di altri tribunali, donde l’odio di partito ci lancia quotidianamente scomuniche, o d’altri aeropaghi, ove con una presuntuosità senza pari si decide contro di noi la congiura del silenzio. A questa linea di condotta rimanemmo fedeli, e la nostra voce, consentanea all’opera nostra, accompagnò ogni fase della lotta universitaria, certo senza la responsabilità di ogni singola mossa, derisa da uno stato maggiore, da cui si vollero esclusi per forza i nostri. Stiamo ora preparando il VII congresso, il quale, se tutti i colleghi comprendono l’importanza dell’ora che corre, riuscirà degno dei passati, e nuova affermazione dei principî e degli ideali che ci animano. Poiché la differenza tra la nostra Società e quella anticlericale è questa, che noi ci rifacciamo sempre e con crescente tenacia ai principî. Le società studentesche devono essere società di educazione e di formazione di caratteri, o non hanno ragione di esistere. Come tali francamente devono affermare le loro idee che positivamente le distinguano dalle altre in tutte le questioni che interessano l’individuo che va formandosi alle battaglie della vita. Trascurare di prendere posizione nei dibattiti pubblici o della coscienza di fronte alle questioni religiose e sociali che travagliano la vita universitaria d’oggi, è già un grave peccato d’omissione, una diminutio capitis. Ma mascherare lo spirito che realmente informa i membri di una società – salvo piccole eccezioni – sotto l’ipocrisia di uno statuto secolare, o far passare di contrabbando tutta una concezione della vita privata e pubblica attraverso la propaganda di una questione quotidiana o le agitazioni di una lotta attuale, è indegno di chi si atteggia a Boiardo del pensiero e a nemico dichiarato delle visiere calate! Amici! L’associazione universitaria v’invita ancora una volta ad un congresso per riaffermare quella chiarezza d’idee e di propositi che fu sempre nostro vanto. Altre questioni per consolidare quella lega che abbiamo stretto fraternamente, altri problemi, corollari ai nostri principî, reclamano la vostra presenza. Fa d’uopo, per accennarne uno, interessare maggiormente accademici e cattolici colti per la Rivista tridentina, la quale instancabilmente e tenacemente vogliamo si vada formando, man mano che le nostre forze aumentano, l’organo della cultura superiore dei cattolici trentini. Venite tutti, nessuno si volga indietro! Vani futuri temporis augures Fecunda rerum saecula discimus, Si non retractamus fideli Tela manu, tacitoque gaudet Vagina ferro: si clypei vacant Hastaeque, et arcus; non animi placent Parci laborum, non magistrae Consilii sine Marte, linguae! L’appoggio del clero e del laicato cattolico, i rapporti stretti che ci legano colle organizzazioni della democrazia cristiana, avranno, ad Avio, ne siamo certi, una nuova riconferma. Non c’è forse nessuna società che sia di per sé stessa e per i suoi scopi più degna d’incoraggiamento e d’appoggio. E che noi, fra mille ostacoli e difficoltà interiori ed esteriori, le quali sfuggono ai più, abbiamo cercato di raggiungere quell’ideale delineato nel motto fatidico «Fede, Patria, Scienza», nessuno lo vorrà negare. Cattolici, chiediamo l’appoggio consapevole di quanti combattono per la causa di Cristo e della Chiesa; italiani, di quanti amano questa terra italiana veracemente; democratici, aspettiamo l’adesione di quanti combattono per l’elevazione morale e materiale del popolo, di quel popolo che, se Cristo ne sorregge, vorremmo far grande e forte innanzi a Dio ed agli uomini. E poi Andiam, che la via lunga ne sospinge. FORTIS |
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| 01901-1905
| Alcuni episodi varranno certo a meglio mettere in luce la criticissima situazione in cui ci trovavamo in quella notte indimenticabile; episodi che io narrerò naturalmente senza far nomi, per ragioni che ognuno facilmente comprende. Allorché le guardie incominciarono a sciabolare gli studenti (italiani, è sottinteso, perché quelli tedeschi si trovavano tutti raccolti nelle loro sedi ad aspettare l’esito della lotta) si dovette pensare a ritirarsi nei due vicini alberghi. I più entrarono alla «Rosa» e tra questi gli ultimi delle file, sempre inseguiti e percossi dalle guardie. Io con uno spintone fui gettato a terra nel portico; là accanto a me scorsi un altro studente che perdeva sangue dal capo. Rialzatomi in fretta, per non venir calpestato, venni ad urtare colla mano nella schiena d’un altro; me la sentii invadere come da un tepore; era insanguinata; il poveretto era stato ferito al collo da una sciabolata. Un gruppo di tedeschi, visto che gli odiati italiani sfuggivano loro dalle mani, corse verso il portone e vi spararono dentro alcune revolverate. Una palla penetrò nella schiena ad uno studente, due altre si conficcarono nel legno, a cui s’appoggiava un amico che sosteneva il ferito. L’aver il colpito trascinato un poco nella caduta il vicino fu la salvezza di quest’ultimo. Né i primi che poterono entrare o salire in quella locanda se la cavarono con poco. L’oste, un pezzo d’uomo che può far concorrenza alla gigantesca statua sul monte Isel, voleva ad ogni costo respingere gli studenti, a cui si dava addosso da ogni parte; anzi ebbe l’ardire di puntare sul petto d’uno studente roveretano un revolver. Fatto incredibile, degno solo di gente villana o briaca, che non conosce diritto e dovere d’ospitalità. La notte passata in quel pericoloso rifugio fu una notte d’inferno. Gli studenti sparsi pei corridoi, sulle scale, dappertutto insomma tranne che nelle stanze (sarebbe stata troppa bontà l’aprircele!) udivano le urla che erompevano dai petti di una moltitudine che, pari ad una mandra di belve avide di vendetta, era intenta a rompere, a fracassare. E, non contenti, tentavano già la scalata al di dietro dell’albergo e fu fortuna se si arrivò a chiudere le porte in fondo ai corridoi. Ci volevano prendere ad ogni costo. Di tratto in tratto dei tedeschi dal pianterreno dell’albergo salivano ad intimare di «uscir loro di casa» altrimenti ci avrebbero cacciati colla forza; e l’arroganza loro era tale che bisognava domandarsi se avesse un cuore in petto quella masnada che non provava compassione neppure pei feriti, cha a mala pena potevano reggersi in piedi. Insomma tanto dai primi sintomi si temeva una sì terribile fine, che più d’uno, conoscendo l’ospitalità dell’albergatore della «Croce Bianca», ebbe il coraggio di salire sui tetti per rifugiarsi così in quell’osteria; senza curarsi del pericolo che correvano di scivolare su quei tetti acuminati e rotolare in strada sui crani dei teppisti, o di esser fatti segno di qualche fucilata dalle case vicine. L’odio, l’ira verso di noi non ebbero ritegno, quando i nostri carnefici seppero che a tutti erano state levate le armi. Vigliaccamente ripresero con maggior forza le offese, gli urli, le bastonate. Sputavano in faccia, percuotevano, minacciavano di gettarci fuori dalla porta, proprio sotto gli occhi delle guardie che non solo tolleravano, ma si mostravano conniventi e soddisfatte delle bravure di quei loro connazionali. E persino qualche donna stava là, spettatrice impassibile di tante crudeltà e di tante insolenze! Ancora un fatto e poi chiudo, perché credo inutile aggiungere infamia a gentaglia che è scesa sì in basso, da fare arrossire ogni buon tedesco e da essere rinnegata da ogni benpensante, per quanto un Erler o un Greil ne prendano l’alte difese. Mentre sul corridoio dell’ultimo piano una quarantina di studenti passeggiava su e giù in preda alla disperazione, udendo partire dal basso dell’albergo grida frenetiche di herein, herein! un tedesco, approfittandone, salì pian piano con una sedia ed allo svolto del muro la lanciò contro uno studente, che ebbe una larga ferita alla testa, e poi giù in fretta. Bell’eroismo davvero! Ed ora lascio la penna, altrimenti non terminerei più; credo però che quanto ho detto basti per darne un’idea; certo il mezzo mese di carcere fu un soggiorno di rose in confronto alle poche ore di tormenti di quella notte funesta. a. |
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| 01901-1905
| Vienna, 26 Oggi a mezzogiorno, il presidente e il segretario del comitato degli studenti tedeschi si recarono dal rettore dell’Università per presentargli una dichiarazione compilata e approvata a voti unanimi nell’adunanza tenuta ieri dal comitato. In questa dichiarazione il comitato dice che si vede costretto a deporre il mandato perché il rettore mostrò di non prestar fede all’assicurazione data dal comitato stesso che esso non agisce sotto l’influenza di un determinato partito politico; inoltre, perché nel ritardo a rispondere alle ultime petizioni degli studenti tedeschi, essi vedono una prova che il rettore non tiene in alcun conto i desideri della studentesca, e perché il rettore dietro le spalle del comitato cercò di influire sugli animi degli studenti per mezzo di vari professori. Il rettore tentò di indurre i due delegati a persuadere il comitato a retrocedere dal suo proposito e rimanere in carica; ma essi persistettero. Lo stesso comitato diramò ai giornali di Vienna un comunicato in cui dice di essere finalmente riuscito a compilare una lista sicura di quegli studenti italiani che da Vienna si recarono ad Innsbruck. Dà quindi pubblicamente la lista di questi studenti, affinché i cittadini di Vienna seguano gli esempi di quelli di Innsbruck, rifiutando loro alimenti, alloggio ed eventuali benefizi. Così, dunque, è andato in malora anche questo famoso comitato che pretendeva di estorcere dal Senato accademico dell’Università di Vienna straordinarie misure di rigore contro gli studenti italiani recatisi ad Innsbruck. Fallito nell’impresa, tentò un colpo brigantesco, comunicando ai giornali i nomi di questi studenti per farli boicottare. Qualche giornale pubblicò la lista; la maggior parte però si rifiutarono e biasimarono questo vergognoso tiro. Il Vaterland, fra gli altri, dopo aver osservato che in una città così popolata ed estesa come Vienna, l’idea di un boicottaggio è di impossibile attuazione, chiede a ragione donde ebbe il comitato tedesco la lista. E non sarebbe ora che le competenti autorità chiamassero all’ordine questi giovanotti invasi da teutonico furore, loro inoculato da mestieranti politici? Anche la Reichspost s’occupa di questo fatto e deplora vivamente che degli studenti tedeschi si siano abbassati a tal punto. La popolazione di Vienna, dice il giornale cristiano sociale, non sa che farne di questi appelli che non corrispondono per nulla ai suoi sentimenti e alla tradizionale ospitalità viennese. |
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| 01901-1905
| Chi osserva da lontano la vita pubblica del Trentino e prende in considerazione solo il superficiale movimento politico-nazionale della borghesia e non le correnti sotterranee nel popolo, non sarà in grado di farsi un giusto giudizio del paese. Facilmente egli non vedrà che accanto e talvolta nonostante la chiassosa politica quotidiana, a poco a poco in questi ultimi dieci anni è cresciuto un imponente movimento cristiano-sociale che trova la sua concreta espressione in una grandiosa organizzazione popolare che comprende l’intera regione. In altri paesi della corona l’idea cristiano-sociale ha innanzi tutto fecondato un partito politico che si proponeva di promuovere attraverso la legislazione la riforma sociale: questo procedimento da noi non fu possibile, dato che l’intera vita politica era stata avvelenata dalla lotta nazionale e gli organi legislativi erano stati bloccati. Così si pensò innanzi tutto di agire socialmente in modo concreto attraverso la collaborazione all’iniziativa personale cooperativistica dei singoli ceti. E in questo campo anche i cristiano-sociali del Trentino hanno fatto molto. In dieci anni (1891-1901) le associazioni di consumo sono salite a 155, le Raiffeisenkassen a 122, e questo con una popolazione complessiva di sole circa 440.000 anime.*) Inoltre sorsero cantine consorziate (cinque), 300 caseifici consorziati e cooperative per gli impianti d’illuminazione e quelli elettrici, dei quali il più importante è sicuramente quello di Romeno (dirigente il noto uomo di partito dr. Lanzerotti ), che ha reso possibile anche la funivia della Mendola. Si sentì subito la necessità di unire le diverse cooperative, così nel 1895 sorse l’Unione cooperativa generale che ebbe come compito la rappresentanza legale e il controllo delle associazioni, l’edizione di una rivista specializzata e la tenuta di corsi d’insegnamento. Nel 1900 seguì l’apertura di un centro per l’acquisto all’ingrosso a Trento, dopo che era già stata fondata una banca centrale. La cooperativa di acquisto all’ingrosso contava già nel 1901 160 cooperative operaie di consumo, credito e agricole che avevano come soci 15.000 famiglie o circa 80.000 consumatori. La somma complessiva del denaro risparmiato annualmente al popolo attraverso le cooperative fu calcolata alla fine del 1901 di circa 1 ¾ milioni di corone. Questo torna utile tanto alla situazione fortemente afflitta dei contadini, come pure agli operai e agli artigiani, che di solito gestiscono un’azienda agricola come seconda occupazione . I cristiano-sociali hanno però pensato anche all’industria e il Sindacato agricolo-industriale ha anche il compito di procedere alla fondazione di fabbriche e di impresi industriali. Particolarmente degna di menzione è la fabbrica di tessuti consorziata di Molina presso Riva, i cui prodotti vennero riconosciuti all’esposizione mondiale di Parigi del 1900. E ne avremmo ancora per molto se considerassimo come nostro compito solamente nominare qui tutte le imprese di tale sorte. Ma una cosa dobbiamo ancora mettere in rilievo: l’organizzazione economica ha avuto fortemente effetto sul nostro popolo anche in senso morale. L’indipendenza economica, il riconoscimento dei vantaggi dell’essere uniti ha ridato al nostro popolo la consapevolezza di sé e la fiducia di sé stessi, la gioia di creare e la voglia di impresa, che l’era liberale gli aveva tolto. Solo dopo aver raggiunto l’indipendenza economica era stata data al nostro popolo la possibilità di comprendere e di praticare la democrazia in senso cristiano. L’organizzazione economica è la madre della nostra organizzazione dei contadini e degli operai, che ora ha in ogni villaggio e mercato, in ogni città la sua associazione. E una sua propria associazione regionale con sede a Trento si occupa della propaganda democratico-cristiana che spesso giunge molto lontano sino ai lavoratori italiani emigrati nel Vorarlberg. Oltre a ciò vennero fondati un segretariato popolare e una cassa assicurativa generale. Negli ultimi anni hanno iniziato a svilupparsi anche i sindacati, dopo che nella Val di Non era sta fondata una Corporazione d’arti e mestieri in grande stile. Se aggiungo ancora solo che l’organo dei lavoratori «Fede e lavoro» ha raggiunto già pochi anni dopo la fondazione, e ora ha già ampiamente superato, il numero di 6000 abbonamenti, che il quotidiano «La Voce cattolica» con il giornale delle famiglie «Amico delle famiglie» è diventato il foglio più apprezzato della nostra regione , che in questi dieci anni è sorta un’organizzazione degli insegnati, dei funzionari e degli accademici, quest’ultima particolarmente attiva nella propaganda, penso di aver sufficientemente dimostrato che questi dieci anni furono anche per i cristiano-sociali italiani dieci anni di incessante lavoro. Avanti nel lavoro andò il clero spronato dagli ammonimenti del grande Leone e l’esempio pratico dei cristiano-sociali degli altri paesi e nazioni. In particolare fu il giovane clero che sotto la direzione del comitato diocesano comprese pienamente i suoi doveri sociali. Ma non si creda con ciò che i cristiano-sociali trentini siano forse fautori sul terreno sociale di un crasso empirismo. Niente affatto! Essi sanno molto bene che solo una radicale riforma sociale può giovare. Non ignorano nemmeno i vantaggi del potere politico. Ora per l’appunto è sta per formarsi una «unione politica democratico-cristiana, una sorta di Volksverein politico su basi democratiche. È una facile profezia sostenere che sarà la prima volta che i cristiano-sociali interverranno in campo politico con l’intera forza della loro organizzazione e che l’era liberale, così infausta per la nostra patria, avrà esaurito il suo ruolo anche sul piano politico – anche malgrado il tardivo aiuto dallo schieramento socialdemocratico, da noi molto frammentato. * Traiamo questi dati dall’eccellente opuscolo di Pius Meyer, Die Genossenschaftsbewegung in Südtirol. |
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| 01901-1905
| «... A voi elettori, il dire a costoro col vostro voto che alla direzione delle cose del Comune di Trento non vogliamo gli austriacanti e che il prete ha da esercitare altrove la propria mansione!» Questa la finale di un proclama della Lega liberale democratica agli elettori del III Corpo in occasione delle ultime elezioni . Questa – uno più uno meno – è la solita arma usata dagli avversari a nostro riguardo. Ma, signori, sentite un po’, lasciate che un povero diavolo, che un povero operaio, ignorante se volete, ma che ha un grande amore a questa terra natale, che ha grande fiducia nell’elevamento industriale di questo Trentino, vi apra il suo cuore, vi dica le sue impressioni su quanto sta svolgendosi intorno a noi... impressioni che sono il portato del vivere in mezzo ai meno abbienti, in mezzo a quelli che giornalmente devono lottare per il pane, che devono alla primavera far fagotti per varcare i confini dall’est all’ovest, dal nord a sud, onde vivere meno stentatamente. Voi, signori, avete mai potuto avere da questi esseri delle confidenze? V’hanno questi mai aperto il loro cuore? No... no... essi non possono giungere fino a voi; una barricata insormontabile li separa!... Signori! voi non avrete quindi potuto constatare come in questi esseri – che oggi son qui, domani là – lo spirito di patriottismo vada illanguidendosi all’estremo; immaginatevi un lumicino privo di olio che mandi gli ultimi sprazzi di luce... Signori!... non vedeste mai squadre di questi esuli dalla patria girare per le contrade della... vostra Trento col cappello verde e rispettivo scoiattolo? Voi, in quel momento avrete pensato ai luglierini. Ma no! Sono dei nostri! Signori! Sapreste voi spiegarmi questo fenomeno? Parlate loro di patria, di nazionalità e di altre cose! Essi vi parlano come un figlio privato della madre naturale vi parla della... matrigna. Essi hanno lasciati i loro affetti in altre regioni; i loro ideali in mezzo ad altri popoli! Rispondono che stanno con chi li mantiene, che non possono amare, che non possono aver entusiasmo per chi li priva del lavoro. Ora veniamo al sodo. Chi fino adesso cercò di metter argine a questa cosa? Chi lavorò per promuovere le industrie? Il commercio? Chi lavorò con fatti e con vane parole? Chi riuscì in parte ad arrestare la piaga dell’emigrazione? Voi no! I clericali, i preti, miei signori furono coloro che lavorarono per la patria, per salvare nel cuore del popolo il sentimento della nazionalità; questa nobile fiamma che minaccia di spegnersi per vostra incuria! «Il prete ha da esercitare altrove la propria mansione?». Ma ha forse da lasciar dilagare questo pericolo? Ha forse da tralasciare di far del bene ai suoi patriotti? Da sogguardare pacificamente alla rovina del paese natio, dell’amato nido? Austriacanti? Antinazionalisti? Ma voi siete dessi! Voi siete i peggiori nemici del Trentino! Voi gaudenti che assisteste fin qui impassibili, sventolando il bandierone della nazionalità, alla vista dei pericoli che sovrastavano al paese. Signori!... La «patria» non è una vuota parola, ma è il paese col suo popolo. Fino a che non avrete lavorato praticamente per questo popolo, chiudete quella vostra bocca sacrilega, non profanate con la vostra perfida bocca questo sacro suono! fs. |
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| 01901-1905
| Alla fine di ogni anno non sta certo male fare un po’ di bilancio, di rivista, per esaminare quanto si è fatto di bene, di utile durante il lungo tempo di 12 mesi. Ogni uomo ordinato non tralascia mai di fare tale rivista: dunque facciamola anche noi e vediamo se nel 1904 abbiamo fatto qualche progresso. Esaminando il Fede e Lavoro si è in dubbio sul sì. Gli abbonati crescono di giorno in giorno; anche i collaboratori s’interessano di questo giornaletto, del portavoce dei nostri buoni contadini ed operai. Ma questa constatazione non basta per trarre la conclusione che durante l’anno si siano fatti progressi. Una volta si leggevano sul Fede e Lavoro numerose relazioni sull’azione delle Società agricole operaie cattoliche, conferenze utili sull’agricoltura, igiene, lezioni ai nostri contadini per condurre a termine certi affari senza dover correre per ogni cagnara dai notai, avvocati e simil gente, dai quali generalmente non si libera senza aver messo mano al borsellino smunto ormai da altre imperiose necessità. Era poi stata aperta una rubrica assai interessante: «La vita dei nostri comuni», dove settimanalmente molti amici mettevano in luce certi cattivi sistemi di amministrazione, criticandoli ragionevolemente e suggerendone anche i rimedi; dove altri sortivano con delle belle idee, utili, urgenti per il progresso del tempo; e tante altre belle cose intorno ai nostri comuni in modo che riusciva una specie di palestra, di scuola pei nostri amministratori, dove potevano imparare qualche cosa di buono e correggere qualche cosa di cattivo. Ora da qualche tempo nulla di tutto questo. Qualche rara relazione di qualche conferenza tenuta in certe società operaie cattoliche; soppressa la rubrica «Vita dei nostri comuni». È questo progresso? È questo segno che le numerose società operaie cattoliche sparse per le nostre vallate, lavorano, prosperano? Affé mia ch’io non lo credo e mi domando appunto: macchina ferma? Si eresse qua e là qualche nuova società e poi basta, nulla di straordinario si è fatto nel corso dell’anno. Che fanno le numerose società operaie cattoliche delle vallate? Dormono ora che è la stagione propizia per iniziare qualche bella idea, di istruire i nostri alpigiani, che tanto ne hanno bisogno e che tanto è necessaria in questi tempi in cui ogni untorello, magari imberbe, vuole farla da dottore e minaccia di diventare nuovo Marcello, spacciando per verità errori grossolani e dicendo spropositi da can barbone? Coraggio, si diano le mani d’attorno le direzioni delle singole società e promuovano conferenze e altre cose utili; interessino i soci con qualche divertimento, procurino che nei locali sociali non manchino i giornali, onde i soci possano passarvi alla sera una mezz’oretta istruendosi; di tutto si dia relazione al giornale, onde l’esempio inciti anche altri a far altrettanto. Un po’ di buona volontà e tutto è rimesso a posto. O che? Furono forse le società agricole operaie cattoliche istitutite per fare qualche sfilata in occasioni solenni, per sfoggiare tanto di nastro all’occhiello, per far sventolare all’aria qualche smagliante bandiera e poi basta? No, signori miei, no! Esse furono istituite perché tengano unito il popolo nostro, lo istruiscano sui principali problemi del giorno, lo mettano in guardia contro gli errori di certi apostoli, perché dall’unione scaturisca qualche buona idea per il bene di tutti, sia in ordine cooperativo che in altro campo, secondo le condizioni dei singoli paesi. Dunque mano all’opera, che il Fede e Lavoro attende di registrare l’attività vostra; fate che quest’anno sia più ricco di operosità che non il testé decorso. All’opera! fs. |
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| 01901-1905
| Vi ho già scritto parecchie volte degli insulti lanciati dalla stampa radicale contro l’Eucarestia, dellinerzia delle autorità contro questo delitto previsto dal codice penale, dello sdegno scoppiato perciò fra i cattolici, della vibrata protesta del cardinale Gruscha e dell’energica azione avviata dalle società cattoliche viennesi per impedire che la religione cattolica sia più insultata da fogli che cercano di liberarsi da ogni responsabilità, facendo firmare come redattore un qualsiasi deputato che, in barba alla eguaglianza moderna, sfrutta vertiginosamente il privilegio dell’irresponsabilità delle sue azioni. Vi scrissi ancora come il comitato eletto dalle società cattoliche per por fine a questo anarchico stato di cose, fu ricevuto in particolare udienza, lodato e incoraggiato dal cardinale Gruscha che, nella sua vecchiaia, dimostra tanta vigilanza ed energia. L’azione da lui coraggiosamente avviata trovò sommo plauso ed appoggio in tutta la Monarchia. Vescovi, distinti sacerdoti e un numero stragrande di società cattoliche, gli mandarono lettere e telegrammi di adesione e di ringraziamento. Il Santo Padre , informato della cosa, mandò anche lui, al cardinale Gruscha, per mezzo dell’E.mo Segretario di Stato, una lettera in cui ne lodava altamente lo zelo e invocava le benedizioni del cielo sull’opera sua. Intanto continuavano in Vienna le funzioni di riparazione e le comunioni generali sempre frequentate da immensa folla di fedeli di ogni ceto e condizione. Ogni sera poi, adunanze popolari nei vari distretti con discorsi infiammanti e vigorose proteste. Un comitato di avvocati cattolici fu incaricato di estendere un memoriale da presentarsi al Presidente dei ministri e al ministero della giustizia. In esso si rileva in modo speciale come il Governo non abbia fatto nessun uso dei mezzi, che pur sarebbero a sua disposizione, per impedire che vengano diffuse per mezzo della stampa le più atroci ingiurie contro la religione cattolica. E siccome il Governo, per scusare il suo contegno, si appiglia al fatto che L’Alldeutsches Tagblatt è firmato da un redattore deputato, il quale gode l’impunità parlamentare, e fa valere inoltre la circostanza che quand’anche sequestrasse gli articoli accennati, questi, alla prossima apertura del Parlamento, verrebbero inseriti in qualche interpellanza e così resi insequestrabili, il memoriale insiste che vengano tolti questi due abusi, che cioè un deputato irresponsabile possa fungere da redattore responsabile, e che la libertà di parola alla Camera dia la facoltà di insultare impunemente tutto e tutti con sudice e immorali interpellanze, che poi vengono riprodotte dai fogli o messe separatamente in commercio e distribuite in grande numero di copie fra il popolo. La Neue Freie Presse e il solito suo codazzo di giornali minori, fra i quali ricordo l’ebraico Piccolo di Trieste, si sono avventati contro questo memoriale, gridando a squarciagola che i clericali vogliono imbavagliare la stampa. Per tutta risposta basti dire che l’organo principale dei socialisti austriaci, la Arbeiterzeitung di Vienna, pur sollevando altre eccezioni contro il memoriale, si dichiara d’accordo collo stesso nel chiedere che venga tolto questo «vile sopruso», com’essa lo chiama, che un deputato, abusando dell’immunità, sottoscriva un foglio come redattore responsabile e gli dia quindi modo di aggredire società e singole persone anche nei modi più offensivi e calunniosi, senza essere perciò tenuto a rispondere di sì tristi azioni e senza che gli altri possano ricorrere ai mezzi più convenienti di difesa, quali sarebbero la domanda di sequestro del giornale e la presentazione di una querela. Dunque sbraitino pure gli ebrei di Trieste e di Vienna; vi sono anche dei «non cattolici» che non approvano la licenza di stampa inaugurata sotto gli auspici e la protezione del dr. Körber , il quale, fra il resto, per rendere illusoria la legge del sequestro, avea dato ordine che a Vienna la procura di Stato, prima di confiscare un foglio, dovesse avere di caso in caso l’autorizzazione del ministero della giustizia da lui presieduto. Se egli non se ne fosse andato, gli sarebbe toccato di accogliere la deputazione che protestava contro i metodi licenziosi che sotto il suo governo penetrarono nel Parlamento e nella stampa, imprimendo una grave macchia alla sua attività. Invece la deputazione, condotta da Sua Eccellenza il barone Walterskirchen, si presentò al barone Gautsch e gli fece intendere con tutta chiarezza che la pazienza dei cattolici austriaci è giunta al termine, e che essi non intendono affatto di tollerare più oltre che la religione cattolica sia l’offa gettata in pasto alla schiuma dei deputati e dei libellisti, perché si sbranino le avide canne. Il movimento di protesta dei cattolici ha prodotto degli effetti, e fra questi – con rammarico della stampa liberale – va notata la visita che fece testé al cardinale Gruscha il nuovo ministro della giustizia dr. Klein. Che cosa si siano detto, non si sa; si sa però che il colloquio si aggirò intorno alle giuste lagnanze dei cattolici, per il modo con cui la loro religione è trattata. Iersera poi si ebbe la solenne adunanza preparata da tutte le adunanze precedenti e che riuscì una manifestazione straordinaria anche per Vienna, che pure è usata a dimostrazioni grandiose e imponenti. Il locale era l’immensa sala del Municipio di Vienna, la quale però fu incapace di contenere tutti gli accorsi. Non avevano accesso che gli uomini, ma centinaia e centinaia dovettero sostare nelle adiacenze della sala, nella quale non sarebbe caduto a terra un grano di miglio. Da tutte le parti della Monarchia erano giunte adesioni; il solo numero dei telegrammi pervenuti era di ottocento! Erano presenti il dr. Lueger, i principi Roberto e Ernesto Windischgrätz, il dr. Baechle, il barone Bischofshausen, il conte Trauttmannsdorf, il principe Schwarzenberg, il principe Liechtenstein, il barone Walterskirchen..., ma è impossibile proseguire nell’enumerazione. Era un mare di teste e più che a rilevare chi ci fosse, bisognava badare sul serio a non rimaner schiacciati. Parlarono prima brevemente il barone Wittinghoff Schell e il barone Walterskirschen che esposero lo scopo della solenne adunanza; quindi fu data la parola al barone Morsey, deputato del centro, al dr. Porzer, deputato cristiano sociale e all’operaio Kunschak, il valente organizzatore degli operai cristiano-sociali di Vienna. Essi rilevarono l’intollerabile condizione che, complice il Governo, fu fatta negli ultimi anni alla religione cattolica nella Monarchia dove regnano i discendenti di quel Rodolfo d’Asburgo che tanta riverenza dimostrò al SS.mo Sacramento. L’entusiasmo, gli applausi, le approvazioni scoppiavano di frequente, protraendosi per qualche minuto; e raggiunsero il colmo, quando l’artista di corte Schreiner con forza straordinaria recitò la nota canzone dell’Eichert, adattata alla circostanza: «Svegliati, mio popolo, e scuoti colla tua voce di tuono la terra; giura alto che Iddio nei cieli lo senta: la mia pazienza è finita! Mano alla difesa!». Infine salì alla tribuna il dr. Lueger. L’apparire del campione cristiano che liberò Vienna dal giogo semita, fa scoppiare un uragano di applausi, di acclamazioni, di grida di gioia. È un entusiasmo, è un giubilo, è una frenesia che chi non la vide, non la udì, in quell’immenso salone, zeppo di uomini, riuniti a difendere la loro fede, non lo può neppure da lungi immaginare. Il dr. Lueger dice che, se si vuole che le leggi siano osservate e portino i loro frutti, è necessario che i cattolici si impadroniscano del potere pubblico. Troppo hanno dormito, e quindi perduto i cattolici austriaci. È ora di svegliarsi. Essi devono conquistare i comuni, le Diete, il Parlamento. E non basta. Essi devono pretendere che giudici e ministri li rispettino, altrimenti costringerli ad andarsene e allevarsi uomini che possono coprire con onore quei posti. Insomma è necessario agire e agitarsi; il mondo è di chi lavora. Interminabili applausi coprono le parole del Borgomastro di Vienna; quindi l’adunanza vota una risoluzione in cui dichiara di associarsi pienamente al memoriale presentato al Presidente dei ministri e chiede che siano presi gli opportuni provvedimenti, perché non si rinnovino al Parlamento o nella stampa le ingiurie contro la religione o contro la Casa Imperiale. Quindi l’adunanza è chiusa; ma pure quell’immensa massa non sa decidersi ad abbandonare il luogo dove si è riempita di tanto entusiasmo e ha dato di sé uno spettacolo incancellabile. Solo un po’ alla volta e lentamente gli adunati sfollano, e fermandosi qua e là in crocchi non finiscono di ripetersi quanto hanno veduto ed udito e di animarsi a vicenda e confermare i propositi di sempre maggiore attività per il bene della società e della Chiesa. L’adunanza di ieri sarà feconda di frutti; essa non segna la chiusura solenne di un’energica e dignitosa difesa, ma il principio di una nuova e necessaria azione che ci allieterà di bei risultati. |
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| 01901-1905
| L’Associazione Univ. Catt. Tridentina tenne ieri l’altro un’adunanza generale, in cui fu votato ad unanimità il seguente ordine del giorno: «Gli studenti universitari cattolici del Trentino, adunati il 10 gennaio in assemblea generale chiedono che sia tosto attuato il trasferimento della Facoltà giuridica italiana a Trieste, trasferimento reso tanto più necessario dall’impossibilità loro creata di recarsi ulteriormente ad Innsbruck ; che la Facoltà italiana sia quanto prima completata colla Facoltà filosofica e medica e che per intanto siano riconosciuti i diplomi di filosofia e di medicina ottenuti in Italia; che sia sbrigato con sollecitudine il processo disciplinare pendente contro gli studenti italiani implicati nei fatti di Innsbruck, affinché sia loro dato di riprendere senz’altro gli studi e di uscire dalla dannosa situazione in cui si trovano per il procrastinamento della vertenza. Infine, memori delle cure sollecite prodigate ai reclusi dall’egregio prof. Lorenzoni, gli inviano i più cordiali ringraziamenti e lo assicurano della loro riconoscenza». |
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| 01901-1905
| Da lungo si assiste in Austria ad uno spettacolo desolante! Si apre e si chiude la Camera, i deputati se ne dicono di tutti i colori e si suscitano scenate tali che farebbero venire la voglia di adoperare la frusta; si cambia governo, ma si è sempre al medesimo punto: non si fa mai nulla di pratico, di utile! E si capisce. L’Austria è formata da popoli di diversa cultura e costume: un ammasso tale di differenti colori e aspirazioni che se fosse da raccoglierli tutti si potrebbe benissimo combinare un bel vestito da Arlecchino. Questi popoli hanno differenti interessi. I boemi vogliono una cosa, i croati ne vogliono un’altra, gli italiani un’altra ancora; e poi slavi, polacchi, et similia altre e altre di modo che il Governo di fronte a tutte queste aspirazioni non trova che una strada di uscita: promettere mari e monti a tutti e soddisfare nessuno e così risparmia danari che vengono buoni a gettare nelle ingorde canne del militarismo sempre esigente ed insaziabile e in questo modo si tira avanti colla baracca e i burattini, finché verrà poi il giorno che tutto farà un tremendo capitombolo... Ammettiamo, è una questione difficile accontentare i diversi popoli in questo campo, anche per il fatto che coll’accontentare uno si danneggia, senza volerlo, l’altro. Si assiste infatti ad un cozzo di interessi che mai l’eguale! Ma con un po’ di buona volontà da tutte le parti si potrebbe almeno condurre a termine qualche cosa. Ma l’egoismo?... Nazionalità! Nazionalità! E non vi sono in Austria altre questioni che possono sorpassare d’importanza questa questione e siano capaci di assorbirla e farla tacere? Che non vi sia una questione di interesse generale capace di raggruppare i diversi popoli della Babele austriaca, che possa unirli in un sol fascio e in un sol pensiero? Sì, vi è la questione sociale, sempre viva, sempre urgente e che sarà fonte di guai per quel popolo che la trascura e non sa decidersi di studiarla per risolverla! La questione sociale dovrebbe essere la molla che fa tacere e soddisfa la questione nazionale e la medicina potente per sanare il parlamentarismo austriaco dal ridicolo e dal disonore di fronte al mondo civile! Dovrebbe essere la fonte per la formazione di un partito generale che racchiuda in sé tutte le nazionalità dell’impero con l’unico programma: la riforma sociale! Cioè il miglioramento delle condizioni dei contadini, la difesa del popolo tutto nei suoi diritti e l’aiuto nei suoi bisogni. La formazione di questo grandioso partito è l’ideale dei cristiano-sociali, come è l’ideale nostro! Vediamo anche noi che rappresenta molte difficoltà: ma possibile che di fronte ai comuni interessi non si sia capaci d’intendersi e andare d’accordo? La questione sociale farebbe scomparire quella secondaria del nazionalismo; il grido della fame soffocherà quello dei nazionalisti; gli stomachi vuoti trionferanno contro le teste calde dei patriottardi! Noi siamo pienamente persuasi che il giorno in cui in Austria si incominciasse per parte di tutti il lavoro serio per la riforma sociale, i diversi popoli incomincerebbero ad intendersi, che quantunque i loro cervelli ragionino diversamente, i loro interessi economici li farebbero andar d’accordo. Quindi chi vuole che in Austria torni la pace tra i diversi popoli deve lavorare per portare in prima linea sul tappeto parlamentare la questione sociale. Prima però, è necessario far sì che tutti, e non solo i privilegiati possano prendere parte alla vita politica: è necessario che i primi colpiti dall’inazione parlamentare possano pesare sulla bilancia politica, che quelli che hanno fame, causa questa inazione possano dire: Basta per la questione nazionale, ora bisogna lavorare per la riforma sociale! Ottenuto questo accordo, la questione nazionale si scioglierebbe da sé. Questo il desiderio nostro! fs. |
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| 01901-1905
| È noto che quasi ogni valle del nostro paese, oltre il contingente numeroso che manda al di là dei mari, ha la sua specie di emigranti professionisti, come a dire i ramieri e gli spazzacamini, i muratori e i segantini, gli operai dell’industria tessile, gli arrotini ecc. Questi ultimi frequentano soprattutto le città grandi, come Londra, Parigi, Vienna, Milano e Monaco. Capitano in queste città colla loro «carriola» la loro officina ambulante, chiedono la licenza di esercitare il loro mestiere su di una piazzetta o un crocicchio e se la delicatezza d’orecchio e la nervosità dei vicini lo permettono, fanno stridere incessantemente la loro mola, finché il gruzzolo raggranellato giorno per giorno, s’è venuto arrotondando fino all’importo necessario per prendere a pigione una botteguccia, dove l’industria primitiva della «carriola» va trasformandosi in industria moderna con macchine più o meno celeri a forza elettrica. Questo processo di elevazione industriale è stata la vita di molti dei nostri, i quali, dopo venti o trent’anni di lavoro, possono guardare senza troppi timori all’indomani. Non a tutti però avviene così. Il mestiere è poco sano, le malattie, prodotte dall’umidità e dalle intemperie a cui stanno esposti, colpiscono l’uomo maturo che vede già assicurato il suo avvenire e spesso lo tolgono inesorabilmente alla famiglia numerosa, fatta venire di recente dalla patria, con la speranza di dividere i vantaggi di una posizione conquistata. Gli arrotini hanno inoltre da combattere contro tutta la legislazione industriale che mira sempre più a proteggere l’industria stabile contro l’avventizia. Le leggi e il regolamento industriale trovan specialmente nei paesi progrediti, come in Germania e a Vienna degli esecutori interessati e perciò formidabili nei consorzi industriali. Se poi per giunta abusi reali o immaginari da parte degli arrotini suscitano l’invidia e lo spirito di concorrenza dei professionisti affini, la lotta si fa sempre più pericolosa. Un caso simile è quello che preoccupa gli arrotini a Vienna. La sezione professionale dei coltellinai del consorzio dei Feinzeugschmiede ha avviato un’azione presso il magistrato, quale autorità industriale di Ia istanza contro gli arrotini (Karrenschleifer) che, non avendo che la licenza industriale, mandano tuttavia i garzoni a vendere istrumenti da taglio di quartiere in quartiere. In realtà quest’accusa però non è che un pretesto per spazzar via, se è possibile, tutti gli arrotini che mantengono ancora la forma primitiva di industria (Karrenschleifer). Siccome è presumibile che il magistrato non sappia o voglia resistere alle pressioni del Consorzio, gli arrotini minacciati si sono uniti e hanno presentato alla Genossenschaft der Feinzeugschmiede l’istanza di essere accolti in questa società, dal momento che una propria organizzazione non è prevista. Ora, mentre gli arrotini che hanno bottega sono già da tempo membri della Genossenschaft, questa si rifiuta di accettare i Karrenschleifer per il motivo che essi non avrebbero gli attestati di regolare tirocinio voluti dalla legge. E la cosa sta purtroppo così, perché chi ha imparato il mestiere in Italia, chi altrove senza un tirocinio regolare. Ma se non vi sarà alcuno che voglia discutere l’opportunità del regolamento industriale, non è però chi non veda che l’ammettere alla legge forza retroattiva in questo equivarrebbe a mandare in rovina degli onesti lavoratori che con lungo lavoro hanno dato prova della propria abilità, e non chiedono altro che di poter guadagnarsi un pane. Gli arrotini hanno perciò presentato contemporaneamente un’istanza al magistrato perché esso voglia loro riconoscere in base al § 106 del regolamento industriale e alle leggi del 15 marzo 1883 o 23 febbraio 1897, il diritto di far valere le proprie ragioni entro la Genossenschaft der Feinzeugschmiede. È da sperare che questa azione ottenga buoni frutti e che anche gli arrotini a Vienna, organizzati non abbiano solo l’obbligo di pagare per la cassa malati, ma anche il mezzo di rappresentare collettivamente i propri diritti. Se questo primo passo non otterrà il suo scopo, siamo certi che i nostri deputati, i quali nelle nostre conferenze hanno promesso altre volte il loro appoggio agli arrotini, faranno del loro meglio, per difendere i nostri patriotti. C’è però anche una morale della favola, ed è questa. Riconoscano i nostri emigrati la necessità dell’organizzazione e d’assoggettare il loro mestiere alle leggi e regole del paese ove lavorano. Ma per giungere a questo è necessario di riunirsi, di discutere e di sentire. Solo in questa maniera essi potranno ritrovare un po’ di quella patria che hanno perduto, e godere il rispetto e la stima dei loro colleghi tedeschi, i quali sanno che l’operaio o il professionista organizzato e cosciente diventa anche più onesto ed intelligente. FORTIS |
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| 01901-1905
| Gran brutta piaga il militarismo! Si strappano ai campi i figli dei contadini nell’età in cui la loro forza è in fiore, nell’età in cui il contadino spererebbe di avere un po’ di aiuto nella sua vecchiaia! Si strappano dai campi queste giovani forze, questi sostegni della famiglia, per accasermarli insegnando loro per tre lunghi anni delle cose che il bene della famiglia non richiede. Ma non basta! Oltre che per tre anni privare le famiglie di operai e contadini dell’unico sostegno, si costringono le stesse ad incontrare dei debiti onde mantenere il figlio al servizio del Governo, il figlio che suo malgrado deve imparare a maneggiare le armi, onde al momento opportuno – quando il capriccio di un Governo gaudente, di quattro buontemponi che non sanno cosa voglia dire partire – adoperarle per uccidere altri esseri umani, differenti bensì da lui di nazione, ma che sentono i medesimi bisogni. Perché bisogna sapere che questi governi che quando il capriccio loro detta mandando questi poveri diavoli al macello per certe cagnare, idealità, secondo loro non sono capaci di mantenerseli ma occorre che le famiglie pensino per essi, soffrendo la fame affinché il figlio in mezzo a fatiche sconosciute, ingrate, che non danno alcuna soddisfazione morale, possano nutrirsi! Malgrado i gridi da tutte le parti: – basta, basta con militarismo! Basta con queste esigenze sfacciate, che sono in opposizione coi tempi nostri, che si pretendono in progresso, dove le questioni diplomatiche si dovrebbero appianare con le buone ragioni e non al modo dei barbari, dove la ragione è del più forte, del più feroce – il militarismo avanza sempre nuove pretese, nuove spese! E tutto questo, dicono gli uomini che si pretendono di saperla più lunga dei colpiti direttamente da questa piaga, per mantere la pace «armata»! Perché insomma quando le potenze sono tutte ben provviste di munizioni e di uomini pronte ad usarle si guarderanno bene di mettere mano alle armi! Bella ragione questa invero! Come se per un assassino appartato nei boschi e armato fino ai denti, anziché sguinzagliare una compagnia di gendarmi per arrestarlo si consigliasse a tutti i cittadini dello stato di armarsi tutti anche loro fino ai denti onde così questo bel tipo si spaventi e faccia il galantuomo! E non sarebbe invece meglio fare il disarmo generale? Quel tanto che basta per l’ordine interno e poi punto? Quando tutte le potenze facessero così, e dovrà venire il tempo che ciò si faccia, non c’è ma che tenga, scomparirebbe anche la guerra, questa peste dell’umanità! Ed ecco ottenuto così lo scopo che i governanti moderni del secolo XX vogliono ottenere con la continua introduzione di cannoni, col continuo arruolamento sotto le armi di cittadini! Da per tutto si nota un vivo malcontento contro la piaga del militarismo! Chi grida più forte sono i socialisti. A nostro avviso costoro farebbero meglio a tacere, poiché essi sono una causa, un rampino in mano dei governanti per mantenere il militarismo. Ci spieghiamo. Quando si fa osservare che non c’è bisogno di tanti armamenti, che è meglio fare il disarmo, i governanti rispondono che il militarismo serve per la difesa interna dello Stato, per la tutela dei cittadini. Chi sono ai giorni nostri coloro che creano un pericolo per lo stato, pei cittadini? Sono i socialisti, ognuno lo vede. I socialisti che tutto vogliono sovvertire, cambiare con la violenza; i socialisti col loro modo di educare il popolo, di ubriacarlo di desideri impossibili ad avverarsi, di avvezzarlo a prendere con la violenza ciò che le classi privilegiate al primo colpo non vogliono dare con le buone! Gli scioperi violenti ce ne danno l’esempio e in prima linea; per ricordarne uno recente, lo sciopero generale inscenato mesi sono in Italia , sciopero provocato per migliorare non le condizioni dei lavoratori, ma per puri scopi politici, scopi che nulla interessano il lavoratore, dove, se non ci fossero stati i militari, chi sa cosa sarebbe successo. Oltre che negli scioperi, in altre occasioni, in altre manifestazioni della vita pubblica si rese necessario l’intervento del militare per difendere i cittadini dai socialisti. Se tutti fossero come noi, state certi che i militari potrebbero andare a dormine. Che gridino quel che vogliono i socialisti, ma essi, ovvero sia le loro dottrine sia la loro propaganda, rendono un cattivo servizio alla causa dell’abolizione del militarismo. Militarismo e socialismo sono per noi due cose che non si possono separare: il socialismo richiede di necessità il militarismo per la difesa sociale! fs. |
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| 01901-1905
| Martedì, pubblicando sotto il titolo «Un bell’esempio» ciò che hanno fatto e fanno i cattolici del regno di Baviera per il miglioramento e la diffusione della loro stampa, promettemmo di dire il parer nostro su quello che si potrebbe e si dovrebbe fare per il medesimo scopo nel nostro paese. Eccoci a mantenere la parola data. Non intendiamo di uscire con novità, anzi dichiariamo espressamente fin da principio che ci limiteremo a ripetere cose già dette altre volte, ma purtroppo dimenticate, o non ben intese, o non sufficientemente ponderate, cosicchè torna necessario richiamarle alla memoria e ribadirle. L’articolo «Un bell’esempio» narrava i principi e le attività di una speciale associazione, sorta in Baviera a sostegno della stampa cattolica. Da noi non occorre fondar nulla; l’associazione è bella e pronta, ed è il Comitato diocesano trentino per l’azione cattolica . Essa aveva dato appena i primi passi nella vita pubblica, e tosto dovette convincersi della imprescindibile necessità di occuparsi in special modo della stampa. Fu quindi sua cura di piantare una propria tipografia, la quale rendesse molto più facile alla stampa cattolica di migliorarsi e diffondersi a vantaggio della buona causa. Quali benefici effetti abbia avuto l’attuazione di questo piano, lo possiamo toccare con mano oggidì, in cui la stampa nostra ha moltiplicato i suoi abbonati e lettori, grazie, in buona parte, all’opera del Comitato. Ma tutti sanno che per mantenere le istituzioni, quelle specialmente che sono gravate di spese, è necessario fornirle di quattrini. Di uscita non si vive; ci vuole l’entrata, e le entrate del Comitato consistono principalmente nelle entrate dei soci e nei lavori che si procurano alle sue officine. L’articolo di martedì ci diceva che i cattolici bavaresi non sono tardi a sostenere la loro Unione per la stampa. Già migliaia di soci ne fanno parte e, pagando puntualmente la loro tassa annuale, la mettono in stato di disporre di grosse somme di denaro che vanno impiegate in un’attivissima ed efficace propaganda coi fogli e colle conferenze. Orbene: imitiamo noi questi esempi? Pur troppo vi sono molti cattolici, anche di quelli che dovrebbero essere agli altri di guida e di sprone, i quali sembrano non sapere nemmeno che esista il Comitato diocesano. Altri – e anche questi non son pochi – non sanno mai trovare il tempo di spedire all’«Amministrazione del Comitato diocesano in Trento» un semplice vaglia colla loro tassa o colle loro offerte, cosicchè le tasse arretrate rappresentano ormai un bel capitale... mancante, che se avesse a passare dalla carta su cui è segnato in spe, nelle casse che finora invano lo hanno aspettato, sarebbe un aiuto non piccolo, da ringraziare Iddio e i soci risvegliatisi alla coscienza del loro dovere. Si dirà forse che le domande di offerte e di tasse si ripetono con molta frequenza, onde non è meraviglia che non si pensi e si provveda a tutto. Noi non vogliamo negare che, al giorno d’oggi, siano moltiplicate le opere che fanno assegnamento sulla generosità dei buoni; osserviamo però che non sarà la tassa del Comitato o l’offerta per lo stesso che smungeranno la borsa dei soci; osserviamo ancora che alle volte si raccolgono offerte per altre opere buone e utili, ma di molto minore importanza o che non appartengono nemmeno al nostro paese; osserviamo infine che fra le opere sociali la prima di cui si dovrebbe ampiamente e costantemente provvedere, è quella della stampa cattolica che nella moderna società ha una missione così grande e necessaria da compiere. Ripetiamo dunque e ripetiamo fino alla sazietà: è necessario che tutti i buoni siano soci del Comitato diocesano, è necessario che tutti i soci si mettano in regola colle tasse e le paghino con puntualità, anzi con sollecitudine; è necessario dare tutto l’appoggio anche alla tipografia del Comitato e alle annesse officine, se vogliamo che il Comitato abbia i mezzi indispensabili per promuovere la stampa e far propaganda con conferenze e in altri modi opportuni. Questo è un punto, ma non basta. Tutti gli amici e i consenzienti devono concorrere allo sviluppo della nostra stampa anche in altri modi. Si devono spedire al giornale corrispondenze pronte, brevi, esatte sui fatti che interessano il pubblico. Potremmo citare qualche caso in cui non uno di coloro che avrebbero potuto mandarci una notizia interessante, si prese la briga, non diciamo di telegrafarla verso rifusione delle spese, ma nemmeno di favorircene due righe sopra una cartolina di corrispondenza. Bello slancio davvero! Invece ci è toccato di trovarci con sessanta o settanta ringraziamenti per missioni, accumulati sul tavolo, alcuni lunghi di una pagina di cancelleria, e quando dovemmo risolverci a pubblicare semplicemente l’elenco dei luoghi dove si erano tenute le missioni e di coloro che le avevano tenute, ci giunsero tosto parecchie lettere di lagno. Noi siamo ben lontani dal voler escludere dal giornale le manifestazioni così importanti della vita religiosa, ma sarebbe una gran bella cosa che le relazioni di fatti press’a poco sempre uguali fossero stese in modo da risparmiarci la briga di riassumerle o riscriverle, e sarebbe altresì ben fatto che la sollecitudine usata nel darci tali notizie, si usasse anche in altre occasioni. Se devono anche procurare al giornale abbonati. In questo riguardo dovremmo professare la massima gratitudine a molti amici che hanno dato prova di uno zelo ammirevole, coronato da ottimo successo. Ma anche qui quanto rimane a fare in certi luoghi, ove dilaga la stampa liberale e socialista, mentre la stampa cattolica vi è quasi ignota! Possibile che non si comprenda la necessità di opporre stampa a stampa? Possibile che non si voglia svegliarsi e si lascino correre le cose agli estremi? Quale ragione può giustificare tale contegno? Continua dev’essere pure la nostra insistenza perché i giornali cattolici si trovino in tutti i pubblici esercizi che frequentiamo. Anche su questo campo abbiamo fatto dei buoni progressi, ma bisogna continuare e andare innanzi. I cattolici non sono clienti che si possano disprezzare o tenere in non cale; se si faranno intendere, non falliranno al loro scopo di vedere in ogni pubblico esercizio i loro fogli. Infine è necessario procurare ai nostri giornali inserzioni e preferire nelle compere e ordinazioni quei commercianti e industriali che inseriscono i loro avvisi nel foglio cattolico. Con tutti questi mezzi arriveremo a dare un grande incremento alla nostra stampa, la quale potrà migliorarsi sempre più ed esercitare un influsso sempre maggiore sulla vita pubblica del paese. Non vogliamo chiudere queste nostre osservazioni, senza aggiungere qualche cosa che riguarda le nostre società, sparse per le vallate, e l’opera proficua che potrebbero compiere, in aiuto al Comitato diocesano, per la stampa cattolica. Le società agricole-operaie cattoliche si sono acquistate un grande merito, contribuendo a diffondere il Fede e lavoro nel ceto rurale, tanto che la tiratura di questo foglio raggiunge, al presente, quasi settemila copie. Non è piccola cosa lanciare ogni settimana per tutto il Trentino un numero sì grande di copie di un periodico, che, come è noto, viene letto con interesse da intiere famiglie. Ma vi sono altre società che, per quanto informate a buono spirito, pure non si curano quasi affatto dei fogli cattolici, e a noi questa sembra una strana anomalia, né possiamo trattenerci dal raccomandare caldamente a chi le dirige o vi esercita un certo influsso, di adoperarsi perché cessi un tale stato di cose, e in ogni società che aderisce ai nostri principî entri il nostro giornale. Di più, anche le Società agricole-operaie non dovrebbero contentarsi di distribuire il Fede e lavoro; ma uno dei principali impegni delle direzioni e dei soci dovrebbe essere quello di dar vita a uno stabile circolo di lettura – come è previsto dallo statuto – in cui, oltre il Fede e lavoro e altri periodici, si trovasse anche il foglio quotidiano. Se per tal modo i numerosi membri delle nostre società popolari verranno in continuo contatto colla nostra stampa, questo potrà molto maggiormente contribuire alla formazione di un partito forte e cosciente, i cui vantaggi non mancheranno di farsi sentire ben presto. |
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| 01901-1905
| È una cosa vecchia: l’abbiamo detto le cento volte su queste colonne, che i nostri liberaloni non sono capaci che di gridare, far baccano, far dei progettoni, ecc. ecc.; ma che all’atto pratico non valgono un cavolo e non sanno creare un fico secco a pro del nostro paese. Tuttavia giova rilevarlo un’altra volta, e ce ne porge il destro un fatto nuovo sorto per iniziativa dei nostri amici, gli amici veri del paese. Chi lesse l’ultimo numero del nostro giornale, avrà trovato un breve cenno sull’adunanza generale della banca cattolica trentina , ma non tutti avranno egualmente notata l’importanza di quel passo dove si dice che col cambiamento dello statuto la Banca «potrà d’ora innanzi funzionare non solo come Banca di circolazione, ma anche come Banca commerciale ed industriale». Vi par poco? È un fatto nuovo nel nostro Trentino, dove i chiacchieroni pullulano come i funghi, fabbricatori di mille ferrovie e di mille centrali al... caffé e... il fistolo li porti! La Banca cattolica trentina cominciò subito, non si accontentò della modificazione dello statuto – che sarebbe del pari caduta nel difetto dei nostri politicanti da strapazzo – cominicò subito col prendere l’iniziativa della tramvia dell’Alta Anaunia. Questi sono fatti! I nostri liberaloni che da anni annorum studiavano per erigere una banca industriale furono con ciò disturbati nei loro studi e si lamentarono sull’Alto Adige – poveretti! – perché la banca cattolica rubò il loro progetto. Curiosi davvero, questi signori! Studieremo, Procureremo, Faremo, siccome non sono capaci di fare qualche cosa di pratico hanno la sfacciataggine di gridare pur coprendo le loro grida sotto il manto di una benevola critica, se gli altri, stanchi degli indugi, si mettono a fare qualche cosa sul serio! A guarirli dalla loro malattia ci vorrebbe un po’ di...; ma è inutile, hanno le cataratte croniche, mandiamoli a... Padova. L’Alto Adige, non contento di mostrarsi monello come sopra, si mette anche a denigrare l’impresa della banca – beninteso, fingendo di avvertirla, da buon padre spirituale, di un grave pericolo – dicendo che è un’impresa troppo ardita per i capitali che ha a disposizione, onde così mettere in allarme i soci, provocando, se gli riuscisse, una ressa agli sportelli. Cose da scribi e farisei! Certi sistemi, però, d’infelice memoria farisaica, basta rilevarli, perché siano esposti alla pubblica riprovazione, oltre che due poderosi articoli comparsi sulla Voce Cattolica venerdì e sabato abbiano levato le repliche all’allegro giornale di via Dordi. Non siamo mica più nel medioevo, caro amico, lo dici tu dispesso. Oggi, o fatti o liquidazione. Non basta dare in pasto al contadino, all’operaio quattro paroloni mitingai, che lo lasciano a bocca asciutta e aperta per mandar fuori moccoli... o criticare chi fa del bene. Il popolo cosciente, educato, giudice severo, imparziale. Cattolici, al lavoro, ai costanti la gloria! fs. |
e8d23281-464f-4a04-9c00-ba69eaeae08f | 1,905 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| Vi ricordate lo sciopero del ’98? Finì non troppo bene, e de’ lavoratori chi impreca all’uno chi impreca all’altro, mai più intravvedono le cause dell’insuccesso: la mancanza d’un’organizzazione soda, addestrata alle lotte del lavoro, nessuna garanzia di fedeltà ai patti, e la solidarietà fondata su poco più che la firma. Ma la critica al passato è inutile, se non ne impara l’avvenire. Lo sciopero del ’98, malgrado le persone egregie che vi si affaticarono d’attorno, lasciò in sostanza il tempo di prima. Solo che d’allora in poi i lagni, più che la chiara coscienza di classe, furono più forti, più ripetuti. In mezzo ai rialzi continui dei salari per le altre professioni e ai ribassi della durata di lavoro, i segantini rimasero a bocca asciutta, al vecchio sistema, quant’è antica la meccanica delle loro officine. Il proprietario della sega affida ad un operaio-maestro la sega e paga £. 1.70 per %. Le assi vengono poi accastellate a disseccare e l’operaio che lo fa riceve 10 soldi per 100 assi. La sega gira giorno e notte incessantemente; l’operaio deve quindi prendere un socio che condivida sonno e lavoro. Ore di riposo non ce ne sono. Come l’acqua si precipita eternamente su le pale della grande ruota motrice, così ininterrotta è la giornata o la notte del segantino che nelle ore del cibo, al dato segnale, deve interrompere spesso il magro desinare e correre col pezzo di polenta in una mano ad accontentare con l’altra la macchina che non ha riposo. Così di giorno, così di notte, e la giornata è di 14 ore, il sonno breve ed irregolare. A vederli curvi al loro lavoro, tra lo scroscio delle acque e lo stridore della sega, o la notte, al lume penoso delle loro lanterne che vi segnano il corso delle acque lungo la valle, voi pensate almeno che questa gente sia allettata dai larghi guadagni, come il minatore che lotta coi segreti della natura. Nulla di nulla! Quando questi due uomini alla festa faranno i conti, saranno felici se potranno dire d’aver guadagnato £. 1.20 al giorno! E voi mi parlate di secolo di progresso e di rivendicazioni operaie! Ma c’è un peggio, il lavoro è tutto a rischio del segantino. In caso di piena o di gelo, quando insomma per checchesia la forza idraulica ricusa il suo concorso, il segantino deve starsene colle mani in mano, tanto che nelle seghe di Predazzo, per esempio, non si lavora in media più di 10 mesi l’anno. Queste condizioni miserabili si ripetono, come sempre, in una forma secondaria. L’operaio-maestro che assume la sega non può mantenere la famiglia se dividerà con un socio il frutto del lavoro alla pari e perciò prenderà un garzone-apprendista il quale non potrà essere pagato bene, ma dovrà pur dividere il lavoro col padrone immediato. E così la miseria dei mal pagati si tramanda. E che vi pare della tassa per la «sechentagion»? Que’ bei castelli di assi che voi ammirate dalle vie e che vi danno quasi una propria fisionomia geometrica a tutta la valle sorgono per un nonnulla. All’operaio che li fa non si paga nemmeno quanto egli s’è sdrucito di dosso. Quanto ho scritto è più che sufficiente per conchiudere che i lagni dei segantini sono fondatissimi e che un cambiamento è più che necessario. «Vista l’aria che spira nelle sfere padronali, mi dicevano alcuni, non ci arrischiamo nemmeno di chiedere un salario fisso invece del contratto, ma, chiediamo, almeno i 2 soldi il taglio, e 20 soldi per 100 nella essiccazione. Chiediamo insomma da vivere e nulla più. Se stiamo bene noi, staranno bene anche i garzoni. I padroni ci oppongono che gli affari vanno al peggio anche per loro, ma non è vero. In che tasche sono andati a finire i danari della comunità e del feudo ?» E ci lasciammo con l’idea che qualche cosa bisogna fare, anzitutto buttar via la solita indolenza. Tutti i segantini della valle devono essere solidali e la garanzia in contanti non deve mancare. È inutile: senza danari non si mantiene la pace armata, né si fa la guerra. E per intanto mi incaricarono d’interessare la pubblica opinione (quest’altra potenza di cui in tutte le lotte si deve tener conto), per la loro causa, il che io ho fatto, convinto che essa è giusta e santa. FORTIS. |
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| 01901-1905
| Da ogni cosa, piccola o grande, che succede, l’uomo ordinato, di buon senso, tira le conseguenze, e ne giudica o pro o contro. Come del pari ogni padre di famiglia si fa nota delle uscite per poi pareggiarle con le entrate e non sorpassarle. Lasciamo per oggi queste cose, e parliamo un po’ d’altro. Appena lessi la relazione ufficiale del congresso socialista trentino , congresso dove si poté vedere fino a che punto arrivò «la fierezza dignitaria» e l’indipendenza da ogni influsso pestifero della borghesia del socialismo trentino, tirai le somme sull’importanza di questo partito nel nostro Trentino. Dobbiamo temerlo? Io vorrei mettere in guardia molti di coloro, che visto che il partito rosso dopo dieci anni di esistenza non seppe che contaminarsi con la borghesia e piegare vigliaccamente, malgrado i propositi «fieri», la bandiera verso il carro della stessa, vorrei, dico, mettere in guardia coloro, dal disprezzare il socialismo trentino. Guai, guai, a chi, considerati i pochi progressi fatti dallo stesso in un tempo relativamente lungo, si cullasse in dolci sogni e stesse là con le mani alla cintola, aspettando dal tempo giorni migliori. Un illustre autore disse ben a ragione che non vi è mezzo più potente per favorire il socialismo che quello di disprezzarlo; come non vi è mezzo migliore per opporvi una diga che quello di prevenirlo nelle giuste rivendicazioni sociali del proletariato. Tiriamo le somme! Il socialismo da noi, non ha proprio recato alcun danno? Amici, ditemi, chi formò nel nostro Trentino, il partito anticlericale? Chi acuì nel liberalismo, il vecchio peccatore impenitente, lo spirito settario? Pensateci bene, e rispondete: fu il socialismo! Fu il socialismo, che, visto come nel campo proletario, staffilando la borghesia nostrana nel campo economico non faceva affari, credette bene tenere il piede in due staffe, con uno accarezzando il proletario e con l’altro istillando nella borghesia l’odio al prete e alla Chiesa. Amici, non disprezziamo il socialismo, ma preveniamolo nella difesa sociale: preveniamolo nel campo economico! Noi, meglio del socialismo possiamo combattere le ingiustizie da qualunque parte vengano, noi, meglio dei socialisti possiamo opporci, anzi dobbiamo opporci a tutte le sopraffazioni dei grandi e dei piccoli, noi, seguaci di una religione che ha per fondamento la giustizia! Guai a quel tale, che un bel giorno sospendesse il suo lavoro, per ridere, per disprezzare il socialismo, in vista delle sue piaghe schifose! Si ricordi del pazzo, che mentre gli ardono le vesti d’intorno, ride! Niuno vorrà sostenere che il partito rosso, come tale, da noi riesca a mettere salde radici; no, nemmeno adesso che sembra tutto pulito, tutto oliato nel macchinario rosso, io ci credo allo sviluppo del partito del sole dell’avvenire. Non v’è il terreno adatto, e poi è affidato a mani inesperte, a mani di giovani ancora imberbi, che certamente avranno del socialismo le cognizioni che ha la mia... capra. Noi vedremo ancora il socialismo trentino abbassare la bandiera se non davanti alla «iniqua bandiera» clericale, certamente davanti al «vessillo della democrazia». Ma giorno per giorno egli stimolerà l’anticlericalismo, egli ridesterà gli umori irreligiosi degli uomini di tutte le gradazioni, ruberà la fede a più di un incauto. Socialismo no, ma un partito anticlericale sì, sarà formato da uomini di idee disparate in ogni campo, ma concordi in una: la guerra al prete. Al lavoro, alle dighe, senza sottintesi, senza rosee speranze, con un programma sano, democratico: questo è il risultato delle somme tirate sull’attività e sull’insufficienza del socialismo nel nostro paese! |
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| 01901-1905
| Olà, signori; a che gioco giochiamo?... Domenica a Riva , come i lettori troveranno in altra parte del giornale, fu tenuto un comizio pubblico sulla questione universitaria. Noi non staremo qui adesso a fare una lunga discussione su la stessa; le nostre idee sono note in proposito: ammaestrati alla scuola dell’esperienza, siamo persuasi che il radicalismo in politica è il più nefasto di tutte le questioni. Noi non siamo quindi per la formula radicale nella questione universitaria, non siamo per il «Trieste o nulla!» ché, come siamo persuasi che l’ascensione economica del popolo non può avvenire d’un colpo, ma giorno per giorno, – e in questo senso lavoriamo tenacemente – così siamo certi che anche politicamente il nostro paese potrà elevarsi solo allora, quando uomini coraggiosi sorgeranno e francamente romperanno le tradizioni della politica fin qui condotta. Allora questi uomini ideali, seguendo il popolo che fin qui soffrì oltre che per l’ignavia di governi che restarono al potere col promettere a tutti e con l’accontentar nessuno, anche per la politica radicale dei suoi presunti rappresentanti, dichiareranno solennemente e senza sottintesi: «È ora di finirla con la politica degli avvocati, e dei dottori, che nulla hanno da perdere se la loro politica riesce male!». Nel comizio di Riva fu perpetrata un’ingiustizia da parte de’ soliti politicanti, a danno del popolo trentino; diciamolo alto e forte, una grave ingiustizia!... Fino ad oggi nel nostro Trentino politicamente vivemmo nell’equivoco. Chi faceva la politica, chi faceva il nuvolo e il sereno erano quattro avvocati, quattro dottori che avevano sempre in bocca la formula stereotipata: «Il Paese vuol così, il Paese vuol colà», mentre in realtà il Paese o non veniva interessato o si disinteressava – ahi, troppo! – e alle volte non distingueva bene di che si trattasse. Ora, sembra entriamo in un’altra fase: sembra che gli amici del popolo pensino sul serio a dare un calcio a certi sistemi odiosi, a certi sistemi... autocratici!... Tutti conoscono l’esito dei comizi di Valfloriana e di Tuenno. L’on. mons. Delugan, il rappresentante di tutto il popolo trentino, il deputato della quinta Curia, ruppe certe tradizioni e si schierò con i suoi elettori: «Meglio qualche cosa oggi che niente domani, – gridò – no “Trieste o nulla!”; meglio che i figli del nostro popolo, i quali un giorno saranno i nostri impiegati, quelli che salvaguarderanno i nostri diritti, i nostri interessi, piuttosto di dover emigrare in terre lontane ad attingere la scienza a fonte tedesca, possano restare a Trento, a studiare in Università nazionale che il Governo sarebbe disposto a darci, mentre non ce la vuol dare assolutamente a Trieste. Pigliamo il poco, anziché il “nulla” e poi, rinvigoriti per quel poco, continueremo la lotta per avere il “tutto”». Gli elettori approvarono. Il dott. Conci, il rappresentante della Valle d’Anaunia, la valle che dà il maggior contingente di studenti, fece lo stesso. I suoi elettori applaudirono le sue idee. Gli abitanti della vallata di Cembra si schierarono con questi. Questo atto avrebbe dovuto far capire a certa gente che è giunta l’ora di finirla con quella certa politica insana e dannosa del «tutto o nulla». Mah sì! Andatelo a dire a certi signori... Essi, a cui poco cale il benessere del paese, vogliono l’università a Trieste, benché sappiano di non poterla ottenere, vogliono cioè mantenere il disordine, il malcontento, a danno immenso degli interessi del popolo che suda e lavora. Essi, con un’abile mossa da ballerina, dichiararono semplicemente che i comizi di Tuenno e Valfloriana non hanno valore, perché quei collegi son composti di elettori non direttamente interessati nella questione universitaria. Ma, sapete, che ci vuole del bel coraggio, della bella... – diciamolo pure – sfacciataggine per arrivare a questo punto? Ah, così? Non interessato tutto il popolo trentino che suda e lavora, non interessati gli Anauniesi che annualmente mandano squadre di studenti nelle università? Ah, così? Visto che il popolo è contro di voi cercate di liberarvene, con abile colpo di mano, come da una zavorra inutile, e metterlo in un canto? Voi sì, che non siete interessati, o dottori, o avvocati, ché i vostri figli potete mandarli in Italia se occorre, ma il contadino no, egli non ha i mezzi!... Protestiamo altamente contro l’offesa fatta al nostro popolo! |
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| 01901-1905
| Nel mentre assumo la direzione del giornale, sento il dovere di dichiarare che lo faccio nella piena coscienza delle gravi responsabilità e delle difficoltà del compito che m’incombe. La Voce, per l’appoggio efficace delle persone che lavorano nel campo cattolico, per l’attività intelligente dei colleghi componenti la redazione, ma sopratutto per l’indirizzo fermo e chiare per l’opera illuminata ed instancabile del suo direttore, è diventata via via per gli ultimi anni non solo l’organo di un partito puro forte, ma anche un fattore autorevole nell’ambito dell’opinione pubblica trentina. Ricordare le lotte passate, rifare colla memoria la gran via percorsa non è compito mio, né d’oggi: lo faranno gli amici, sia compito della storia del nostro paese. Agli amici ed ai lettori parrà tuttavia naturale che il sentirsi chiamato ad un tale ufficio, dopo tali precedenti e con queste tradizioni, mi abbia fatto dapprima titubante. E se malgrado tutto, mi sono risolto a seguire l’invito fattomi con tanta fiducia, fu perché sapevo che chi finora diresse il giornale se ne parte sì, ma non se ne stacca, e che per la posizione direttrice ch’egli tiene nell’azione cattolica, rimane al giornale il consiglio di lui e la sua esperienza. Fu anche perché pensai che gli altri tutti che con tanta operosità s’occupano dell’azione cattolica, guarderanno più alla causa che alla persona e per amore dell’antico indirizzo che continua e del pensiero collettivo che La Voce esprime, manterranno al giornale la fede e il sostegno loro. E fu infine perché il mancare ora in cui urge la pressura del lavoro, mi sarebbe parso un disertare la causa che ho abbracciato con entusiasmo e con tutte le forze. In nome di questo lavoro che ci aspetta concordi, finisco anch’io col dantesco: «Andiam che la via lunga ne sospinge». |
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| 01901-1905
| Il barone Malfatti smentisce l’intervista colla Neue Freie Presse, e la smentita è contenuta in una lettera ad uno di quei «giornalucoli italiani» che il signor barone non legge mai; ecco per oggi la notizia più importante sul corso della crisi. Il Malfatti dichiara che nell’intervista i suoi apprezzamenti sono svisati e che in qualche punto gli si fa dire l’opposto di quanto pensò e disse. Aspettando anche noi, come fa l’Alto Adige, che l’ex deputato di Rovereto determini meglio il contenuto delle invenzioni e delle menzogne della Neue Freie Presse, non possiamo fare a meno di esprimere la nostra compassione per quei giornalisti che hanno avuto la sventura di intervistare il Malfatti. Ricordiamo un’importantissima intervista del medesimo onorevole con un redattore della Wiener Allgemeine Zeitung, la quale conteneva delle idee e delle espressioni su per giù congruenti con quelle della Presse. L’intervista fu smentita, e il giornale viennese si scusò, dicendo che qualche malinteso poteva derivare dal fatto, che il barone Malfatti non padroneggia il tedesco. Una villania, come tutti vedono, che non ripeterà la Presse, giornale serio e che dovrà render conto per davvero! Intanto, fra l’intervista e la smentita, l’on. Malfatti ha ricevuto dai deputati adriatici, radunati a convegno a Trieste, il seguente dispaccio: «Deputati adriatici riuniti oggi qui le esprimono loro massima stima ed affetto, dolenti, aver perduto una guida che con senno, esperienza e perfetta lealtà aveva assicurato all’Unione italiana il generale rispetto, e si lusingano che le sue dimissioni non significheranno ritiro dalla vita politica, ma che sarà conservato alla lotta per la causa italiana uno dei suoi validi campioni. Firmato: Rizzi ». E qui avremmo esaurita la cronaca e trovato inutili altri commenti su di una questione, che diventa sempre più cieca, se non ci fosse capitato tra mano un articolo dell’Indipendente, nel quale si cerca di dimostrare, contrariamente a quanto abbiamo stampato noi che il «Trieste o nulla» è un motto vecchio quanto la questione universitaria e che i primi a rompere la consegna furono coloro che proposero quale sede Rovereto o Trento. Il giornale triestino pare voglia ignorare la storia genuina dello svolgersi della questione in seno al club italiano, malgrado che il nostro articolo sia stato ristampato tale e quale anche da giornali triestini. E come fa la stampa trentina, la quale dopo averci sfidato a metter fuori le decisioni dell’Unione italiana, copre col silenzio la sua ritirata, pur di non far sapere al pubblico la verità; così vorrebbe celare all’opinione pubblica triestina: 1) che in seno al club parlamentare italiano il motto «Trieste o nulla» non esistette mai, che anzi i deputati adriatici erano per Trieste o un’altra città del litorale e, non molto fa, anche per Trieste o Trento (vedere il convegno di Cervignano); 2) che i deputati Conci e mons. Delugan restarono fedeli fino all’ultimo momento al motto «Trieste o nulla», e che solo quando Trieste era affatto esclusa, tanto per salvare le cattedre parallele, proposero una soluzione intermedia. Ciò abbiamo dimostrato col suffragio di date e di fatti precisi che nessuno può smentire. Se malgrado questo, pur di buttare addosso la colpa ai clericali, si vuole continuare nei comizi e sui giornali la politica della menzogna, alla buon’ora, i nostri deputati non hanno nulla da temere. Se si vuole ricominciare la campagna, comizi preparati a far il giuoco degli incoscienti si troveranno di fronte ad altri comizi, come fu fatto recentemente. |
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| 01901-1905
| [...] Gli amici m’hanno detto: «Tieni un discorso popolare, dell’accademia gli uditori sono stucchi e ristucchi». Ed ho risposto di sì, anche perché io stesso, almeno in teoria, sono nemico acerrimo dei cosiddetti oratori elevatissimi, dei quali si sa dire, quando hanno finito, che son della gran brava gente, appunto perché non era stato proprio possibile di capirli. Cicerone era piuttosto tra questi ultimi ma noi invidiamo la fortuna di Demostene, perché la chiusa delle sue filippiche era coronata dall’entusiastico grido: «guerra, guerra a Filippo!» Così oggi, sia pure ch’io non sono Demostene né voi gli ateniesi, vorrei tuttavia che alla fine del discorso non dobbiate dire: «Veramente ho capito poco, un bravo oratore però!». Ma invece che siate condotti a dire: «Le ha dette giuste, convien proprio fare così!». Una cosa però non hanno precisato i colleghi di direzione: s’io dovessi cioè tenere questo discorso popolare al popolo in nome loro o viceversa se avessi a parlare in nome del popolo agli studenti. Mi perdonerete, quindi, se, per cavarmi d’impiccio, parlerò un po’ agli uni e un po’ agli altri. Se vi sarà qualcuno che a un certo punto non comprenderà, stia tranquillo; in quel momento non mi rivolgo a lui, ma ad altri. Studenti e popolo Questa mattina al vedere tanta piena di popolo che ci accompagnò qui quasi in trionfo, mi tornava alla memoria un dialogo breve ch’io ebbi al congresso di Caldonazzo con un professore universitario della Germania . Il professore, avezzo a vedere gli studenti aggirarsi in quell’atmosfera di birra e di fumo, già descritta dalla Stael , guardava attonito a tutto quell’affollarsi di popolo sotto le loro bandiere, a quel confondersi di tutte le classi cogli universitari. Veda, interruppi allora la sua esclamazione di meraviglia, il popolo è grato agli studenti! Gli studenti hanno dichiarato d’essere col popolo e per il popolo. Le opere non hanno smentito le promesse, e il popolo se ne ricorda. Così dicendo, accentuavo un punto fondamentale del nostro programma. La storia nostra è breve. Venuti su, quando nel campo studentesco era già sorta un’organizzazione, noi, un manipolo appena, ci trovammo subito di fronte a buon numero di antichi discepoli o amici. Era l’ora, in cui la tendenza di dirigersi al popolo ringagliardiva nei giovani cuori: l’urto era inevitabile. Ricordate i destini del Faust? Il Faust, stanco di sé e della vita di piacere, gettò un giorno lo sguardo sul mare, lo vide sterile esso medesimo, divenire fattore di sterilità per le terre, suoi confini una volta, ora sommerse o ridotte a micidiali paludi; e decise in cuor suo di ricacciare entro se stessa la prepotenza del mare, di risuscitare alla verde vita le terre morte. Il piano grandioso, venne eseguito, innumeri braccia umane scavarono canali, alzarono dighe, strapparono giorno per giorno all’elemento divoratore nuove conquiste e in breve Mefisto può mostrare a Faust una verde distesa di prati e di campi là dove prima stagnava l’acqua morta. Ma il Faust non è contento ancora. Lassù, sulla collina, baciata dal mare, sotto i tigli sta una capanna baciata da due vecchietti, e più in là una cappelletta, santuario dei poverelli, e speranza un tempo dei naufraghi. Il Faust vuole anche la collina, la vuole per compire i suoi piani, ma i due vecchi non vogliono abbandonare la zolla avita, e il Faust, padrone del mondo, sente ogni giorno la squilla argentina e il profumo dei tigli venirgli a ricordare nel suo palazzo l’ostinazione del povero. Una notte serena, il demonio Faustiano Mefistofele, mette in fiamme capanna e chiesa, e i vecchietti vi vengono arsi dal fuoco. Perché vi ho ricordato l’allegoria di Volfango Goethe? Il Faust è l’umanità moderna che, infatuata di quello ch’ella chiama progresso, si precipita inanzi seminando sul sentiero cadaveri, e l’uomo trascinato da un’idea nuova, indiscutibile, che calpesta i sentimenti conservativi, è il pazzo che condanna irremissibilmente e totalmente il passato, per imporre un avvenire, creato dalla fantasia e dalla sua ambizione. Così erano quelli studenti che dieci anni fa dichiaravano di fare del Trentino una bragia rossa. Per loro il Trentino passato non era che il paese degli errori, delle menzogne convenzionali, delle infamie. E il loro avvenire che volevano imporre colla spada e col fuoco, era tolto di peso da paesi stranieri era impastato delle idee, chiamato socialismo. Che eri mai tu, o popolo trentino ai loro occhi? – Mandra di pecore sotto le sevizie di pastori superbi e ignoranti, ciechi brancolanti nelle tenebre. La secolare catena delle tue tradizioni doveva venir spezzata e tronca per sempre. Per il popolo e col popolo Non così noi, o signori! Anche la nostra associazione, appena nata, si rivolse al popolo. Ma noi venivamo anche dal popolo, e, attraverso i solchi bagnati dal suo sudore, e a traverso le selve risonanti i colpi delle sue asce avevamo ascoltato la sua voce sincera, intonante una fervida preghiera ed eravamo caduti in ginocchio con lui, mentre le campagne dai nostri gioghi alpini mandavano giù giù per la valle il loro richiamo. Siamo tutti fratelli di Cristo! Ecco la prima espressione della nostra democrazia. La nostra azione popolare doveva basarsi sulla continuità della fede e dei buoni costumi. Noi ci siamo guardati d’attorno e abbiamo ammirato le nostre superbe cattedrali, i nostri santuari, le croci splendenti sulle torri della città, le croci enormi piantate sulle cime delle nostre alpi, e abbiamo sentito che esse non sono semplici testimoni del passato, ma che sono promesse, profezie per l’avvenire. I cattolici hanno piantato le tende sul campo del Trentino storico e chi ha per sé la storia di un popolo, ne ha in mano anche le sorti future! Non altrimenti avvenne già entro questo breve giro di tempo. Quei giovani che volevano distruggere le antiche capanne e le chiese o sono degli uomini stanchi e disillusi o, ridotti alla semplice negazione di tutto, sentono già, come il Faust, lo scricchiolio delle zappe delle Lemuri che scavano la fossa, dove seppelliranno la loro vita pubblica. Le relazioni invece del popolo coi nostri studenti si fecero più intime. Noi vivemmo della vostra fede fortissima, voi aspiraste il nostro entusiasmo. Io vi riconosco, o visi abbronzati dal sole, vi rivedo, o bandiere della buona battaglia! Con voi abbiamo acclamato le prime volte alla democrazia cristiana, sotto di voi abbiamo attraversato le città e le valli in nome del vangelo, con voi e sotto di voi, uniti in un sol pensiero, abbiamo trascinato dietro la fiumana dei dubbiosi, verso la croce. Qualcuno mi rimproverava oggi che gli studenti cattolici non votino, come altri, lapidi e monumenti ai nostri grandi. Lasciali fare, ho risposto, i nostri erigono nel cuore del popolo un monumento più duro della pietra, più longevo del bronzo. La scienza sola, ha scritto in un sonetto pochi giorni prima della sua morte, Lope de Vega , non esca che nebbie pel capo, è il cuore, l’amore che ci vuole. Sì, o amici, l’amore grande a Cristo, alla nostra patria infelice. Quest’amore fu grande in voi negli anni trascorsi; non venga meno nell’avvenire! La ripresa La relazione del nostro presidente m’ha detto che s’è lavorato anche quest’anno. È vero, ma l’azione pro università, – una questione triste, su cui in un giorno d’entusiasmo non voglio parlare – ha distolto un po’ la nostra attenzione dalla propaganda popolare. Ebbene, ripigliamo il cammino, o amici, coll’entusiasmo primiero, colla fede antica nel cuore. Nulla è mutato, né i presidii né le benedizioni ed approvazioni di un giorno. Nelle nostre società operaie freme il desiderio della ripresa; a che tardiamo? E perché non si dica che ci cacciamo in questo lavoro con la presunzione di giovani ricordiamo pure che noi non siamo che una parte dell’esercito che avanza e che è più facile criticare che fare. E qui l’oratore racconta popolarmente, fra ilarità generale, la parabola di Hans Sachs su S. Pietro e la capra. La morale gli serve per ripigliare come segue. Al lavoro dunque con tutte quelle cautele che ci preserva dalle frasi vuote, dalle pose inutili, al lavoro, che esca in noi e nel nostro popolo una coscienza positiva. Promettiamolo qui e oggi, amici e colleghi, di fronte a questo popolo industre, di fronte a questo castello diroccato, testimonio d’una gente non serva, ma fattrice dei propri destini. Gli anni che verranno sarà tempo di battaglia, le nostre energie giovanili cozzeranno giorno per giorno coi tempi ostili. Che importa! Siamo con Cristo e il suo popolo. Andiamo! Il discorso del d.r Degasperi ascoltato con grande interesse viene spesso applaudito dal numerosissimo pubblico – un migliaio di persone – che si assiepavano e si pigiavano fino oltre l’ingresso e sulle finestre. [...] |
75c1e1ca-195a-4260-bc9d-97eda0af99f0 | 1,905 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| Siamo arrivati dunque all’apoteosi di Vienna e di Graz. I «nullisti» pur di combattere la facoltà provvisoria a Trento, magnificano le città universitarie tedesche. Il nostro Dante non vale l’Hammerling di Graz e il Grillparzer di Vienna. Si vuol proprio tornare a quei tempi beati, nei quali i legali, dimenticavano la lingua materna e non imparavano la tedesca, tanto che, come scriveva il d.r F. M. nel ’96 «dopo aver studiato tedesco per sett’anni in ginnasio – ed amoreggiato con le bionde cameriere per altri quattro all’Università, non capivano ancora il testo tedesco del Bollettino delle leggi». Vi si ritorna non con rencriscimento ma come a nuove conquiste rimangiandosi tutte le invettive lanciate un tempo contro le università teutoniche e tutte le querele sull’isolamento che gli italiani patiscono a Graz e sul Danubio. Sentite come si pensava un tempo della posizione dei nostri studenti alle università tedesche, che al comizio di Riva trovarono un patrocinatore. Il sig. Italo Scotoni , facendo nel III congresso degli «studenti trentini» la relazione sulla questione universitaria, esclamava: «Dove sono andati tutti i sogni fatti nei ginnasi, tutte le speranze di uscirne per correre tosto alla sorgente della vita intellettuale, e attingervi le cognizioni più forti, più adatte alla nostra natura? Ahimè! Tutto delusione, tutto scoraggiamento, tutto affanno. Voi ben lo sapete, voi che facilmente vi potete rammentare la fiducia colla quale siete partiti per le università tedesche, trovandovi isolati, senza compagni, senza amici tra gente sconosciuta! A questo aggiungerete poi la delusione, lo scoraggiamento dal quale vi sentivate sopraffatti nel vedere la difficoltà dell’apprendere qualche cosa da quelle lezioni in lingua straniera...». Così si pensava e si diceva nel ’96 e così si pensa pur oggi, ma si dice altrimenti, e si tacciano di traditori e di Krumiri coloro che si contentano di assistere alle capriole e alle pagliacciate altrui, anziché di farle assieme. No, no, o signori, la cosa non sta punto come date a bere voi. Il «Trieste o nulla», non solo non è esistito mai nelle decisioni dell’Unione parlamentare né nelle speranze ufficiali di Rovereto, né negli ufficiosi desideri di Trento, ma un tempo nemmeno nelle risoluzioni degli studenti. Si vede, per esempio, l’ordine del giorno accolto nel III congresso, essendo presidente il d.r Piscel e segretario il d.r Battisti. Gli Studenti Trentini: «mentre riconoscono che dato il triste stato di cose attuale, anche un miglioramento parziale e segnatamente l’istituzione singola di qualsiasi facoltà italiana sarebbe un vantaggio, credono doveroso dichiarare la loro ferma convinzione che, davanti al complesso di mali cui si deve riparare, tali provvedimenti non sarebbero che dei rimedi unilaterali. Affermano quindi ancora una volta il diritto anche in base alle leggi fondamentali dello stato all’unico rimedio generale che sia in mano di esso, cioè all’istituzione di una completa università italiana». Dov’è qui il «Trieste», dov’è «il nulla»? E non si dichiarava «qualsiasi facoltà italiana un vantaggio»? Con queste premesse e con tali tradizioni c’è chi a Malè s’è preso l’incarico di attaccare – un po’ donchisciottescamente a dir vero – gli studenti cattolici, i quali hanno fatto tutto il loro dovere nelle lotte universitarie, ma che vogliono essere coerenti, seri, e lasciar la parte di burattini ad altri. È forse inutile il rispondere. Ma una cosa vogliamo accentuare ancora. Se noi e gli studenti cattolici abbiamo fede ancora in una facoltà a Trento gli è perché serbiamo ancora intatti gli ideali della nostra storia, gli è perché abbiamo ancora fiducia che il nostro paese sia capace di risorgere per forza propria. La facoltà ci potrebbe mettere nelle condizioni che s’augurava un giorno (vedi III annuario degli «Studenti Trentini» ) il prof. Menestrina: «la vecchia civiltà latina dovrebbe incontrarsi in amplesso felice con la grandiosa coltura moderna del ceppo anglogermanico», e noi potremmo essere «mediatori fra le conquiste dell’osservazione lenta, instancata, scrupolosa del settentrione e le idee geniali, le sintesi ardite del mezzogiorno». Noi salviamo dunque quanto resta di meglio delle nostre tradizioni, e non ci toccano davvero i vostri rimproveri e le vostre accuse. Questo diciamo ai «nullisti» e ai nikilisti di ogni specie. La vostra commedia dovrebbe essere all’ultima scena. Claudite iam rivos, pueri; sat prata biberunt! |
5513f59f-6373-4f7b-9b49-92f7721c26fd | 1,905 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| Il motto radicale ha trionfato anche questa volta! Il motto «o tutto o nulla» ha avuto la sua risposta! Quale? Quale era preveduta da tutti i benpensanti. I deputati italiani attaccati ancora alla insana politica domandarono alla Camera viennese la cancellazione dall’ordine del giorno da pertrattarsi nella breve sessione attuale, della proposta per la Facoltà giuridica italiana. Questo era l’agire logico dei promotori del «tutto o nulla». – Il «tutto», cioè Trieste, non si può avere –. In questo senso la Camera si pronunciò nella scorsa sessione, bisognava dunque pregare per avere la seconda parte, vale a dire il «nulla». Che rispose la Camera? Che disse il Governo? Si disperò forse? Scongiurò forse gli italiani di desistere dal loro proposito? Tutt’altro! La Camera accolse a braccia aperte la domanda degli italiani. I pantedeschi – i nemici d’una volta! – si congratularono e lodarono gli italiani per il loro agire. E non basta per i politicanti da strapazzo l’approvazione dei nemici? Il Governo, manco a dirlo, soddisfece gli italiani, contento in cuor suo di aver di fronte agli stessi se non altro una volta fatto bella figura col venire incontro ai loro desideri. Dunque, il Paese può rallegrarsi: ha le lodi dei pantedeschi, e, quello che più importa, ha ottenuto quello che da lungo tempo domandava: il... «nulla»! Questa la conseguenza di una politica insana. Lottare per cinquant’anni per tornare da capo, per restare con un pugno di mosche! Che ne avverrà adesso? quando arriveremo di nuovo alle condizioni che furono rifiutate? In cinquant’anni forse? Se si vuol badare all’esperienza, non c’è da ridere nel dire ciò. A quante riflessioni non si presta mai la frase pronunciata da quel deputato boemo all’udire la proposta degli italiani: Questi italiani si permettono dei lussi! Sì, veramente dei lussi si permettono i nostri radicali, a spalle del Paese, a spalle della maggior parte degli studenti, che non sono figli di grassi... borghesi dagli scrigni ripieni di napoleoni d’oro, ma di operai, di contadini che li mantengono agli studi a forza di sacrifici, di stenti, e che quindi questi poveri diavoli non possono perdere il tempo in agitazioni, in lotte partigiane, ma devono badare al solido, ma devono cercar di finire gli studi il più presto, per togliere l’aggravio alla famiglia! Sarà l’ultima maronata che faranno i nostri radicali? la risposta sta nella buona volontà, sta nelle mani del Paese che suda e lavora, nelle mani di chi deve portare le prime conseguenze degli sbagli altrui. Non aggiungiamo di più. |
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| 01901-1905
| La Dieta del Tirolo è convocata per il 16 corrente e verrà chiusa, se avrà vita regolare, e stando a notizie non ancor confermate, circa ai 20 di novembre. Oggetto primo ed urgente di pertrattazione sarà la riforma del regolamento elettorale in senso democratico . Questo è almeno quanto devono esigere gli italiani, i quali troveranno alleati i cristiano-sociali ed entro certi limiti non riluttanti anche i conservatori. In parecchie Diete – prima fra tutte quella dell’Austria inferiore, ove l’avvento al potere dei cristiano-sociali portò la riforma – s’introdusse una curia corrispondente a quella generale del Parlamento e si aumentò il numero dei mandati. Nella provincia del Tirolo s’aggiunge alla tendenza democratica anche l’argomento dell’equiparazione nazionale a rendere urgentissima una riforma. Se consideriamo che i tedeschi posseggono 45 mandati e gli italiani soltanto 19, l’ingiustizia è evidente. Nella curia comune del grande possesso la maggioranza tedesca nelle ultime elezioni, valendosi della forza del numero tolse agli italiani anche quel poco che tradizionalmente era sembrato almeno un acconto di quanto agli italiani spetterebbe per diritto. È, anche necessario che venga tolta la sproporzione di rappresentanza fra i collegi dei comuni rurali e quelli delle città e borgate. Gli ultimi eleggono un deputato ogni quattordicimila abitanti, mentre i comuni rurali ne eleggono uno solo ogni trentamila. Un altro non senso è che non tutti i censiti comunali sono anche elettori dietali, tanto che in molti comuni ci sono dei censiti privi del voto per la Dieta, mentre altrove censiti minori godono di questo diritto. Infine, perché nelle città e borgate gli elettori possono eleggere direttamente i loro deputati, mentre nei comuni rurali si elegge per la trafila degli elettori eletti? L’esperienza ha dimostrato che le elezioni indirette non sono punto atte ad esprimere la vera volontà degli elettori. Il presente regolamento elettorale esclude poi dal diritto di voto tutti coloro che non contribuiscono colle imposte dirette al coprimento delle spese pubbliche. Ma chi ormai non ammette che anche questa classe di cittadini, la quale sente la ripercussione delle imposte dirette e porta il grave peso di quelle indirette, per non dire degli oneri della milizia, ha diritto di far sentire la propria voce nei corpi legislativi? È quindi urgente l’introduzione di una curia generale parallela alla quinta curia del Parlamento. Mosso da queste considerazioni l’on. mons. Delugan, presentò ancora l’anno scorso all’approvazione dell’adunanza generale dell’Unione politica popolare la seguente risoluzione: «L’adunanza chiede: che nella riforma del regolamento elettorale provinciale sia assicurata in ogni curia agli italiani un’equa rappresentanza; che sia concesso un conveniente aumento di mandati ai comuni rurali, e che sia dato il diritto di voto negli stessi a tutti i censiti comunali; che venga istituita una curia generale; che venga introdotto il voto diretto in luogo del voto indiretto». L’assemblea accolse ad unanimità questo conchiuso, ed è certo che in tal caso esso non era semplicemente l’interprete d’un partito, ma del paese intiero. Nessuno si opporrà ad una riforma richiesta dalla giustizia distributiva e dalla tendenza dei tempi. Che i rappresentanti del Trentino portino a casa, dopo la seduta dietale, l’attuazione di questa riforma, e il paese avrà fatto un passo gigantesco verso la sua vita autonoma. Il Tiroler di ieri, a proposito della prossima sessione dietale, porta un articolo inspirato per certo da un influente deputato cristiano-sociale. L’articolista spera anzitutto che la Dieta lavorerà, perché la «questione universitaria è stata sciolta secondo i desideri degli italiani». In quanto alla riforma elettorale il Tiroler promette senz’altro agli italiani l’appoggio dei cristiano-sociali, i quali, benché programmaticamente impegnati per riforme radicali accetteranno attualmente quanto il momento può loro concedere. Gli italiani inoltre – continua il Tiroler – vogliono che parte delle spese per i medici comunali, addossate ora per intiero ai comuni, vengano sobbarcate alla Provincia e allo Stato, e che anche questo postulato è condiviso dai cristiano-sociali. Giacché lo Stato molto pretende dai comuni in riguardo d’igiene, è giusto che esso contribuisca anche alle spese. Questa sarebbe una riforma che per i comuni poveri apporterebbe i medesimi vantaggi recati dalla nuova legge scolastica. |
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| 01901-1905
| La recente sessione della Camera austriaca fu, se si guarda al risultato pratico, infruttuosa. Ma toccava proprio a questa Camera quasi a testimonio della propria impotenza, risollevare un problema grave, la cui soluzione cambierebbe la faccia della monarchia. Questa Camera, la quale discusse tanto serenamente sul proprio dies irae, era stata prima il teatro per la parabola, punto matematica, di un bicchiere d’acqua: ma la solennità delle ultime discussioni parve ricordare i giorni dello Schmerling e velare la memoria dei maneschi argomenti in uso. Non furono che discorsi, ma parole che nella coscienza politica del popolo trovano l’eco medesima che provocano i fatti. Si era detto da anni, e si è ripetuto recentemente, che il suffragio universale eguale e diretto è la porta per la quale entrerebbe il popolo a folla, e mestatori e gazzettieri socialisti avevano predicato che quella porta era ostruita dal mostro nero e deforme del clericalismo, tanto che sulle piazze e nei cortei il grido: viva il suffragio universale! tirava con sé necessariamente quello di: abbasso il clericalismo! Questa tattica era seguita dai socialisti austriachi dappertutto, anche dove i nazionalisti – e fu caso raro – s’opponevano apertamente al postulato elettorale in nome degli interessi nazionali. Nella maggior parte dei luoghi però i partiti nazionalisti e liberali si dichiaravano in via di massima e in principio fautori del suffragio universale ed eguale, nella segreta speranza che altri fattori s’opponessero all’attuazione: e allora il trucco riusciva a meraviglia. Così nel Trentino la lotta per il suffragio universale non fu che un episodio della rude campagna anticlericale, e tanto ripeterono l’accusa vieta, che dei cattolici stessi qualcuno incominciò a credere che una riforma, per la quale s’impegnava l’anticlericalismo delle due parti, non potesse che essere anticlericale. Inutilmente i cristiano-sociali predicarono da anni la riforma elettorale: per le masse l’equivoco venne mantenuto ad arte. Ed ora noi, imprevedutamente, abbiamo assistito ad una discussione della Camera che ha messo le cose a posto: non il clero, non i clericali sono i veri avversari della riforma, ma i liberali. In una discussione seria e fatta perché qualche cosa avvenga, le dichiarazioni platoniche non valgono. Mentre Lueger, Morsey, Sustersic si dichiararono per la riforma radicale e il dr. Ebenhoch , cattolico conservatore, ripeteva i versi di Stauffacher nel Tell: «Crolla l’antico e nuova vita sorge dalle mine», i liberali si trincerarono dietro riserve ed eccezioni che negano la regola e chi non ebbe, come l’on. Hortis, il coraggio di nascondersi dietro frasi inconcludenti e stantie, confessò candidamente che in Austria al suffragio eguale si oppongono interessi nazionali. Noi non staremo ad esaminare ove questa obiezione rappresenti una vera causa e dove un pretesto, ma constatiamo che chi ostruisce la porta del suffragio è il liberalismo dei varii colori nazionali. Questa volta infatti l’oratore dei socialisti dovette polemizzare coi liberali, e la Arbeiter Zeitung deve difendersi dagli attacchi della sinistra liberale che le rinfaccia di voler creare una Austria, ove la quarta parte dei deputati sarebbe della Galizia. E già, nella polemica, si delineano due correnti le quali conducono ad un suffragio eguale... disuguale, universale, ma non di tutti. Il deputato Prade, un capo dei liberali tedeschi, propone l’introduzione del suffragio universale, ma coll’esclusione degli analfabeti. In questo modo i tedeschi manterrebbero la loro posizione privilegiata, perché secondo l’ultima statistica, in Austria tedeschi elettori, d’età cioè superiore ai 24 anni, sono 2.413.906, czechi 1.388.566, polacchi 912.118, ruteni 766.008, sloveni 283-584, serbo-croati 167.822, italiani e ladini 172.559, rumeni 44.067 e magiari 2.035. Di questi solo i tedeschi, gli czechi e gli italiani hanno quasi tutti gli elettori non analfabeti, mentre per gli altri popoli la percentuale degli analfabeti oscilla tra il 30 fino al 70 per cento! Anche l’Arbeiter Zeitung, venendo al nocciolo della questione, deve occuparsi del problema nazionale e per calmare i tedeschi, la sua aritmetica elettorale si complica e non si basa più sulle operazioni semplici. Per la demarcazione dei collegi elettorali, dice il giornale socialista, converrà creare una legge apposita. I collegi non sarebbero suddivisi semplicemente in base al numero, ma si avrebbe riguardo alla finanzialità, alla produttività e al consumo dei paesi, in modo che a un distretto toccherebbero più, all’altro un numero minore di deputati. Quest’idea di un giornale socialista, che non ha nemmeno il pregio d’essere originale, perché si può leggere nel noto libro di Rodolfo Springer sulla costituzione democratica dell’Austria, distrugge la frase socialista del suffragio universale eguale e diretto senza altre limitazioni. Constatiamo dunque oggi, senza discutere la cosa in sé, che il recente dibattito parlamentare è servito a due cose: anzitutto a stabilire che la campagna elettorale non potrà più ragionevolmente essere fatta in nome dell’anticlericalismo e poi a dimostrare ancora una volta quanto valgono per gli stessi propugnatori loro le parole e le frasi d’ordine, quando tolte fuori dai facili entusiasmi della piazza, vengono a cozzare colla complessa realtà delle cose. |
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| 01901-1905
| Sanno nulla i lettori? Il partito liberale è tutto sossopra: chi piange, chi grida, chi fa prediconi dalle colonne dei giornali del partito per scongiurare un pericolo, una rovina, che sovrasta sul Trentino. Perché? Che è successo? All’ultima ora – noi non potemmo nemmeno annunziarlo in tempo – la direzione dell’Unione politica popolare, ha proclamato candidato alla Dieta per le borgate di Fondo, Cles, Mezzolombardo, Lavis e Cavalese nientemeno che il dr. Lanzerotti , il capitano dei quarantamila cooperatori! Sicuro! – si pensò –; se buon senso regna ancora fra gli elettori che sanno distinguere il lavoro dalle chiacchiere, se vogliono un vero rappresentante del Trentino laborioso, voteranno per il dr. Lanzerotti: e lo si propose. Notate bene che lo si propose in un collegio che fu sempre dei liberali. La risposta non tardò. Lunedì il telegrafo portò a Trento dalle varie borgate la notizia che il dr. Lanzerotti era riuscito con una grandissima maggioranza contro i candidati liberali. Immaginarsi lo sgomento e la confusione nel campo avversario. Noi del Fede e Lavoro dobbiamo rallegrarci più di ogni altro per la vittoria del dr. Lanzerotti. Diciamo vittoria sua, perché oltre che una vittoria del partito in cui milita, fu anche una soddisfazione per noi, contro gli attacchi vili e bassi degli avversari, un attestato per la sua attività in favore del popolo trentino, un incoraggiamento a continuare con più lena sulla via che si è tracciata. I nostri contadini, i nostri operai avranno in lui un valido sostegno, un difensore ardente. Egli leverà alta e forte la sua voce in favore dei loro interessi. Ricordano i lettori? Nell’occasione del noto processo contro lo Zuccalli, l’avvocato del dr. Lanzerotti disse: – signori, dinanzi ad un uomo che ha esplicato tanta attività per la patria sua, quanto il dr. Lanzerotti, appartenga egli a qualunque partito, io mi levo rispettosamente il cappello! La risposta venne a dargli ragione. Lunedì gli elettori delle borgate glielo levarono rispettosamente e gli dissero: «Va, sei degno di rappresentare i nostri interessi!». Onore a loro! Amici, avanti, alla conquista! Abbiamo incominciato a raccogliere i frutti del lavoro di dieci anni; si è iniziata la raccolta della nostra semina che da anni abbiamo continuata. Non illudiamoci però, non culliamoci in sogni doro! Raccogliamo pure senza esitare, ma per questo non tralasciamo di seminare ché guai a noi! Incoraggiati dai primi successi dell’Unione politica popolare del Trentino lavoriamo ad aumentare la sua importanza. Facciamo sì che le schiere dei cooperatori si inseriscano in essa numerose e seguano così nella marcia trionfale il loro capitano! |
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| 01901-1905
| L’allargamento del suffragio è il problema che la Dieta si è proposta di risolvere , e la questione della riforma fu ed è, malgrado le ciance dei giornali «ben informati» il perno su cui la Dieta gira o... non gira. La Dieta ha ora il suo centro di gravità nel comitato costituzionale, e ciò dopo un breve spostamento in quello scolastico. Il comitato ha lavorato sotto la pressione della popolarità della riforma e dal compromesso dei diversi partiti è risultata la relazione Grabmayer che più sotto pubblichiamo . Amici sinceri dell’allargamento del suffragio, noi salutiamo con piacere questa riforma, benché lo spirito democratico vi soffi ancora troppo debolmente e la casa che si ristaura mostri ancor troppo dell’irrazionale e del barocco antico. Tenuto conto tuttavia del momento, i diversi partiti hanno potuto raggiungere l’accordo su quei punti che noi già primi dall’apertura della Dieta abbiamo indicato come raggiungibili. Con soddisfazione poi vedranno gli italiani che nel progetto è compresa anche la divisione del grande possesso in due curie nazionali. È questo uno dei postulati degli italiani e dopo tanto tempo sarebbe questa la prima concessione nazionale. Nulla ancora è certo, né le sorprese sono impossibili . Molti non vogliono sinceramente la riforma e vedrebbero volentieri che gli italiani si assumessero di fronte alle classi popolari l’odio d’essere la pietra d’inciampo. Costoro tentano di mettere gli italiani di fronte ad un dilemma impossibile. Speriamo che non ci riescano. La prossima seduta è lunedì, ma la riforma elettorale verrà discussa nel plenum probabilmente soltanto martedì. Gli italiani non avranno nessuna ragione di opporsi alla discussione generale. La divisione del grande possesso è una concessione, piccola forse, ma pur una concessione dopo tante ripulse, è come la porta che ci apre una nuova era costituzionale ove forse alle nuove energie sarà più facile trovare nel lavoro comune la via della giustizia e della pace. Nella discussione verrà esposto naturalmente anche il punto di vista del governo, il quale in via di massima non è contrario alla riforma. È probabile che il compito del Luogotenente si limiti a cercare una certa equazione fra i nuovi mandati rurali e cittadini, perché i signori di Innsbruck sembrano tutt’altro che contenti di quanto il comitato ha loro concesso. |
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| 01901-1905
| Il masso si muove, la questione della riforma elettorale si avvia alla soluzione. Una volta sorta in Parlamento, non muore più. È vero: essa ebbe all’istante una fine infelice. Le nazioni meno numerose, temendo che il suffragio universale, puro e semplice, le mettesse in balia degli avversari, le diedero tutte unite il tracollo, e fra i timorosi erano specialmente gli italiani adriatici che vedevano nel voto uguale un pericolo di sopraffazione slava; ma l’ingiustizia del presente sistema, proclamata in pieno Parlamento da cattolici, da parecchi liberali e da socialisti, messa a nudo nei comizi da persone dai principii affatto diversi ed opposti, non regge all’impeto e cede. Il Governo stesso annunzia che è al lavoro. Non precisa i suoi criteri, ma si capisce che, se appunto per le difficili condizioni nazionali dell’Impero, difficilmente sarà adottato il suffragio universale, uguale e diretto, che sarebbe l’idea della meta, tuttavia le sue proposte cercheranno il massimo avvicinamento allo stesso. Ecco infatti il comunicato ufficioso della Wiener Abendpost: «La Camera dei deputati, nel recente scorcio di sessione, si occupò quasi esclusivamente della riforma elettorale. Chi non si limitò a tener conto del risultato della votazione formale, ma seguì con attenzione il corso del dibattimento, dovette persuadersi come nel Parlamento sia diminuita molto la resistenza di massima – tempo addietro gagliada – contro un’ampia riforma delle basi del diritto elettorale, e come oggi e il Parlamento e la maggioranza dell’opinione pubblica vi sieno essenzialmente favorevoli. Il Governo non poté non riconoscere tale fatto e per quanto grandi sieno le obiezioni e le difficoltà contro cui cozza in Austria l’attuazione pratica del postulato del suffragio universale diretto e, uguale, dovette, appunto perciò, studiare più profondamente i problema delle condizioni alle quali si potesse tener conto del desiderio di una forma elettorale corrispondente alle condizioni di sviluppo della vita pubblica. Non si può pure non riconoscere che questo desiderio ebbe appoggio importante dagli avvenimenti in altri Stati. In Austria non si tratta dell’applicazione di una semplice formula; si devono invece considerare vari punti di vista, se non si vuole che la transizione avvenga con scosse politiche troppo violente. È lavoro questo che abbisogna ponderazione tranquilla e scrupolosa, cosa provata dai molteplici e diversi progetti, proposti anche da persone favorevoli incondizionatamente al suffragio universale, sul modo di applicarlo praticamente ne suoi particolari. È indispensabile per compiere questo lavoro innanzitutto che la vita pubblica si mantenga calma, giacché esso non può essere fatto durante le vivaci agitazioni popolari. Gli avvenimenti delle settimana scorsa – e particolarmente quelli di Vienna – impongono di rilevare espressamente tale circostanza e di richiamarvi l’attenzione di coloro specialmente che con maggior ardore propugnano un’ampia riforma elettorale, pel fatto che la sua sorte sta in parte nelle loro mani. Se il Governo tende a promuovere il postulato di una riforma del diritto elettorale corrispondente ai tempi, e ad attuarlo, esso ha pure dovere di non permettere che si turbi l’ordine a causa di futuri mutamenti del diritto pubblico e di frenare le agitazioni e le ribellioni contro le leggi, simili a quelle avvenute di recente. Nell’agitazione, che riempie le vie, devono essere distinti il momento politico dalla violenza e dalla illegalità. Il Governo non limiterà l’agitazione politica, né le discussioni nei giornali, né le discussioni nei comizi, ma l’agitazione politica per qualsiasi riforma elettorale deve mantenersi nei limiti della legge e non dare motivo a nulla che possa avere per conseguenza disordini. Non devono avvenire né sedizioni, né incitamenti contro l’ordine pubblico, e il Governo è risoluto di procedere con tutti i mezzi contro tali eccessi dannosi, che diminuiscono il prestigio dello Stato. Chi vuoi lavorare per lo sviluppo politico, per il perfezionamento del diritto elettorale e per il suo ampliamento, servirà meglio a questo fine se adopererà il suo ascendente per impedire fatti simili a quelli avvenuti purtroppo di recente. Sta nell’utile dei circoli della popolazione che desiderano la riforma elettorale di mostrare come essi sieno maturi politicamente, in tutti gli aspetti, al nuovo diritto elettorale. «Il Parlamento – e non la strada – è il luogo nel quale si deve decidere in proposito». |
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| 01901-1905
| Dunque la riforma è in incubazione. La quasi unanime condanna pronunziata nell’ultima seduta parlamentare contro il presente regolamento elettorale dell’Impero, ha prodotto i suoi effetti. Quel regolamento era il frutto della borghesia liberale tedesca che, nei tempi del suo fiore, quando disponeva di tali e tante forze da padroneggiare la Camera, aveva sognato di fondare il suo perpetuo dominio sul dualismo da una parte, sui privilegi e la geometria elettorale dall’altra. Ora il dualismo porta amari frutti in Ungheria, dove la crisi è ridotta al punto che, per abbattere la rivolta degli aristocratici, aspiranti alla semplice unione personale, il Governo stesso fa appello alle plebi, adescandole col suffragio universale. E per contraccolpo questa politica ha il suo effetto anche in Austria, e viene a dare un urto potente a quel sistema elettorale che un cattolico-conservatore, il capitano provinciale dell’Austria superiore, Ebenhoch, chiamò di recente, in piena Camera, un sistema di ingiustizia. Le varie proposte parlamentari per mettere tosto allo studio la riforma elettorale dell’Impero, caddero, per non aver raccolta la maggioranza qualificata di due terzi. Come accennammo brevemente ieridì, quelle che volevano il suffragio universale uguale e diretto adombravano le minoranze nazionali e gli stessi tedeschi che vedevano per quella porta entrare al Parlamento rinforzata la rappresentanza slava, già forte. Quella dell’Ebenhoch, che chiedeva fossero insieme assicurati i diritti nazionali, per togliere ogni possibilità di sopraffazioni, cadde per un puntiglio degli czechi. Ma il risultato formale della votazione non poteva creare illusioni. Se non con un voto compatto sopra una proposta concreta, certo con tante dichiarazioni e tante proposte s’era affermata una soverchiante volontà, che reclamava riforme. Si aggiunsero, negli ultimi tempi, le agitazioni pubbliche, che certo non possono fare a meno di avere una ripercussione, benché siano lungi dal raggiungere quell’importanza decisiva che il partito socialista vorrebbe loro attribuire, facendosi bello di un plebiscito parlamentare, nel quale la sua rappresentanza fu minima, e di complicazioni politiche, delle quali egli non ha nessuna colpa, né merito, ma che anzi partono da uno spirito nazionalista, tutt’opposto alla democrazia internazionale. Molto più influsso esercitavano ed esercitano invece le proposte di una riforma in base al suffragio universale, eguale e diretto, partite dalla Dieta dell’Austria inferiore, dove i cristiano-sociali hanno la maggioranza qualificata, e da parte dei cattolici popolari sloveni, che si sollevarono negli ultimi anni a grande potenza. Né i cattolici trentini nulla hanno a temere da simile riforma. Se i tedeschi dell’Austria inferiore e i cattolici sloveni insistono così energicamente per il suffragio universale, eguale e diretto, è perché hanno istruite, educate, organizzate economicamente e politicamente le masse popolari; e in esse hanno trovato un tesoro mirabile di fede ed energia, da sfruttare per il pubblico bene. Qualche cosa di simile, se non di eguale, è avvenuto anche fra noi. Il popolo, economicamente organizzato e sollevato a sorti molto migliori dai cattolici, sta saldo sotto il vecchio e sempre nuovo vessillo di Cristo. Solo è d’uopo fare un passo innanzi, istruirlo più e organizzarlo politicamente. Accanto alle cooperative di credito, di consumo, di produzione, improntate a spirito schiettamente cristiano, devono fiorire i circoli di lettura e le società agricole operaie cattoliche, dove il popolo venga preparato con utili letture e conferenze alla sua missione altamente civile; e le masse, così disposte, devono poi raccogliersi nell’Unione politica popolare, espressione del loro pensiero, strumento della loro forza. Il nostro lavoro civile, economico, politico deve ringagliardire di giorno in giorno, e questo devono procurare specialmente quelli che, uniti nella centrale di tutte le nostre società, hanno in modo speciale il compito di tener vive e far progredire le società locali. Così saremo preparati alle lotte dell’avvenire, e le riforme politiche potranno trovare in noi non dei ritrosi e rimorchiati, ma dei convinti fautori, che se ne faranno arma di progresso civile e morale. Vero che, per ora, difficilmente la riforma elettorale toccherà la meta del suffragio universale, uguale e diretto. Infatti, qualora i deputati venissero eletti in base allo stesso, calcolando un mandato ogni 61.000 abitanti, la Galizia con 7.320.000 abitanti manderebbe al Parlamento 120 deputati, ossia 42 più che al presente; la Boemia con 6.320.000 abitanti, 104, ossia 6 meno di adesso; l’Austria inferiore con 3.100.000 abitanti, 50, cioè 4 di più; la Moravia con 2.440.000 abitanti, 40, cioè 3 di meno; la Stiria con 1.360.000 abitanti, 22, 5 di meno; Il Tirolo con 850.000 abitanti, 14, 7 di meno; l’Austria superiore con 810.000 abitanti, 13, 7 di meno; la Bucovina con 730.000 abitanti 12, 1 di più; la Slesia con 680.000 abitanti, 11, 1 di meno; la Dalmazia con 595.000 abitanti 9, 2 in meno; la Carniola con 510.000 abitanti 8, 3 di meno; la Carinzia con 370.000 abitanti 6, 4 di meno; lIstria con 335.000 abitanti 5, non avrebbe cioè né guadagno né perdita; il Goriziano con 235.000 abitanti 4, 1 di meno; il Salisburghese con 195.000 abitanti 3, quindi 3 di meno; Trieste con 180.000 abitanti 3, quindi 2 di meno; il Vorarlberg con 130.000 abitanti 2, quindi 2 di meno. I tedeschi, evidentemente, perderebbero e guadagnerebbero gli slavi. Il Trentino, non ostante la forte diminuzione di mandati della provincia, conserverebbe il medesimo numero di adesso, pervenendogli 6 dei 14 mandati complessivi; gli adriatici avrebbero una diminuzione di 3 seggi, e di più temono che il suffragio universale, eguale e diretto, nuocerebbe alla rappresentanza nazionale italiana infliggendole nuove perdite. I polacchi sono poi contrari al suffragio suddetto, per non perdere il dominio di classe e di privilegio sulle masse che, munite di un’arma quale sarebbe il voto uguale e diretto, muterebbero faccia alla Galizia. Polacchi e tedeschi formano e formeranno il blocco potente, con cui il Governo dovrà fare i conti nel riformare il regolamento elettorale, in modo da non tagliare troppo sensibilmente le loro carni. A ogni modo una nuova aria spira dovunque, un nuovo orientamento politico si annunzia, e trarrà con sé conseguenze profonde anche nelle provincie e nei comuni. Forse, sotto la pressione dell’ora che passa, anche la Dieta di Innsbruck, in cui si discute la riforma elettorale, cederà alle domande di chi chiede maggiore giustizia nel riconoscimento e nell’esercizio dei diritti politici. E quello che vivamente auguriamo, e che del resto – velle aut nolle – dovranno ben presto concedere anche i partiti più restii, senza trovare nessuna gratitudine per una riforma non concessa, ma imposta. |
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| 01901-1905
| Un telegramma importantissimo che abbiamo stampato due giorni fa è rimasto per la ressa delle cose senza commento e sarà forse passato inosservato. Eppure in tempi più tranquilli la notizia avrebbe certo fatto rumore. Vi era detto laconicamente che l’Imperatore sanzionava le ultime leggi votate in tutta quiete recentemente dalla dieta morava. Queste leggi non sono altro che un modus vivendi stabilito fra le due nazioni che abitano la Moravia. Un breve intervallo separa quest’opera di pacificazione dai sanguinosi fatti di Brünn, i quali a loro volto non furono che un episodio di una lunga lotta fra due popoli, l’unico rapporto reciproco dei quali fu l’odio di razza. Pare un miracolo che dopo tali precedenti la dieta morava a enorme maggioranza abbia votata una nuova legge elettorale la quale assicura la maggioranza agli czechi, finora in minoranza e abbia poi votate le altre leggi che riguardano la divisione nazionale delle autorità scolastiche e l’uso della lingua presso le autorità autonome, le quali leggi formano un iunk tim colla riforma elettorale. Queste leggi significano che i tedeschi in Moravia hanno prudentemente ceduto le loro posizioni privilegiate, e che in cambio di ciò gli czechi hanno aderito al principio dell’autonomia nazionale. La divisione nazionale non può essere più completa. Ogni nazionalità possiede autorità proprie in tutte le istanze, e in quanto al sistema elettorale, essendo impossibile stabilire collegi elettorali, perché la popolazione è mista, si costituirono collegi elettorali nazionali ideali; cioè secondo un apposito catasto che contiene gli elettori non in ordine territoriale ma in ordine alla nazionalità a cui appartengono. In base a queste leggi può accadere che nel medesimo distretto, nello stesso comune, esiste, l’uno accanto all’altro, un consiglio scolastico e un circolo elettorale per ciascuna delle due nazioni. È facile comprendere quali enormi ostacoli abbia dovuto costare lo stabilire l’autonomia nazionale con simili precedenti e in condizioni così complesse. Tanto più grande è l’ammirazione per il felice compimento dell’opera. È naturale che i tedeschi della Boemia ne approfittino per opporre agli czechi che anche nel regno di S. Venceslao la pace nazionale, se sinceramente voluta, sarebbe possibile, e l’argomento più forte in loro favore è certamente questo: che l’autonomia amministrativa nazionale e i collegi elettorali nazionali, devono essere tanto più facili in un paese, ove le due nazionalità non sono mescolate ma divise territorialmente. Senonchè, dice la «Neue Freie Presse» gli czechi si sono intestarditi in una formula vuota: «l’unità del paese», e mettono sempre innanzi la parola terrificante: «sminuzzamento del complesso storico», dietro alla quale però si nascondono gli interessi di chi vuole dominare. Ed ora i lettori comprenderanno perché abbiamo dedicato un articolo alla questione morava. Il caso della Boemia è – mutatis mutandis – analogo a quello del nostro paese, solo che qui i tedeschi non si ribellano alle formule vuote, ma ne fanno uso essi stessi per i medesimi motivi che la «Presse» rinfaccia agli czechi. Leggano i lagni e le proteste dei loro fratelli in Boemia il d.r. de Grabmayer e quei partiti tirolesi che s’oppongono con tanto accanimento all’autonomia trentina. Vedano un po’ quei partiti che cosa pensino del dogma dell’«unità» provinciale i loro connazionali in alti siti. La «Landeszerreiszung» fu anche nell’ultima tornata dietale lo spettro che si volle far valere contro la divisione nazionale del grande possesso. Eppure anche in Tirolo dietro a quello spettro non si nasconde che la voglia di predominio e l’attaccamento all’egemonia antica. Le idee però camminano e l’esempio della Moravia farà strada. Constatiamo anzitutto che anche la sinistra tedesca incomincia a familiarizzarsi coll’idea autonomistica. Il magno organo liberale infatti la «Presse» conchiudeva giorni fa un articolo sulle nuove leggi morave con queste parole: «queste leggi sono una nuova prova che la pace nazionale se sinceramente voluta è anche raggiungibile e che l’unica base sulla quale è possibile una convivenza pacifica delle nazionalità in Austria è la divisione dell’amministrazione, l’autonomia nazionale!». È ormai una confessione preziosa che l’evidenza dei fatti ha strappato ai più acerrimi sostenitori del centralismo tedesco. Certo che i tirolesi, come hanno fatto recentemente, opporranno che il Tirolo non è la Moravia né la Boemia, ma il principio dell’autonomia nazionale, una volta ammesso, una volta sancito, compirà trionfalmente il suo corso abbattendo tutti gli ostacoli. |
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| 01901-1905
| [...] I postulati dell’Unione La Direzione non ha voluto compilare un vero programma ma si è limitata, seguendo punti di vista pratici, alla fissazione di alcuni postulati che rappresentano il raggiungibile dell’odierna politica. Il relatore spiega e motiva ciascun punto, e si svolge un’animatissima discussione, i cui risultati riassumeremo brevemente così: Convien ben distinguere fra azione e movimento sociale e movimento puramente politico. Il primo è opera delle società operaie cattoliche, dei circoli di lettura e di tutte le associazioni consimili; il secondo si manifesta nelle adunanze espressamente politiche e nelle agitazioni elettorali. Per il movimento sociale l’adunanza fa voti che si mantenga il titolo di cattolico e di democratico cristiano, ed eccita i soci e gli aderenti a voler ravvivare coll’antico entusiasmo le organizzazioni cattolico-sociali, le quali restano la base indispensabile per la educazione delle coscienze e l’infusione dei principii sociali cristiani nelle masse popolari. La adunanza raccomanda che nelle società operaie-cattoliche e nei circoli di lettura si tengano spesso conferenze che valgano a mantenere saldi e immutati i principii del cattolicismo sociale o della democrazia cristiana. Per il movimento invece puramente politico l’adunanza dichiarandosi unanime d’accordo col relatore, decise che il titolo ufficiale del partito abbia a suonare: Partito Popolare Trentino. Il programma poi venne discusso punto per punto e con alcune modificazioni accettato. Al punto VII: «postulati agrari», riferì il m.r. don Panizza; anch’esso dopo larga discussione venne approvato. La seduta, che era stata sospesa alle 12 e ripresa alle 2, durò fino alle 6. Interessantissima fu la discussione sulla organizzazione da darsi alla società nelle vallate. Il m. r. don de Gentili raccomandò, che anche nelle adunanze della società politica ci si adoperasse per la diffusione della stampa; s’inculcasse inoltre essere sacro dovere dei cattolici di sostenere materialmente il comitato diocesano, il quale a sua volta è la società che mantiene la stampa e ne rende possibile lo sviluppo. L’oratore urge ancora che non si voglia disperdere le forze in altre imprese buone sì, ma non così importanti ai giorni nostri come la stampa. Ricorda l’esempio della Francia, la quale ha profuso somme immense in opere eccellenti, ma dove non si è sviluppato il movimento cattolico sociale e non ci si è impadroniti dell’opinione pubblica, coi danni che ora vede ognuno. Le parole del dr. de Gentili furono calorosamente applaudite. S’accettarono infine le proposte del dr. De Gasperi colle aggiunte risultate dalla discussione, per quanto riguarda l’organizzazione politica e il sistema di propaganda. |
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| 11906-1910
| Verso la fine del 1905 quasi tutti i deputati liberali al Parlamento ed alla Dieta pubblicavano un appello ai consenzienti del Trentino per la riorganizzazione del partito liberale. V’era detto che la cessazione del vecchio compromesso e la disgregazione del partito liberale nazionale rendevano necessario un appello alla concordia di tutti gli elementi liberali del paese. Si dimenticassero «le passate dissensioni per inaugurare un’era migliore di armonica attività per il trionfo dell’ideale comune, e per salvaguardare i fini supremi della causa nazionale». «Singole questioni locali» e «singoli indirizzi personali» venissero sottomessi alla ragionevole volontà della grande maggioranza del partito. L’appello terminava eccitando i liberali di tutte le tinte ad entrare nella vecchia «associazione politica nazionale» ed era firmato dall’on. Malfatti e dall’on. Silli , dall’on. Bellat e dall’on. Stefenelli Giuseppe , dal dott. de Probizer e dal signor D’Anna e così via dicendo. Lo scoppio dello sciopero ed altri avvenimenti ci impedirono allora di commentare estesamente l’importante documento, ed ora i commenti sono in ritardo. Tuttavia di fronte al nuovo appello dell’associazione politica nazionale e all’imminente congresso liberale conviene rifarci un po’ alle origini. Constatiamo brevemente. L’antica ditta «liberale-nazionale» parve in un periodo recente cancellata per sempre e sostituita dall’altra più nuova «liberale-democratica». Sotto questa ditta passarono gli uomini nuovi più risoluti, più mitingai, più parolai e soprattutto più ambiziosi. Si proclamò «la rude campagna anticlericale», lo «schiacciamento dei rospi»; nelle vie di Trento si fecero più cortei, si udirono più fischi, venne sguinzagliata la teppa e poi, preparato così l’assalto, venne conquistato il potere del Municipio, alla Dieta e al Parlamento. E poi... gli ingenui aspettarono l’attuazione di quel programma che si diceva differenziasse uomini vecchi e uomini nuovi. Gli ingenui aspettano ancora. L’accorgimento di un uomo al potere vuole che si dimentichi e che ritorni la quiete, perché la reale od apparente continuità d’indirizzo serva a non risvegliare odii ed invidie. I liberali democratici di Trento amano di recente accentuare più il primo nome della ditta che il secondo. Nessuno tuttavia, per quanto avvezzo ad assistere alle capriole liberali, si credeva in diritto di sospettare un pateracchio simile qual’è quello annunziato dall’appello degli onorevoli. Ma questo non è il pateracchio semplicemente, è una vera ristaurazione! Il nome, che ha già sapore storico, significa o l’una o l’altra di queste due cose. O che i liberali democratici finora hanno rappresentato una vera commedia cianciando di programma e di democrazia di contro ai liberali conservatori e in fin dei conti tutto s’è ridotto a dire: «Esci di lì, ci vò star io», o che l’imminenza delle elezioni fa smentire agli uni ed agli altri le proprie idee per amore dei «supremi fini nazionali», i quali evidentemente non sono che i mandati in pericolo. E forse si verificano tutte e due le parti del dilemma. Nell’appello degli onorevoli è detto infatti che tutto il gran vociare che s’era fatto a Trento di programmi e di democrazia non era che effetto «d’indirizzi personali» e «di questioni locali». D’altro canto lAlto Adige , commentando il proclama della Associazione politica nazionale promette la democratizzazione dell’Associazione stessa, il che vuol dire l’infiltrazione dei silliani, ossia non più una ristaurazione ma una rinnovazione. Sarà quel che sarà. A che rompersi il capo? I vecchi e i nuovi si stringono le destre e con l’espressione più ingenua si dicono l’un l’altro: «Che è stato? Un piccolo equivoco!» Ed ecco la «fine di un equivoco», come suona il titolo che l’Alto Adige mette in testa all’appello dell’Associazione politica. Sicuro, tutto un equivoco, signor Brugnara e signor Scotoni , un equivoco, cav. Gerloni , anche le celie del Malfatti con l’on. Körber! E che cosa non sarà mai un «equivoco» di fronte al chiaro «essere o non essere» dei mandati politici? Intanto, aspettando che l’elezione di domani la quale rinnoverà la direzione dell’Associazione politica segni davvero la «fine di un equivoco», ancora un’osservazione all’indirizzo dei nostri amici. Il partito liberale, comunque sia, riprende la sua attività anche nelle vallate, e la sua attività è diretta anzitutto a preparare le imminenti elezioni politiche. A questo lavoro che cosa opponiamo noi? Sono questi i mesi di propaganda, ma invano abbiamo aspettato l’annuncio di frequenti adunanze politiche di organizzazione. Qualche cosa s’è fatto, ma è assolutamente troppo poco. L’organizzazione ideale, popolare, che controbilanci giustamente l’influenza delle valli e le direttive dei centri manca ancora, ed è una verità dura e cruda il dover confessare che l’inverno, la stagione della propaganda, si lasci passare senza colpo ferire. Aspettate che il partito liberale si riorganizzi, che le elezioni vengano proclamate, e poi il vostro lavoro sarà doppiamente gravoso. Il partito popolare trentino ha un programma fisso e discusso ed accolto dai fiduciari della maggioranza del paese. Ma questo programma conviene spiegarlo e propugnarlo ovunque perché noi non contiamo né su congreghe di avvocati, né su circoli di borghesi pasciuti, ma sulle masse di un popolo, che vuol essere illuminato e mosso. Amici, il partito liberale si agita, perché teme il responso delle urne. Noi siamo sempre al nostro posto, il partito della cristiana democrazia, del giovane Trentino, dell’avvenire di questa terra amata. Senza titubanze, senza transigere mettiamoci al lavoro. Se lavoriamo, «la fine dell’equivoco» verrà, e sarà la fine dell’equivoco, in cui s’è trovato un popolo menato a naso per qualche tempo in nome del liberalismo più o meno dottrinario, più o meno piazzaiuolo, a seconda degli «indirizzi personali» e dei «supremi fini» dell’ambito potere. |
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| 11906-1910
| A proposito dell’articolo da noi pubblicato sotto questo titolo riceviamo da un paese dell’Anaunia la seguente lettera aperta: Lettera aperta agli onorevoli dr. Ioris , dr. Pinalli , dr. de Bellat, dr. Guella e d’Anna. Egregi e onorevoli signori! Sta dunque il fatto che l’Alto Adige ha aderito di cuore alla proposta che il dr. de Grabmayr ha fatto pervenire al Governo, di distribuire cioè nel Tirolo i mandati in modo che agli abitanti delle città venga dato un deputato circa ogni 25000 abitanti ed agli abitanti dei distretti rurali invece un deputato circa ogni 50000 abitanti. L’Alto Adige nell’articolo citato dalla Voce ha non solo aderito al principio che gli elettori vengano trattati malgrado il suffragio eguale, in modo disuguale, ma s’è dichiarato d’accordo, per quanto riguarda la formazione dei collegi elettorali, con le proposte dell’on. Grabmayr, secondo il quale nell’esercizio del voto mille abitanti delle città avrebbero tanto valore quanto 2000 abitanti del contado. Ora è noto che l’Alto Adige è o passa come organo del partito liberale trentino; ad ogni modo esso sarà certo l’organo dei partiti liberali riuniti, dopo che avvenne ciò che la Voce chiama egregiamente la «Ristaurazione», alla quale, se non erro, loro, signori, in persona od in ispirito hanno aderito. D’altro canto loro, signori, sono rappresentanti politici di collegi eminentemente rurali, vale a dire di collegi, ove abitano quelle classi, delle quali si vuol abbassare di una metà il valore politico. Troveranno quindi ragionevole ch’io a nome di molti elettori di questo collegio e interpretando certo i voti di tutti gli interessati, rivolga loro una domanda: Sono daccordo loro con la posizione presa dal dr. de Grabmayr e dall’Alto Adige riguardo la distribuzione dei mandati e il rapporto di disuguaglianza, che, malgrado la proclamazione del suffragio universale, dovrebbe essere statuito fra gli abitanti delle città e quelli delle valli? Ai signori deputati è certo noto che anche col sistema elettorale vigente la sproporzione è enorme. I comuni rurali in Austria mandano in Parlamento 129 deputati, le città 118 e le camere di commercio, cioè in fin dei conti, le città di nuovo, altri 21 deputati. Ebbene nelle elezioni generali del 1901 i 129 deputati rurali vennero eletti da 1.585.466 elettori, i 118 delle città da 493.804 i 21 deputati delle camere di commercio da 556 elettori. I comuni rurali avevano dunque il triplo degli elettori, ma dieci deputati di meno delle altre due curie assieme. Ma passi, ciò avveniva col sistema delle curie, ora però che questo sistema, chiamato da socialisti e da liberali puntello dei feudi e dei preti, sta per cadere, la borghesia liberale vorrebbe perpetuarne le ingiustizie? Loro, signori, alla Dieta si sono espressi tutti, a quanto diceva l’Alto Adige, per leguaglianza del voto, e l’on. Pinalli, per esempio, in modo molto energico e risoluto. Questa eguaglianza non intendevano certo si estendesse solo fino al Buco di Vela ma comprendesse anche gli elettori da loro rappresentati. È lecito però di chiedere che in qualche modo rendano pubblico il loro parere circa la formazione dei distretti elettorali, affinché, loro, onorevoli, che pur sono liberali, non vengano confusi coi politici ed i commedianti «de ’ntor al sass?» . Aspettando una risposta, mi segno un elettore a nome di moltissimi dall’Anaunia, 23. L’Alto Adige batte la ritirata e cerca di scansare la questione. Ma è inutile ricorrere a frasi e a proverbi quando i fatti sono evidenti. L’Alto Adige non può negare che l’on. Silli si è dichiarato pubblicamente e solennemente per il suffragio eguale senza distinzioni di sorta, d’altro canto non può negare d’essersi affrettato ad aderire alle proposte dell’on. Grabmayr liberale, nonché nobile feudale e tutt’altro che amico del suffragio eguale. Mentre però il de Grabmayr ha avuto la franchezza di dire che i motivi della sua proposta sono da ricercarsi nel desiderio di salvare il partito liberale, l’Alto Adige ha la mutria di dire che aderisce alle proposte dell’on. di Merano , dal momento che le ha fatte, altrimenti in via di massima sarebbe per il suffragio eguale. Come tutti non sapessero che il Governo ora sta sondando i partiti e la pubblica opinione, aspettando col compasso in mano di poter incominciare il lavoro geometrico della distrettuazione. Resta il fatto che in questo momento le dichiarazioni dell’Alto Adige rappresentano un compromesso fra liberali tedeschi e liberali italiani, a scapito della giustizia e contro le dichiarazioni precedenti. In quanto al numero dei mandati , osserviamo all’Alto Adige che noi abbiamo lasciato la questione impregiudicata e che abbiamo voluto ricercare qual partito qui fra noi e nella Provincia sia il partito dei commedianti e favorisca le intenzioni governative di salvare i deputati liberali tedeschi. Alle altre domande rispondiamo di buon grado: la questione della «residenza» da noi finora non è stata mossa; se lo fosse stato, avremmo risposto che per noi non può servire di norma la pretesa dei cristiano-sociali tedeschi, i quali partono da motivi nazionali che anzi appunto per questi, ci dovremmo dichiarare contrari . Del resto, l’Alto Adige è male informato anche per quanto riguarda i tedeschi, giacché solo la parte borghese e agraria dei cristiano-sociali chiede la residenza di cinque o due anni, mentre il partito indipendente dei lavoratori cristiano-sociali è per la limitazione a un anno. In quanto al nostro corrispondente, influentissimo deputato ecc., possiamo rispondere all’Alto Adige che è vero che egli della divisione in distretti rurali e cittadini, o no, non fa una questione di principio, come di essa, tale e quale, non faremmo questioni neppur noi. Ma è evidente che il dr. de Grabmayr vuole mantenuta la divisione, per poter poi ridurre a piacimento il numero degli elettori per le città, e questa è la questione grossa e di principio, in proposito alla quale ecco quanto scriveva il nostro corrispondente: «Noi intendiamo che l000 abitanti dei comuni rurali devano avere l’identico diritto che 1000 abitanti di città e borgate; e le proposte Grabmayr che vorrebbero dare due deputati alla città di Innsbruck e quindi uno per ogni 20.574 abitanti e invece ai nostri comuni rurali solo un deputato ogni 55.103 abitanti ci sembrano solo una provocazione ed una canzonatura! Noi chiediamo il suffragio universale ed eguale; ma lo vogliamo veramente eguale e perciò con lo stesso trattamento a italiani e tedeschi, a popolazioni di città e delle campagne! Le proposte Grabmayr quindi, che sono in così stridente contraddizione con tali criteri, non possiamo per parte nostra che recisamente respingerle!». Come vede l’Alto Adige la contraddizione c’è, ma non fra la Voce e il suo corrispondente, ma fra i principii di equità e le brame e le capriole di quella razza di democratici che è in scena a Trento. |
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| 11906-1910
| I. «La causa dell’umanità e della civiltà» L’Alto Adige di ieri dunque fa lo scandalizzato, perché noi vogliamo che la riforma governativa sia veramente il suffragio eguale, anche per quei poveracci di ruteni, ecc., e si domanda che avverrebbe a questo mondo della «causa dell’umanità e della civiltà». Viceversa dunque l’Alto Adige riafferma il suo punto di vista Grabmayrano che conviene avere riguardi alla cultura, al censo, alla civiltà, ecc. Con ciò l’organo democratico, senza voler ammetterlo, si schiera con coloro che «con artifici, ripudiati e ripudianti da ogni anima onesta», come scrisse Il Baldo, fingendo e dichiarando d’essere per il suffragio universale ed eguale, cercano di ristabilire sotto altre spoglie il sistema delle curie, contro cui vennero scagliate tante invettive; e, ripetiamo, viene a dar ragione ai tedeschi liberali e prepotenti. Come la pensino in proposito altri uomini del partito liberale, è prova il discorso che l’on. Pinalli tenne alla Dieta nell’ultima sessione e che, con parole di lode, venne integralmente stampato nell’Alto Adige, n. 257, 1905 . L’on. de Grabmayr aveva messo in campo contro il suffragio eguale anche la previsione che allora in Austria tutte le nazioni avrebbero avuto eguale valore e che un ruteno, un croato sarebbero valuti politicamente come un tedesco e un italiano. Ed ecco come ribatteva l’on. Pinalli: «Quando, o signori, si fa la leva militare, vengono forse chiamati a fare il soldato un ruteno, un croato e due tedeschi? Tutti contribuiscono allo stesso modo, tutti pagano l’imposta del sangue, tutti pagano le imposte indirette, tutti hanno quindi lo stesso ed eguale diritto di far parte della cosa pubblica. Ebbene venga quindi il suffragio universale, porti quella fratellanza, che è poi un cardine della divina religione di Cristo!». Noi ci siamo dichiarati per il medesimo principio, e l’Alto Adige ci rinfaccia il poco nostro «acume politico» . Et nunc erudimini. L’Alto Adige crede però d’aver scoperto un nostro tallone d’Achille altrove, accusandoci di mancato amore nazionale, perché con il suffragio eguale gli adriatici perderebbero alcuni mandati. E noi ripetiamo il dilemma già posto: o che il suffragio eguale, per il quale l’on. Silli e l’Alto Adige, in illo tempore si sono dichiarati senza distinzioni, corrisponde alle giuste esigenze dei tempi, e allora sia veramente tale dappertutto; o che nella riforma elettorale devono valere le considerazioni della cultura e del censo, e allora tali considerazioni devono venir applicate tanto alla nazione italiana, come vuole l’Alto Adige come a quella tedesca, ciò che nella sua coerenza l’Alto Adige non vuole concedere. Ma c’è di più. Noi, reclamando eguaglianza per tutti, sappiamo d’essere in pieno accordo col partito nazionale liberale triestino. Questo infatti nell’adunanza della «Patria» dei 19 novembre 1905 accettava ad unanimità il seguente ordine del giorno che l’Alto Adige riproduceva nel numero 265 : «L’Associazione Patria, riunita a solenne congresso allo scopo di esprimere ancora una volta il pensiero del partito nazionale-liberale, proclamò di aderire in modo esplicito ed assoluto a quello fra i postulati massimi di libertà e democrazia, che il diritto di voto per tutti indistintamente i cittadini rappresenta, e confida ed attende che tutto il partito sia nei consessi legislativi, sia nelle adunanze, sia nelle corporazioni, sia nella stampa, in ogni forma insomma di propaganda, cooperi alla vittoria definitiva di tale principio». Il deputato liberale on. Hortis, poi, sempre secondo l’Alto Adige, dichiarò d’essere per il suffragio universale eguale e diretto senza sotterfugi, senza cabale, senza artificio! Ebbene, signori dell’Alto Adige dobbiamo noi forse essere più nazionali del «Maestro» del grande Hortis, o dobbiamo ritenere che i liberali non rappresentano se non un’altra commedia politica, tanto per non smentire le antiche tradizioni? Ah! Burloni! L’umanità, la civiltà? Ma avete preso abbaglio, signori miei, la Lega democratica voleva dire, e questa invero se venisse compiuta giustizia, sarebbe un enorme progresso a... rovescio, ma la civiltà... la civiltà progredirebbe senza di voi e del dr. de Grabmayr! II. La «rappresentanza proporzionale» Come i lettori avranno visto, l’Alto Adige aggirandosi nel labirinto delle contraddizioni, arriva alla... rappresentanza proporzionale. Nelle elezioni politiche dunque i liberali democratici vorrebbero imperasse il principio di proporzionalità. Ecco, noi in principio, siamo d’accordo; ma ad un patto, signori miei, che voi siate primi ad introdurre il voto proporzionale nelle elezioni municipali di Trento. Ah! Voi vorreste il principio di maggioranza ove fa vostro comodaccio, e viceversa il voto proporzionale dove la maggioranza è d’altri. La proporzione dei voti liberali volete voi. Eh! sì, stareste freschi, se si introducesse il voto proporzionale davvero, voi, che nelle ultime elezioni dietali avete pigliato alcuni mandati di sorpresa con un numero miserabile di voti, e siete entrati in Dieta con la chiara coscienza che la vostra maggioranza era fittizia. I signori «rappresentanti del paese» temono ora che il principio di maggioranza che servì loro per tanto tempo a far «sotterfugi e cabale» non faccia più per loro, e s’attaccano al voto proporzionale, che Dio li salvi! La verità, sapete qualè? Voi avete predicato all’interno e all’estero che il paese è con voi, che voi siete la stragrande maggioranza del Trentino. Il sistema elettorale vigente infatti salvava almeno le apparenze. I ciarlatani politici lo proclamavano per le piazze, l’Alto Adige non incominciava un periodo senza il «noi e il paese tutto», e la gente ci credette per un pezzo. Ma ora che doveva suonare l’ora della giustizia e doveva venir dato ad ognuno il suo, e i principii, proclamati per tanto tempo dai liberali, dovevano venire praticamente attuati, i liberali hanno previsto che il falso verrebbe scoperto, che il popolo cristiano si sarebbe levato a spazzar via i farisaici democratici, allora si sono vedute le più grottesche capriole che mai si potesser immaginare. Oh! Ombre degli antichi patrioti, uscite dal vostro famedio ammirate i vostri posteri, nudi quasi delle ereditate spoglie e delle antiche tradizioni! Tutto hanno buttato a mare, e i principii di libertà e di sincerità politica e lo spirito buono della costituzione e l’amore alla terra vostra italiana, circa la quale vennero a transazione coi nemici. Tutto hanno gettato a mare per salvare il potere e i mandati, ed eccoveli nudi, quasi saltimbanchi sulle fiere. Li guardate tristemente meravigliati, vergognosi di tale figliolanza? Non è nulla; gli è che voi eravate liberali... dottrinari; costoro, invece, se non lo sapete, sono liberali... democratici! III. Il canovaccio della commedia A comodo del pubblico, eventualmente anche dei comici, i quali altrimenti potrebbero perdere, qualora ce ne fosse, il filo, riassumiamo un po’ lo svolgimento del dramma che i liberali democratici stanno rappresentando sulla scena politica. La commedia è, come dicemmo ieri, a soggetto, con recitazione libera. Soggetto: Il salvataggio dei mandati, ossia il trucco del suffragio universale. ATTO I Del suffragio universale non si parla che in teoria. I liberali sperano che se ne stia lontano e che sia solo un’«idealità». On. Silli (comizio pro suffragio universale) : «Dedicherò quanto io posso dell’attività mia all’idealità della riforma, come dichiaro solennemente che il suffragio universale, eguale e diretto, avrà sempre il mio voto sincero, deciso, assoluto». Il Pubblico radicaloide applaude. L’Alto Adige chiama il Silli «un egregio uomo». Piscel e Pasini «con parole vibrate» (Alto Adige) notano l’assenza dei clericali. Ensemble: Piscel e Silli si danno la mano. Il pubblico grida: Abbasso i preti! Evviva la Democrazia! Evviva l’Eguaglianza. ATTO II Il suffragio universale non è più lontano, l’attuazione non è improbabile. L’Alto Adige esamina i «progetti» e le «conseguenze» del suffragio universale. Tiene lunghe concioni ai polacchi e ai tedeschi sulla imprescindibilità dell’eguaglianza del suffragio. La libertà e l’eguaglianza sono spesso in redazione dell’Alto Adige ad inspirarlo. L’Alto Adige non ha paura e si consola così: «È inutile farsi illusioni; nella lotta politica, che – finora almeno e certo per degli anni ancora! – sè sempre fatta sentire in ogni tempo e in ogni luogo inesorabile la vittoria appartiene a chi è più forte – non per il numero, ma per coscienza dei propri diritti e del proprio potere e per intelligenza dei propri fini: la forza bruta, incosciente potrà ottenere qualche successo momentaneo, mai una vittoria definitiva» (Alto Adige, n. 271, 1905) . ATTO III Viene il suffragio universale, magari eguale. Grande sgomento nel campo liberale. L’Alto Adige dichiara venuta «la fine di un equivoco» ed invita i moderati a tener su le... ai democratici. I moderati nicchiano. On. Silli e C.i tacciono, ma hanno un gran da fare dietro le quinte. Grande confusione. Deus ex machina (on. Grabmayr); Ecco l’ancora di salvezza per noi e per voi, o liberali trentini; lasciate fare a me. Nella formazione dei distretti faremo in modo che 1000 liberali varranno tanto che 2000 clericali. Così noi salveremo l’egemonia tedesca, voi l’egemonia liberale nel Trentino. Alto Adige in grande giubilo, aderisce, poiché «vi sono talvolta diversità tali di interessi e di bisogni, che la parità di trattamento costituirebbe un danno palese» (Alto Adige, n. 9) . L’eguaglianza del suffragio per l’Alto Adige viene ridotta ai seguenti termini: Il pubblico si accorge dell’inganno e del trucco, si minacciano bastonate. L’Alto Adige diventa di tutti i colori dell’iride, accenna disperatamente all’on. de Grabmayr di ritirarsi dietro le quinte a far compagnia agli altri, tanto perché le cose non siano troppo palesi. L’Eco del Baldo: «Questi sono artifici, ripudiati e ripudiandi da ogni anima onesta». Alto Adige (di ieri sera), all’Eco del Baldo: «Tutti sanno che voi siete contro il suffragio universale, siete degli elettori privilegiati...». Succede un battibecco fra commedianti, che finiscono col bastonarsi. Il pubblico urla «abbasso la camorra», e sfolla commentando e rinunciando per intanto almeno, all’atto ultimo. Che cosa sarà questo? Chi dice che la scena finale sarà l’apoteosi dell’on. Grabmayr e della Lega democratica, la quale riceverà una curia propria. Il Governo ha per precetto: Ama i liberali e temi i socialisti. Il salvataggio dei mandati sarà compiuto. Noi avremo il suffragio universale liberale, diretto! |
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| 11906-1910
| Da molti si parla di democrazia cristiana, della sua propaganda, della sua azione, della sua finalità ma da molti e molti se ne ignora lo spirito, quale deve essere il suo terreno, quale il suo indirizzo, la sua disciplina per procedere ognora fedelmente concordi con lo spirito della Chiesa, coi criteri voluti dal Vicario di Cristo, perché senza essere unita con esso, sarebbe non edificare ma precipitare e condurre altri a rovina. È perciò che eccitiamo quanti amano il trionfo della nostra causa per adoperarsi di spiegare chiaramente a quanti più possono il nostro programma, innamorandoli delle nostre idee, mostrando loro le vie da seguire e le armi da adoperare francamente e coraggiosamente, ma sempre con serenità, manifestando solo l’amore della verità e del bene del popolo con Cristo. Quale momento più opportuno di questo per propagare le nostre idee? Per metterle al confronto con quelle dei falsi democratici? Una delle belle pagine del nostro programma è quella che riguarda il suffragio universale, di questo sacrosanto diritto che il popolo ha di prender parte alla vita pubblica, di scegliersi coloro che deve governarlo. Il tradimento dei liberali è palese. Essi si finsero amici del suffragio universale finché credevano che non venisse, finché s’illudevano che fosse lontano. Ora voltano baracca, e si mostrano quali sono: veri saltimbanchi dei mercati, per dirla con una frase della Voce cattolica. Approfittino dunque i nostri amici per mostrare e spiegare questa pagina del nostro programma: facciano agitazione per il suffragio universale, lo spieghino ai nostri contadini. Qualche cosa si è incominciato a fare, e il nostro deputato della V. curia, on. Mons. Delugan e il direttore della Voce cattolica, d.r Alcide Degasperi hanno iniziato un giro di propaganda in proposito: che essi trovino degli imitatori in ogni angolo del Trentino! fs. |
0bda2e26-65c3-41ea-b015-8294bc271fd3 | 1,906 | 3Habsburg years
| 11906-1910
| «Chi ha tempo, non aspetti tempo» dice un proverbio che se non è antico, è almeno più vecchio di me e i numerosi lettori della Squilla. Si ricordano i nostri contadini i bei articoli, le belle corrispondenze che fioccavano da una parte e dall’altra la scorsa estate in materia di «campagna bacologica» e forni essicatoi ? Allora, uno predicava da una parte, l’altro dall’altra: bisogna erigere forni essicatoi, se si vuole che i prezzi dei bachi si sostengano, se si vuole che il sudore dei nostri contadini sia giustamente ricompensato. Molti, nei loro scritti, invidiavano i nonesi e i roveretani, perché seppero procurarsi in tempo quel mezzo di difesa contro la speculazione commerciale . Come fu detto ancora, nel nostro Trentino, vi sono altre località dove starebbero bene i forni essicatoi: la val di Cembra, la Valsugana, il Perginese, le Giudicarie, ecc. ecc. Ora ci avviciniamo a gran passi alla bella stagione: siamo già entrati in febbraio e ognun sa che passato questo la primavera è alle spalle. Non vorremmo ci capitasse alle porte la stessa senza che nelle località sopra enumerate si sia fatto qualche cosa del genere. Bisogna pensarci seriamente, poiché la cosa lo merita davvero! Animo dunque! Ci pensino gli interessati, si mettano all’opera! Vorremmo che nella prossima campagna bacologica non ci toccasse pubblicare dalle località in parola, scritti come questi: «Bravi i nonesi, bravi i roveretani, poiché seppero procurarsi un potente mezzo di difesa dei loro interessi erigendi forni essicatoi... e noi?...» Il nostro desiderio sarebbe pubblicare come segue: «In tutto il Trentino bacologico si sono estesi, come una fitta rete, i forni essicatoi, potente mezzo di difesa dei produttori dei bachi da seta. I nostri contadini sono soddisfatissimi del nuovo esperimento e non possono che far voti che anche i loro compagni di lavoro fuori del Trentino imitino il loro esempio!» Capito?... Questo è il nostro voto più ardente, per bene vostro materiale, o contadini! E non mica che sia una cosa impossibile, sapete? Colla costanza, colla ferma volontà si può fare benissimo. La parola impossibile va cancellata dal dizionario, diceva quell’altro filosofo, e pel nostro caso ha pienamente ragione. Ripetiamo: «Chi ha tempo, non aspetti tempo!» fs. |
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| 11906-1910
| [...] La modalità del suffragio universale Quando il progetto del suffragio universale entrò nello stadio, come si dice, d’incubazione, si manifestarono subito due tendenze che miravano a distruggere in concreto il suffragio universale eguale, ammesso in teoria, e questo per mezzo di una distribuzione dei mandati tutta artificiale ed arbitraria. Mentre il concetto integrale del suffragio universale presuppone di per sé la formazione di collegi elettorali eguali per il numero degli abitanti, si tentò ora di creare delle distinzioni e delle eccezioni in favore del censo e della cultura. Il principio del suffragio per grado cacciato dalla porta entrava per la finestra, la disuguaglianza del singolo di fronte al diritto del voto veniva sostituita dalla disuguaglianza delle collettività, aventi diritto a voto, cioè dei collegi elettorali. Da una parte sono i tedeschi, i quali possedendo ora alla Camera il 48,23% dei mandati e prevedendo a ragione di perdere, con la caduta delle curie, questa proporzione che a loro non spetta in base al numero degli elettori, pretendono che nella distrettuazione si abbia riguardo alla cultura e al censo, creando per la città e i centri collegi elettorali più piccoli. E questo nel presupposto che i centri sono prevalentemente tedeschi, la campagna invece non tedesca. L’altra tendenza è propria dei liberali di tutte le nazionalità e vuole col medesimo mezzo della distrettuazione favoriti i centri industriali e le città, come quelle che albergano la borghesia liberale. È noto che queste due tendenze, la liberale e la tedesca, si manifestarono anche nella provincia nostra. D’un canto l’on. de Grabmayr pretese che ai 201.262 abitanti delle città della provincia si assegnassero otto mandati e ai 673.362 abitanti dei comuni rurali, soltanto 13 mandati, dall’altro l’Alto Adige , aderendo a questo principio che faceva valere 25.000 urbani quanto 50.000 rurali, manifestava la tendenza di voler creare privilegi per il partito liberale e gli uomini che lo dirigono. La polemica che ne nacque è nota. Difatti quale è il punto di vista del partito popolare trentino di fronte alle modalità della riforma? Nessuno, se non quello della coerenza, null’altro se non quello della giustizia. Posto una volta il principio dell’eguaglianza del suffragio, non è logico reclamare delle eccezioni a proprio vantaggio, proclamato una volta il suffragio uguale come postulato di giustizia, è ingiusto il fabbricare ad arte disparità ed ineguaglianze. Era nostro dovere di protestare contro codesti artifici anzitutto come italiani, i quali al pari degli czechi, dei croati, degli sloveni e dei ruteni devono richiedere che il suffragio uguale venga applicato rigorosamente e non in modo da mantenere e perpetuare l’egemonia tedesca nello Stato. Era nostro dovere di protestare anche in nome della maggioranza del popolo nostro, il quale non per burla doveva venir proclamato «popolo sovrano». L’oratore passa poi a parlare delle probabili conseguenze del suffragio universale. Le conseguenze del suffragio universale in Austria. Il suffragio universale in Austria, sia pure anche con indebite eccezioni a favore dei tedeschi, aumenterà i mandati degli slavi. Più rilevante però sarà lo spostamento dei partiti in linea religiosa. È certo che avremo un aumento dei radicali e in quantità e in qualità, ma anzitutto in questa. Il gruppo socialista che non oltrepassa oggidì gli undici deputati, salirà probabilmente già al primo assalto a 50 deputati circa. Ciò vuoi dire, per chi conosce le tendenze dei socialisti austriaci, che avremo anche nella Camera a Vienna un forte nucleo eminentemente anticlericale e anticattolico attorno al quale si raccoglieranno le altre frazioni radicali, divenute più omogenee e più pugnaci, per il cessare delle tendenze moderate. Questo accentramento delle forze antireligiose non rappresenta per noi cattolici, un pericolo prossimo? S’è detto, e si ripete volentieri nel nostro paese, che le questioni religiose per la vita pubblica non sono più d’attualità, e che non imperniano più il diventare e l’essere dei partiti. Questa affermazione risale a coscienze amanti dell’equivoco e rifuggenti a penetrare sotto la corteccia esteriore delle cose. Non basterebbe l’esempio della Francia modernissima per provare il contrario di quanto si afferma? Ma v’è delle prove che ci toccano ancora più da vicino. Lo Stato stesso in cui viviamo, benché ossessionato dalle passioni nazionali, superata appena nella sua crudezza la tendenza anticattolica, «Los von Rom» , deve occuparsi ora di questioni che toccano direttamente il cattolicismo, del divorzio cioè e della scuola laica. L’agitazione in favore del divorzio specialmente ha ripreso negli ultimi tempi vigore, ha preso forme consistenti ed è arrivato già nelle commissioni parlamentari. Il movimento tende ad ingaggiare la Camera per la cosiddetta riforma matrimoniale. Una questione dunque eminentemente religiosa è divenuta attuale, s’imporrà alla rappresentanza parlamentare. Il nostro dovere Di fronte a questo incrudire della lotta anticattolica, che coincide con l’attuarsi delle conseguenze del suffragio universale, qual è il dovere di un partito, il programma del quale poggia come base sui principii immutabili della società cristiana? Creare anzitutto posizioni chiare, nette, ecco il compito nostro. Noi dobbiamo rifuggire dalle mezze misure, dalle mezze coscienze. Nelle prossime elezioni ogni candidato dovrà assumere colore anche di fronte alle questioni religiose, poiché interessa al popolo trentino di sapere se i suoi rappresentanti alla Camera, aumenteranno i voti dell’invadente anticlericalismo o meno. Non è lecito appagarsi di vaporose idealità, di viete formule dottrinarie, conviene che si sappia quanto importi il liberalismo o l’anticlericalismo di certi onorevoli. Il secondo nostro dovere è quello dell’organizzazione. Il suffragio universale trapianterà la lotta elettorale in tutte le vallate, in tutti i paesi, anche i più piccoli, e noi dovremo difenderci o assalire su tutti i punti. Solo l’organizzazione può essere pegno della vittoria. Questa organizzazione noi abbiamo già preparata da tempo ed è l’Unione politica popolare trentina. Essa ha il proprio programma che fu spiegato nelle adunanze e diffuso a larga mano tra il popolo; anche il numero dei soci è rilevante. Siamo ben lungi tuttavia dall’essere pronti alla lotta, d’aver raggiunto l’ideale prefissoci. Incoscienza colpevole o deplorevole trascuratezza di molti dei nostri ha ostacolato i progressi voluti, e ancora oggi, mentre gli avversari si organizzano e l’ora decisiva sta per scoccare, dobbiamo rinnovare l’appello a quanti condividono le idee nostre, a quanti desiderano la vittoria legata alle bandiere cristiane. Il programma del partito popolare è programma d’oggi, il quale, poggiando sulle granitiche basi della storia cristiana del popolo nostro, ne vuole l’elevamento morale, nazionale ed economico. In esso rivivono le idee della democrazia cristiana, per la quale sono sorte e fiorite tante nostre organizzazioni, in esso è segnata la via dell’elevamento nazionale di questa terra, stretta da potenti avversari. Il nostro programma infine è programma di rivendicazioni popolari, di difesa e di progresso sociale per le classi che si presentano ora appena alla ribalta della vita pubblica. E Dio voglia che i nuovi atteggiamenti della politica e i rivolgimenti che prepara l’indomani ci trovino pronti e fiduciosi, come un esercito ordinato, con la magnifica parola d’ordine che racchiude le idealità e le speranze di tutti: cattolici, italiani, democratici! |
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| 11906-1910
| Da tempo si parla dalla stampa e dagli interessati di un progetto di riforma della legge militare: di una riforma che abolisca finalmente il servizio militare dai tre anni, portandolo a due. In Parlamento non si discute mai la destinazione di qualche... boccone al militarismo senza che qualche deputato invochi questa riforma. Così mons. Delugan, da anni, nei suoi discorsi alla Camera, contro le spese militari, non tralascia mai un’occasione di spezzare una lancia in favore di questo giusto postulato del popolo Ultimamente, si parlava con insistenza di questo progetto, se ne parlava come se fosse già stato approvato. Anzi, qualche d’uno che ora presta servizio, amico del nostro giornale, ci domandò spiegazioni in riguardo. Si capisce: la necessità di simil legge è sentita ovunque, quindi la persuasione che sia presentata e radicata fortemente nell’animo del popolo. Negli scorsi, giorni, discutendosi alla Camera viennese la legge sulle contigenze delle reclute, il ministro della guerra fece alcune dichiarazioni su questo progetto. Disse che è presto ultimato ma... ma che fino a quando in Ungheria non sarà risolta la crisi non si potrà far nulla. Aggiunse poi che per poter appagare il desiderio di coloro che vogliono il servizio dei due anni sarà necessario aumentare il contingente delle reclute. Tutto sommato noi non vediamo niente affatto vicino il giorno in cui questa legge sarà votata. I se e i ma di chi ci governa, la crisi ungherese, il bastone che mette fra le ruote chi vive di militarismo, ci confermano in questa opinione. I deputati non si stanchino però di combattere per questo postulato. Tutti i cittadini contraggono l’obbligo di servire la patria, si dice, e sta bene; tutti allora coloro che sono dichiarati abili al servizio militare, siano obbligati a questo doveroso sacrificio, nessuno deve essere eccettuato. Purtroppo è triste veder tolto alle famiglie molte volte l’unico sostegno di esseri malati o impossibilitati a guadagnarsi da vivere, e proprio quando il giovane comincia a essere un vero aiuto in essa; la partenza porta allora con sé, oltre il dolore della separazione, l’incertezza crudele del domani. Se a costoro noi mettiamo di fronte i figli dei ricchi e benestanti, i quali non sono materialmente necessari alla famiglia e solo per la forza dell’oro possono rimanere nella loro città a prestare servizio 12 mesi anziché 36 come i figli del popolo, la protesta ci viene spontanea ed acre. Perché i benvisi della fortuna debbano avere una distinzione perfino dinanzi all’obbligo pei poveri, che possono essere l’unico mezzo di sostentamento di una disgraziata famiglia, ma pei figli dei ricchi no? È tempo che certi privilegi di età che furono cessino! Venga quindi la ferma di due anni e indistintamente, i ricchi ed i poveri, siano uguali dinanzi alla legge. Noi attendiamo la riforma, perché è conforme ai dettami di quella giustizia che vogliamo dovunque. fs. |
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| 11906-1910
| Veramente, tante e tante sono le leggi necessarie, ma, per carità, andiamo piano che chi troppo vuole niente ha, dice il proverbio. Dunque, Momolo mio, una alla volta! La scorsa settimana vedemmo come si impone la legge pel servizio militare di due, demmo pure un colpo di piccone a certi privilegi secolari e... intanto aspettiamo che la pera si maturi. Una delle leggi riconosciute urgentemente necessarie si è quella sulle assicurazioni contro gli incidenti. Da lungo tempo si fa dura l’esperienza sulla mancanza della stessa e si grida, venga, venga una buona volta! Non occorre andar lontano per prendere gli esempi: restiamo in paese, che altrimenti bisogna mettersi le mani nei capelli per lo spavento. Innumerevoli sono gli incendi nel Trentino, disastrosi generalmente: dopo l’incendio è una vera desolazione: i danni sono enormi, l’importo assicurato minimo. Dappertutto lo stesso. Per conseguenza, non si è finito di raccogliere offerte per un paese, che bisogna incominciare la colletta per un altro. La sottoscrizione per poveri incendiati è si può dire permanente nel nostro paese. Ciò porta pregiudizio a tante altre opere buone, che mancando di mezzi non possono svilupparsi: poiché da noi Rothschild non ve ne sono e quindi chi offre per un verso non può offrire tanto dall’altro. Ai nostri popolani fu spiegata più volte l’utilità di una buona assicurazione contro gli incendi: delle buone società non mancano; ma, ahimè! è come parlare al deserto: solo pochi, e da qualche anno appena anche questi, l’hanno capita e si sono assicurati. Di fronte a questo stato di cose – che non si ripete solo nel Trentino, ma in tutto l’Impero – i benpensanti escogitarono un rimedio per riparare alla cosa. Il mezzo migliore parve quello di una legge che obbligasse tutti all’assicurazione. In vista dell’affluire, con questo mezzo, delle quote alle società, queste fiorirebbero e potrebbero fare buoni patti, in modo che con poco ognuno potrebbe assicurarsi. Già nel dicembre 1902 l’on. d.r Conci e colleghi presentarono al Governo una proposta per tale legge provvidenziale. Il Governo rispondeva allora che tale questione era già oggetto di seri studi. Che sia poi stato in omaggio al Faremo, Studieremo, Procureremo a caso mai... il fatto sta che passarono 2 anni e nessuno si fece vivo. Allora si tornò alla carica, e anche questa volta silenzio sepolcrale. La scorsa settimana l’on. Conci inoltrò un’altra interpellanza al bar. Gautsch , nella quale, ricordata la necessità di tale legge e le promesse del Governo in proposito, si domanda in quale stadio si trovano gli studi in riguardo e se il Governo è disposto a presentarla ancora nella presente sessione parlamentare. Il bar. Gautsch non ha ancora risposto in proposito: sì sì, poveretto, ha tanto da fare con la riforma elettorale! In ogni modo, giova sperare che la stessa non si farà attendere a lungo! fs. |
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| 11906-1910
| Diritto elettorale Chi vuole farsi un’idea esatta delle pubblicazioni comparse in questi ultimi mesi dovrà anzitutto ricorrere a opere che trattano la questione da un punto di vista generico e scientifico. Tra queste anzitutto va raccomandata l’opera de compianto professore di Berlino G. Meyer Das parlamentarische Wahlrecht, Berlino, 1901; è un volume di circa 800 pagine, il quale tiene conto di quanto si scrisse e di quanto si fece circa il suffragio politico. Si può dire che a questo libro risalgono tutte le pubblicazioni recenti. Chi si interessa anzitutto dei principi teoretici del diritto di voto legga il volume di Gaeta, La teoria del suffragio politico, Torino, 1897 , con prefazione dell’on. Brunialti . Noto che il libro non è esente da tendenze di partito. Un libro da consultarsi, anche perché vi è aggiunta un’appendice scientifica generale, è l’opera di Leo Wittmayer, Unser Reichsrathswahlrecht und die Taaffesche Wahlvorlage, Wien, 1901. Eminentemente teorico è il trattato di Benoist sull’Organisation du suffrage universel, pubblicato nella Revue des deux mondes, vol. 130-136. Le ragioni dei nemici del suffragio uguale sono esposte con chiarezza nell’opera dello Schreiber, Wider die Gleichheit im Wahlrechte, Berlin, 1895. L’obbligatorietà del voto è sostenuta da Paul Coutant nel libro Le vote obligatoire, Parigi, 1898. Dalle pubblicazioni recentissime notiamo: Das allgemeine Wahlrecht in Österreich seit 1848 von d.r G. Strakosch-Grassmann, Wien, bei Deuticke, 1906. È la storia dei sistemi elettorali austriaci nell’era costituzionale. Un libro che, malgrado la tendenza, va giudicato con favore, anche dal punto di vista scientifico. Meno voluminosa ma più originale è la pubblicazione di Ludwig St. Rainer, Wahlreformstudien, bei Deuticke, 1906. L’autore vi propugna l’idea di Emil Girardin, di costituire cioè un solo collegio elettorale per tutta l’Austria. Il sistema è alquanto complicato ma molto ingegnoso. Uno studio assai oggettivo è quello del d.r Antonio Bach Oesterreichs Zukunft und die Christlich-sozialen (Deuticke). L’Autore è un liberale, ma riattaccandosi alla posizione presa dai cristiano-sociali nella riforma elettorale e alle conseguenze del suffragio universale, conclude che il futuro dell’impero è in mano di questo partito. Gli avversari del suffragio eguale in Austria trovano esposte con forza le loro ragioni nel libro di Rudolf Springer Mehrheits- oder Volksvertretung, (Deuticke), ove si propugna il voto proporzionale e nello studio del d.r O. Streintz che si dichiara per il suffragio universale, ma diretto (Gedanken über eine Verfassungsreform für Oesterreich, Graz, 1905). Notevole che l’autore parte dalla teoria sugli stati di Aristotele e di S. Tommaso. Un’altra questione politica di enorme importanza è Il conflitto ungherese Un libro oggettivo sulla questione è troppo presto per averlo. Vi si avvicina l’operetta di R. Springer: Die Krise des Dualismus und das Ende der Deakistischen Episodi, 1905 presso il Deuticke. Le ragioni dell’opposizione ungherese dal punto di vista giuridico sono esposte nel libro di Eugen v. Veöreös Nemzeti Könyv, di cui esiste una traduzione tedesca Das Nationalbuch, Presburgo, libreria Pannonia. Una posizione di mezzo e conciliativa prende invece Gedeone v. Rohonczy, un liberale staccatosi dal conte G. Andrassy , al quale rinfaccia di distruggere l’opera del padre (Offener Brief an den Gr. J. Andrassy und die Antwort, Budapest, 1906). Un libro interessante dovrebbe essere anche quello del rumeno d.r Popovic sulle relazioni delle nazionalità in Ungheria. Non l’ho ancora avuto tra le mani. La questione sociale È trattata splendidamente dal punto di vista cristiano dal prof. Francesco Schindler nel libro Die soziale Frage der Gegenwart, Wien, 1905, Opitz, Strozzigasse 41. Il libro è eminentemente pratico e la teoria non vi prevale a svantaggio della pratica, come accade in libri simili. È un manuale che vorremmo raccomandare a quanti lavorano nel campo sociale. Non sorpassa le 200 pagine e il prezzo è modico. Col medesimo metodo e cogli stessi intenti è scritto il manuale del d.r Antonio Retzbach, Die soziale Frage, Freiburg, B. 1905, ma riguarda più particolarmente le condizioni della Germania. Opera eminentemente teorica è invece il Lehrbuch der Nationaloekonomie del p. H. Pesch (Freiburg, Herder, 1905). Credo doveroso segnalare quest’opera perché è il primo trattato sistematico completo di economia sociale sulla base di una concezione cosmica cattolica che finora sia stato pubblicato. Dell’Italia purtroppo non c’è neppur da parlare; ma anche i tedeschi, che possono vantare tante monografie economiche pregevoli, mancavano di un manuale sintetico. Per trovare un trattato bisognava finora ricorrere ai Leroy-Beaulieu, Gide, Mangoldt, Marschall, Conrad, Philippovich. I cattolici tedeschi avevano l’opera di Ratzinger, ma anch’essa non è che una raccolta di saggi non un trattato. Del valore dell’opera del Pesch ci davano già affidamento vari suoi lavori antecedenti di economia politica. La ricchezza delle sue cognizioni e la acutezza della critica si mostrano in tutta questa sua opera monumentale. Va notato anche che egli sa giudicare spassionatamente gli avversari e mostra francamente quel nucleo di verità che ha trovato nelle loro teorie onde già nella prefazione egli può sfidare i non credenti a trovare nell’opera una sola parola che li offenda. Questo primo volume non ci dà che l’introduzione all’economia sociale. I due seguenti compariranno nel 1906-1907. Richiamo l’attenzione dei medici su un libro di L. Scarano : La leva militare dal punto di vista morale, uscito testè a Roma presso il Voghera. Vi è studiato il modo di coscrizione e il metodo usato nell’istruire i soldati. Vi si difendono a spada tratta i medici militari «che non sono una casta chiusa, ma partecipano alla vita scientifica». Si accenna a molti casi di simulazione fra i sodati ecc. E finisco con due lavori letterari che per il loro contenuto trovano posto in questa rubrica. L’uno è un dramma, in tre atti di Giuseppe Ulcelli, intitolato Scioperanti (libreria Salesiana, 1906). Il dramma è una soluzione della questione sociale dal punto di vista cristiano. L’altro è un romanzo: Gregorius Sturmfried, di Arturo Achleitner (Mainz 1905, Kirchheim). È la storia di un povero parroco tirolese che, oltre gravi croci in casa, ha ancora mille grattacapi per gli sconvolgimenti portati nella sua cura dal «Los von Rom», dal «Reformkatholizismus» di un avvocato, e dal socialismo trapiantatosi là per lo sviluppo dell’industria. Per di più l’Ordinariato, ingannato sul suo conto, lo trasferisce a Sumwig sui confini del territorio linguistico, sicchè egli si trova di fronte all’altra grave questione del Tirolo, la questione nazionale. Fra il resto i suoi tedeschi se l’hanno a male perché egli si sente pastore anche di una colonia di lavoratori italiani. Infine riconosciuti i suoi meriti diventa parroco di città. Le questioni agitate in questo romanzo sono toccate un po’ troppo superficialmente; né mancano altre pecche. Si legge però volentieri né il tempo impiegatovi si può dir perso. L’Autore promette una trilogia: «Der Dorfpfarrer». Gaspare Decurtino si è ritirato dalla vita pubblica ed ha riassunto la direzione della rivista Christlich-soziale Reform di Friburgo, assieme al prof. Beck. A Parigi esce col 1906, una pubblicazione mensile Le musée Social, Mémoires et documents. Si tratta di una serie di monografie e d’inchieste, compiute con la maggior diligenza ed obbiettività. Noto fra queste il «movimento cooperativo in Ungheria». D.r A. Degasperi |
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| 11906-1910
| Siamo entrati trionfalmente – pardon – chi trionfalmente e chi per forza nella quaresima! Magra per chi vuol far penitenza, ma ancor più magra e insopportabile per coloro che hanno fatto il carnevale più grasso di quello che non abbiano comportato le loro forze, e contro il permesso del... Ministro delle finanze hanno incontrato dei... debitucci! Ma un’altra quaresima, brutta assai incomincia per molti giovani! Siamo nell’epoca delle visite militari: qua e là si sono già iniziate, e continueranno quasi fino a Pasqua. Questo fatto suggerisce molte e molte considerazioni: ma già è l’eterna querimonia che già abbiamo replicata cento volte su queste colonne! Delle considerazioni molto giuste furono fatte sulle colonne della Voce cattolica da un certo Robur riguardo alla superficialità adottata dai medici militari a visitare i giovani coscritti. A proposito si raccontano degli esempi in cui dei giovani, apparentemente sani, ma che erano soggetti a delle malattie, che il medico colla sua fretta non può scoprire, tornarono dal militare completamente rovinati, come pure di quelli che vi morirono. Fa veramente pena il vedere con che leggerezza certi medici visitano i giovani in questi giorni: sembrano solo preoccupati del numero prescritto, senza riflettere che in certi casi il non visitare bene, il non informarsi sui precedenti di certi tipi, sulle condizioni della famiglia riguardo a salute, vuol dire rovinare un giovane, mandarlo magari alla tomba, mentre altrimenti, a casa sua, coi dovuti riguardi, potrebbe tirare innanzi, e sostentare la famiglia. Una prova della poca importanza che danno i medici militari alla visita dei coscritti la abbiamo sul numero stragrande che in autunno si mandano a casa prima ancora di far prender loro l’arma in mano o dopo d’averli provati per qualche settimana. E molti come tornano a casa? I genitori lo sanno! Carne da ospedale, impotenti a 21 anni! Il succitato Robur dice che i giovani che si presentano in questi giorni alla visita che dubitano delle loro condizioni di salute od ebbero una recente malattia faranno bene di pregare il proprio medico d’una visita, e così alla solita domanda della Commissione: – Avete dei difetti? il coscritto potrà, eventualmente, rispondere: – Ho questo difetto, ho avuta la tale malattia. In questo modo il medico militare sarà costretto a visitarlo con meno fretta, più scrupolosamente. E non si potrebbe anche, quando l’autunno si devono scartare molti di quelli dichiarati abili in primavera, bollare per bene il medico di quel distretto che dà il maggior numero di questi scarti di... seconda edizione? Acciò sarebbe chiamato chi di dovere. Ci sembrerebbe questo il vero modo per tenere in gamba certi medici che altra preoccupazione non hanno che di sbarazzarsi in fretta per poi scorrazzare intorno il resto della giornata. fs. |
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| 11906-1910
| Non tutti conosceranno le tristi condizioni in cui versarono fin qui i segantini del nostri paesi. Lavoro giornaliero da 14 a 16 ore, un duro giaciglio per dormire, fatto per i cani, che serve loro anche da tavola da pranzo! Questo in poche parole il triste quadro della situazione di questi poveri lavoratori . Ognuno che abbia viscere umane vede quanto sia brutta questa condizione, quanto sia necessario cercarvi rimedio. Lo scorso novembre, raccolti a varie riprese dal d.r Alcide Degasperi, direttore della Voce cattolica, i segantini, quali schiavi, quali prigionieri cui si faccia brillare davanti agli occhi un bagliore di trattamento migliore, accettarono con entusiasmo di unirsi in unione professionale. Ai 4 febbraio tennero a Tesero un’adunanza, presenziata dallo stesso d.r Degasperi, e concertarono le proposte da presentarsi ai principali. I segantini di Fiemme chiedevano l’aumento di 60 cent. al giorno: vale a dire cor. 4; quelli di Nuova Italiana e del Egenthal cor. 4.50 giornaliere; inoltre, che la paga venga fatta ogni mese, che il massimo della giornata sia di 12 ore. Sembrerà incredibile che in tempi in cui si parla di 10, 9 e 8 ore vi sia chi è costretto a chiedere semplicemente una riduzione d’orario a... 12 ore! Ma putroppo pei segantini le cose stanno a questo punto. Lo si crederebbe? Invano i segantini hanno presentato ai principali due memoriali per le loro miti proposte, invano hanno chiesto un abboccamento con questi signori per esporre le reciproche ragioni, invano hanno chiesto di trattare la questione colla mediazione dell’ispettorato industriale! I negozianti di legnami li disprezzarono e per nulla vogliono riconoscere la loro società! Esauriti così tutti i mezzi pacifici, ai segantini non restava che ricorrere all’arma dello sciopero! E vi ricorsero la scorsa settimana, pieni di speranza, sicuri delle simpatie e dell’aiuto degli onesti di ogni partito, consci dell’equità delle loro richieste, fortificati dall’idea che la causa per cui combattono è giusta! Noi da queste colonne rivolgiamo un appello a quanti hanno nobile sentire, agli onesti di ogni partito, a chi sa che voglia dire lavoro, che voglia dire lottare per la vita, affinché stendano il loro obolo a sostegno di questi poveri segantini! Sia pur l’obolo tenue dell’operaio dalle mani incallite, l’obolo della vedova: sarà il benvenuto, sarà l’attestato di solidarietà di simpatia, di fratellanza coi lottanti segantini e coopererà a un trionfo di giustizia e di elevazione di dignità umana! fs. |
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| 11906-1910
| «Nulla che non si fondi sul passato o lo disconosca, ma tutto che si atteggi al presente e prepari l’avvenire». Col giorno d’oggi la VOCE CATTOLICA porta il titolo di «Il Trentino». I nostri amici e i consenzienti sanno che il mutamento di titolo non risale a ragioni intrinseche che importino un cambiamento di programma e d’indirizzo. Il Trentino rimane l’organo di quanti vogliano che lo stato e la vita pubblica siano informati ai principi del cristianesimo, nel quale il nostro popolo trova la sua storia, la sua forza, il suo avvenire. Il Trentino propugnerà energicamente la difesa nazionale della nostra terra italiana e l’elevazione nazionale del popoloi nostro. Il Trentino, anzitutto, sarà l’organo di quei molti che inaugurarono nel nostro paese il movimento cattolico e sociale e che lavorano e confidano nell’avvento della democrazia cristiana. Con questi propositi il Trentino si riannoda alle tradizioni e all’indirizzo della Voce Cattolica, il quale resta immutato. Ma è parso a noi ed a molti amici che il nostro giornale abbia il diritto di chiamarsi il Trentino, ora che esso è divenuto, per gli incessanti progressi degli ultimi anni il portavoce della grande maggioranza del nostro paese ed è l’organo del «partito popolare trentino», il quale si propone di prendere in mano risolutamente gli interessi tutti della vita pubblica. Come tale il giornale nostro mira a ricostituire l’unità morale del Trentino, sulla triplice base della religione, dello spirito positivamente nazionale e della democrazia. A questo tenderà il lavoro nostro e degli amici, questa è la meta del Trentino. E mentre ringraziamo caldamente quanti hanno coi loro contributi e colla loro propaganda portato il giornale alla presente, insperata diffusione, rivolgiamo loro un caldo appello, affinché in questa occasione e per l’avvenire continuino l’opera loro. Il Trentino apre un’abbonamento alle seguenti condizioni: Anno Semestre Trimestre TRENTO Cor. 16 Cor. 8 Cor. 4 MONARCHIA " 22 " 11 " 5.50 GERMANIA " 26 " 18 " 6.50 UNIONE POST. " 84 " 17 " 8.50 |
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| 11906-1910
| Abbiamo avuto altra volta occasione di lumeggiare i metodi degli ultranazionali tedeschi verso di noi e abbiamo dovuto constatare un rincrudimento della lotta nazionale, promosso da chi è avvezzo a raggiungere tutto col terrorismo e con le pressioni. Negli ultimi mesi, per opera specialmente del Tiroler Volksbund, gli attacchi contro l’integrità nazionale della nostra regione si fecero più insistenti e più vivi: ricordiamo Fassa, S. Michele, Caldonazzo, S. Sebastiano, Folgaria e Villa Banale . Abbiamo anche detto dei metodi vili usati da certi emissari, i quali, noti in patria anche per il loro spirito anticattolico, si sono insinuati nel campo nostro con il motto: «viva il cattolicismo e la chiesa». Era da aspettarsi che di fronte a questa invasione e a tanta slealtà, i trentini tutti, non escluso il clero, si opponessero con tutte le forze a simili mene. Gli ostacoli incontrati fecero infuriare oltremodo chi aveva la coscienza di non essere dalla parte della giustizia. I pantedeschi, i «los von Österreich» e «los von Rom» , si ricordarono all’uopo della loro pertinenza all’Austria e fecero le viste di difendere quello che non era affatto attaccato: vennero lanciate così le più ridicole accuse d’irredentismo contro mons. Delugan, contro il m.r. Decano di Fassa e contro gli altri sacerdoti, che, come preti e cittadini si credettero in dovere di respingere gli intrusi. Era evidente l’intenzione dei radicali: si voleva porre la questione in termini tali, che potessero riuscire simpatici anche a quanti dei loro connazionali non condividevano le idee di un Rohmeder e compagni. Si tentò cioè di identificare gli interessi del tedeschismo germanizzatore con gli interessi del poliglotta impero austriaco. Di questi giorni gli attacchi sintensificarono. Pare che la vile capitolazione del Governo centrale di fronte alla piazza di Innsbruck abbia indotto nei radicali tedeschi l’idea che tutto è permesso , purché si gridi forte e che la calunnia e la prepotenza finiscono sempre con lo spuntarla. Così nell’ultimo articolo delle Innsbrucker Nachrichten (sabato 24 marzo) i radicali lanciarono invettive ed accuse contro il principe Vescovo di Trento, che si taccia di ultranazionalismo e d’irredentismo. Accuse viete, per le quali invano si concederebbe il diritto di prova. Ma che ne cale a costoro della verità? Seminare, se è possibile, la discordia statuire la confusione, ecco lo scopo di chi con armi leali invano ritenterebbe la prova. Ma la mossa è troppo palese, perché quanti non sono accecati da passione nazionale, diano retta a suggerimenti del giornale radicale enipontano. Il pretesto, da cui si muove, è l’aver assunto il giornale nostro come titolo il nome della regione dove esce e di cui propugna gli interessi. In proposito, per conto nostro, non abbiamo che a richiamarci alle dichiarazioni già fatte circa l’immutato indirizzo . Se i nostri oppositori fossero in buona fede, ricorderemmo loro, che fino a prova in contrario, essi non hanno diritto di mettere in dubbio la veracità delle nostre parole. Ma via, non è il Trentino che dispiace a costoro, ma il partito popolare trentino, il popolo trentino che se ne fa bandiera, questo popolo, il quale nella sua grande maggioranza non è reo d’altro di non voler lasciar imbastardire, tanto per dare consistenza ai sogni di un bavarese, il dr. Rohmeder. Ché se voi, inspiratore il suaccennato irredentista, avete amplificato il concetto di Tirolo, tanto da renderlo congruente con la Pangermania, a noi non resta che opporvi un Trentino, regione non nebulosa, non indefinita fino ad invadere il campo altrui, come insinuate voi, ma piccolo paese che si sentirà tanto più uno e tanto più forte, quanto più gli avversari lo stringeranno d’attorno e tenteranno di smembrarlo. Ma vi serva d’avviso: non amiamo rettoriche né diatribe nazionali, e, rispondiamo solo se ci tirate per i capelli. È quindi affatto inutile che vi arrabattiate a porre in mezzo autorità o principi che non sono in questione. Teniamo per norma che le vostre mosse sono dettate dallo spirito di conquista che vi domina. La tattica dei magiari di voler soffocare come irredentista chiunque non ha la bontà di lasciarsi assimilare, l’avete imparata da un pezzo. Noi lo sappiamo; e dovrebbero saperlo anche altri che hanno agio di osservarvi da vicino, a meno che il pretesto della nazionalità in pericolo non sembri riuscire opportuno per altri fini, come tornò a proposito, quando si volle intralciare una riforma, buona per il popolo, ma dannosa ad un partito. Il Tiroler Tagblatt prende nota della protesta del clero di Villa Banale contro l’intenzione d’introdurre le scuole tedesche e classifica quest’atto come «Deutschen Hetze» (caccia forzata dei tedeschi, istigazione all’odio contro i tedeschi). A Sillein, nell’Ungheria settentrionale, si costituì il partito popolare slovacco, in opposizione al partito popolare cattolico (magiaro). Nel programma è messo a base il suffragio universale. Sul nuovo partito slovacco l’organo del partito cattolico (?) magiaro scrive: «Finora nel circondario di Neutra Zambokret il popolo cattolico era esente dalla peste panslavistica! (!) Ma ora va aggirandosi un prete slovacco, il quale aizza il popolo e raccoglie abbonati per il giornale panslavista (?) Katolicke Noviny. Il prete vagante fu denunciato all’autorità e si urgerà il suo arresto, rispettivamente il suo trasporto a Gran». E la Reichpost di Vienna commenta: «Il giornale Katolíc Noviny non è affatto panslavista, ma un giornale cattolico e corretto, il quale però ha l’ardire di opporsi ai sciovinisti magiari dell’Ungheria settentrionale». |
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| 11906-1910
| Il maestro dell’ultima filosofia, Zarathustra, ossia Nietzsche, dice: «È morto il vecchio Dio e da che egli giace nel sepolcro, voi siete risorti. Or incomincia la grande luce meridiana, il regno dell’eroe umano. Dio è morto e noi vogliamo che il superuomo viva». E Zarathustra nella sua caverna di meditazione ha scoperto che il principio che rinnoverà il mondo è l’assoluta «libertà di spirito» e l’inizio della rigenerazione avverrà collo spezzare i ceppi millenari che avvincono l’umanità, la religione, la morale e la metafisica; la negazione, la morte di Dio. Ma quale insegnamento positivo darà poi Zarathustra agli uomini? Egli discende dalla montagna e insegna loro il «superuomo». Dirà che tutti gli esseri fin qui hanno creato qualche cosa di superiore a loro medesimi, dirà che la grande fiumana dell’evoluzione deve arrestarsi all’uomo che l’uomo deve oltrepassare sé stesso, che deve produrre il superuomo. Ed ecco il vertice della superba ascensione. Ma poi? – Questa domanda si è fatta la filosofia moderna, come se l’hanno ripetuta i pensatori di tutti i tempi. Nietzsche vi ha pensato a lungo. Nelle montagne dell’Engadina gli è balenata alfine la risposta: «dopo il superuomo si ritornerà al verme, e poi dal verme nuovamente al superuomo, e di nuovo indietro, e di nuovo inanzi, e tutto tornerà come già fu, eternamente, eternamente». L’idea dell’«eterno ritorno» è dunque la suprema affermazione dell’ultima filosofia. L’uomo che ha collocato sé stesso al posto di Dio è destinato a ritornare nel fango, a venir sollevato e inabissato, in un eterno giuoco. Così i moderni per i quali Seneca ripeterebbe: «taedium vitae, disciplicentia sui et nusquam residentis animi voluptatio» hanno trasferito l’alternativa della loro vita spirituale d’ogni giorno nel corso dell’eternità. Perché noi ricordiamo tutto questo, oggi, alla vigilia di Pasqua? Perché questi medesimi uomini e pensatori, i quali infine non hanno che reintegrata la fede antica nell’apocatastasis dei Greci, si sono contemporaneamente avventati con tutto l’impeto e la ferocia di un’anima pagana contro la «risurrezione» e non solo hanno negato il fatto storico, ma hanno cercato di cancellarne dalla mente umana perfino l’idea. Il superuomo presupponeva la morte di Dio, ma un Dio redentore e risorto era la condanna del superuomo. Così è avvenuto che nessun’altra festa cristiana è più atta a rendere intuitivo il contrasto fra il mondo pagano e il mondo cristiano dei giorni in cui viviamo. La Pasqua ricorda la divisione degli uomini in due schiere. Da una parte quelli che credono nella Risurrezione e nella Gloria del Figliuolo dell’uomo, e conseguentemente nella risurrezione degli uomini, dall’altra quelli che vi sostituiscono l’evoluzione fatale, una ananke semovente. Per gli uni e per gli altri ne scaturiscono effetti pratici: questi sono figli del pessimismo, e il pessimismo rende inerti; i primi invece avendo fede nella Gloria, sono lavoratori operosi dell’oggi, sperando nell’indomani. La Pasqua crea in noi, seguaci di Cristo, due momenti dell’animo. Anzitutto la gioia, la pace interiore di chi è soddisfatto dell’adempimento d’una grande promessa, poi il risveglio di tutte le energie sepolte, per raggiungere quella meta, che ci sta dinanzi chiara, definita, sicura. Stanchi, ostacolati, oppressi, abbiamo lasciato altra volta dominare lo scoramento, colpiti dall’esempio quotidiano abbiamo forse giudicata la vita troppo fragile e breve, per rifarci ad inutili tentativi: ma ora viene la Pasqua con la primavera a spazzar via ogni nebbia, a ricostituire le forze indebolite, e noi fidenti e sicuri riprendiamo il lavoro, come fa il cultore dei campi. La Pasqua è la festa del progresso cristiano, festa di luce e di sole, del buon proposito e della speranza. Di fronte passa la schiera muta e fredda dei miscredenti... Noi cantiamo le glorie del Risorto e adorniamo di fiori il Camposanto dei resurrecturi. Così, all’esordire dell’era cristiana, mentre i Greci salivano ancora processionalmente all’acropoli, a dimostrazione d’un culto vuoto e cieco, nello stesso turno di tempo, all’equinozio di primavera, a Gerusalemme, ad Antiochia, nelle catacombe di Roma si celebrava il trionfo del Risorto, la vittoria della Primavera Eterna. D.r A.D. |
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| 11906-1910
| – «Vogliamo vedere se il d.r Piscel parla come si stampa da qualche tempo sull’Avvenire del Lavoratore» – Pensammo tra noi e noi vedendo la scorsa settimana affisso per le cantonate l’annunzio di una conferenza pubblica sul Nazionalismo e Socialismo che lo stesso dottore... dalla barba rossa avrebbe tenuto alla Camera del Lavoro la sera del venerdì . E vi ficcammo il naso. Sicuro, abbiamo varcate le soglie della Camera del Lavoro. La... Squilla del resto, suona simpatica anche ai nostri compagni. Incominciamo. C’era, giudicando ad occhio e croce, un’ottantina di persone, noi compresi. Una mancanza. Brillavano per la loro assenza i capoccia condottieri di un tempo che fu: Pasini, Mosna, Menestrina, Schmidt e qualche altro. Non parliamo del fu socialista radiato d.r Battisti . Una certa figura faceva in quella voce il cronista del Popolo, Maranini, che parve mostrar poco coraggio, standosene cheto, cheto lì fuori la porta come tra l’incudine ed il martello, a guisa di tapinello mendicante un tozzo di duro pane. Che gli bruciasse il sangue indosso? Questo fatterello ci fece cadere in varie riflessioni, finché le scacciammo, esclamando: Ah, mondo ingrato! Incomincia dunque il d.r Piscel, che parla alla buona di Dio sul tema annunziato. Lo svolse con una calma... strana, tanto che noi ci domandammo se quegli fosse il focoso puledro d’una volta. In sé non fece che parlare male dello sciovinismo nazionale. Ed eccoci alla discussione: prende la parola il rivoluzionario Gasparini, che francamente rimprovera a Piscel di «non aver interpretato il pensiero socialista, di aver fatto del socialismo all’acqua di rose, e di aver trattato il tema dal punto di vista borghese». È tutto dire... Che oio! Gasparini si mostrò ancora caldo fautore della abolizione della proprietà privata, né più né meno che ai tempi eroici del socialismo puro. Secondo lui, l’operaio non deve pensare alla patria (!!!), per lui la patria è quel paese che gli fornisce lavoro. Per fare del socialismo – parla Gasparini – bisogna tener d’occhio la meta finale, l’alto monte della felicità sociale, e abbattere, abbattere inesorabilmente colla scure tutti i privilegi, tutte le distinzioni, senza pietà né posa, senza misericordia, senza mezzi termini. Gasparini insomma, vorrebbe battere in breccia anche il Trentino, come ha mandato alla malora, coi suoi scioperi inconsulti, non poche famiglie vicentine, mettendo poi la pancia al sicuro, dandosela a gambe, seguito da non sappiamo quante condanne. Ma torniamo a noi. Piscel replicò, con sorrisi che sembravano amoretti, cercando di dimostrare l’accordo delle sue idee con quelle di Gasparini, ma questi di ripicco a Piscel: «Sono d’accordo e non sono d’accordo!» – L’... avvocato aggiunse, senza scomporsi, che nella sua conferenza aveva insegnato al proletario il modo di uscire dalla folta selva delle miserie presenti per portarsi ai piedi della montagna ma poi... aveva dimenticato d’insegnare come si salga il monte, dove splende il sole dell’avvenire! (parole testuali!) Noi aggiungiamo che l’avvocato si deve essere accorto della... piccola dimenticanza ancor nel corso della conferenza, cioè quando incominciò la sua auto-biografia, raccontando come e perché si fece socialista e sforzandosi di tenere una porta aperta agli... avvocati e ai borghesi che, saturi d’amori pel tapinello che soffre, abbandonando la superba vetta della borghesia per gettarsi nel gran mare proletario. Lettori cortesi, ve l’immaginate quel bel tomo di viaggiatore che partito colla meta, supponiamo, Rovereto, si fermi a Mattarello e si dimentichi poi di proseguire? Ah, Ah! Deve ridere anche il dottor Antonio, quando pensa questa sua... geniale trovata per nascondere il piè da cui zoppicca. Nemmeno Gasparini è contento. E replica lungamente. L’avvocato sta lì sul palcoscenico in atteggiamento pacifico, col risolino sulle labbra, fumando un sigaro, col fare del nonno che benevolmente ascolta le grandi ragioni che manda fuori il nipotino. Ma, Piscel non è il nonno e Gasparini non è il nipote; tuttavia, il nostro... barbarossa interrompe benevolmente di quanto in quanto il nipote che la vuole saper lunga, esclamando amorosamente: – Eh, sì sì! – Eh, sicuramente, già già! – Ma, così, però... – Ma così, colà... – Eh, già siamo d’accordo! – Anzi, si fu questa volta che il nipotino, visto forse che si dà poca importanza alle sue pure dottrine, uscì serio, serio in quel «siamo d’accordo e non siamo d’accordo»? Ma, guarda là! Ci dimenticavamo di dire che il dottore paragonò i borghesi che si danno al socialismo a ruscelli che scendono precipitosamente dal monte per affluire al mare. Questo mare, se sono buoni, li conserva, altrimenti li getta alla spiaggia. – Qui ci parve vedere Maranini del Popolo fare una annotazione... un vicino un po’ maligno ci sussurrò all’orecchio qualche cosa – E sarà... noi non ci mettiamo né sale né pepe. Per finire, la discussione non sarebbe terminata sì presto se il nostro avvocato, detto all’uditorio che si consumava troppo gas per continuarla, non avesse proposto di troncarla. Così si decise di continuarla un’altra volta. La nostra impressione? Che Piscel zoppica, zoppica maledettamente il... socialismo e che per tenersi in bilancia con quell’elemento che c’è alla Camera del Lavoro gli toccherà far uso di gas, di molto gas per non restare al buio. E terminiamo, aspettando il giorno nel quale, abbattuto colla scure tutto che è d’inciampo, potremo salire trionfalmente il monte dove splende il sole dell’avvenire! fs. |