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| 01901-1905
| Dalle relazioni pervenuteci da parecchi luoghi e pubblicate sul nostro giornale, si è potuto vedere con quanto favore sia stata accolta l’istituzione della Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso. E il favore è veramente giustificato. Anzitutto la Cassa centrale provvede agli operai ammalati in modo molto più vantaggioso che le presenti casse distrettuali, giacché il contributo che gli operai devono versare è più piccolo e il sussidio che ne ricevono è maggiore. Per esempio gli operai dai 31 ai 50 anni con cor. 1.06 di contributo mensile ricevono in caso di malattia, oltre l’assistenza medica le medicine, un sussidio di una corona al giorno; con cor. 1.66 di contributo mensile, un sussidio giornaliero di 2 corone, e con un contributo mensile di cor. 2.86 un sussidio giornaliero di 4 corone, sempre, s’intende, oltre l’assistenza medica e le medicine. Di più: mentre le casse distrettuali non passano il sussidio che per 20 settimane, la Cassa centrale lo passa per 52 settimane, e precisamente per 26 nella cifra suesposta, per altre 26 nella metà nell’ammontare della stessa. Ma la cassa centrale offre altri e ben maggiori vantaggi. Essa non accoglie nel suo seno soltanto gli operai ma anche i piccoli padroni, i quali, in caso di malattia, si trovano ben spesso in strette peggiori degli operai medesimi. Inoltre, allargando la cerchia dei propri soci anche ai contadini, rende partecipe dei benefici dell’assicurazione la classe agricola, la quale, per questo riguardo, rimase finora abbandonata. Chi sa quale sia l’importanza sociale di questa classe, specialmente in paesi come il nostro Trentino; chi sa ancora in quale misera condizione si trovi spesso ridotto il contadino ammalato, non potrà fare a meno di comprendere come la Cassa centrale risponda a una vera necessità e possa essere apportatrice di immenso bene economico e morale. Infine la Cassa centrale nella sua vasta sfera comprende, oltre gli operai, i piccoli possidenti e gli agricoltori, anche ogni altra persona di sentimenti e di condotta cristiana, ed è così che rende possibile un forte sussidio di malattia con contributi tenui, e che applica i frutti della previdenza e dell’associazione con una vastità che alle altre casse per ammalati è affatto sconosciuta. Ma la Cassa centrale non provvede soltanto alle più svariate classi sociali e a un numero stragrande di persone; provvede anche a molteplici bisogni. Lasciando da parte che ai contributi sopra accennati corrisponde anche un piccolo sussidio ai superstiti in caso di morte dell’infermo, essa ha rami speciali di assicurazione per il caso di morte, per la vecchiaia, per l’invalidità, per le vedove, per gli orfani, per terze persone che l’assicurante vuole beneficare solidamente. Si veda quale immenso campo di benefici sociali si schiude in questo modo al nuovo istituto. Non è quindi meraviglia che tutti coloro che ne presero finora un’esatta cognizione, lo abbiamo altamente lodato e vi abbiano dato il proprio nome, e noi speriamo che fra non molto si possa passare alla formale costituzione della Cassa centrale. Intanto tutti coloro cui sta a cuore il buon esito e la pronta entrata in attività della Cassa, ne studino gli statuti, provvedano perché in apposite conferenze siano quanto prima spiegati al popolo e specialmente ai membri delle Società agricole ed operaie cattoliche; spediscano premurosamente le adesioni raccolte e così fra poco gli operai, gli agricoltori, i piccoli possidenti, il laicato ed il clero (chè anche questo può approfittare con utilità della Cassa centrale). Potranno sentire gli immediati e benefici effetti che la Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso, è destinata a portare. |
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| 01901-1905
| Essendo il numero delle adesioni pervenute al Comitato promotore già considerevole, si passò alla nomina della prima Direzione che riuscì così composta: d.r Giuseppe Cappelletti avvocato, sac. Guido d.r de Gentili pubblicista, Valeriano Frizzera impiegato, Lunelli Cesare tagliapietra, Cappelletti Giuseppe tipografo, Vitti Andrea falegname, Amech Domenico contadino, Egenter Alberto sellaio e Gadotti Francesco calzolaio, e oggidì, fu prodotta all’onor. Municipio l’insinuazione per la registrazione dello statuto e delle firme della Direzione, chiedendo in pari tempo che venisse ritenuta parificata la erigenda cassa alle casse distrettuali per operai ammalati a senso del § 7 della Legge 16 luglio 1892. Il Municipio in base al § 6 dell’ordinanza ministeriale 1° dicembre 1892 N. 203 deve consegnare alla Luogotenenza la domanda entro tre giorni dalla presentazione cioè pel 3 marzo pros. E così pel 28 aprile 1901 la cassa si riterrà registrata, quando non vengano fatte eccezioni dall’autorità superiore, ciò che si ritiene inverosimile essendo stato lo Statuto accuratamente elaborato in base allo statuto modello pubblicato dal Ministero dell’interno e in base alle regole pubblicate nel manuale del sig. Riccardo Kaan del 1895. La Direzione spera quindi con sicurezza di poter mettere in attività la Cassa centrale cattolica di mutuo soccorso ancora nel maggio p.v. e raccomanda alle Società agricolo-operaie cattoliche di inviare le adesioni al più presto possibile e mano mano che vengono raccolte. |
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| 01901-1905
| Questa mattina si è tenuto il Congresso Straordinario del Comitato Diocesano Trentino per l’azione cattolica. Comparvero circa un’ottantina di soci, venuti anche da lontano. Era presente anche un deputato della quinta Curia Don Baldassare Delugan . Giunsero telegrammi di adesione e di augurio del m. rev. Don Giacinto Vedovelli, parroco di Vigo d’Anaunia, e del maestro dirigente Roberto Rocco Tonolli. Alle nove il Presidente mons. Gio. Batta Inama , dato ai soci il cordiale saluto e rallegratosi per il numeroso intervento, esprimeva i motivi e l’oggetto della adunanza. Quindi in una breve relazione espose quanto fu fatto per la compera dei fabbricati del Seminario, presentò il piano di riduzione della casa del vecchio ginnasio allo scopo di farne la sede delle associazioni cattoliche e domandò l’autorizzazione a incontrare le spese che all’uopo fossero necessarie. La relazione fu accolta con viva soddisfazione e con plauso e le proposte della direzione furono approvate all’unanimità. Quindi mons. Inama diede la parola al Vicepresidente d.r Giuseppe Cappelletti il quale espose i cambiamenti da introdursi nel § 3 dello Statuto per rendere possibile l’allargamento dell’attività del Comitato e riferì sui passi da farsi e delle spese da incontrarsi per dare l’antico valore ai detti cambiamenti. Il Congresso annuì unanime alla relazione e alle proposte. Il Vice dr. Cappelletti sottopose poi al Congresso le mutazioni da introdursi nel § 14 delle statuto riguardante la composizione della direzione, composizione che, come era organizzata finora, rendeva il funzionamento della Direzione alquanto difficile e a volte un po’ lento ai desideri e al bisogno. Disse altresì delle Delegazioni e del piano di procurare alle stesse una uguale rappresentanza del Comitato. Chiuse col presentare le proposte concrete della Direzione che furono accolte con generale consenso . Per incarico della Direzione il consigliere rev. D.r Guido de Gentili parlò dello sviluppo e della diffusione maggiore che specialmente nelle circostanze odierne deve darsi alla stampa cattolica. In questo riguardo richiamò l’attenzione del Congresso sul valido aiuto che potrebbero e dovrebbero prestare le Delegazioni, e invitò caldamente i soci del Comitato a volerle costituire quanto prima in base all’apposito regolamento elaborato dalla Direzione ove già non fossero state costituite, e a volerle quanto prima convocare ad adunanza, ove già sono formate e pronte e a cominciare il loro lavoro. Nel Congresso, profondamente compreso dei gravi bisogni dell’ora presente e della necessità di una viva ed energica azione cattolica sociale, si mostrò in perfetto accordo con le idee esposte e si spera che quanto prima si abbiano a vedere i frutti che debbono arrecare le Delegazioni che dopo le esperienze di due anni furono sostituite alle primitive Commissioni. Alle 10 e mezza, dopo brevi e sentite parole di mons. Inama si chiuse il Congresso che lasciò in tutti la migliore impressione per i progressi del Comitato, per la viva partecipazione che i soci prendono alla sua azione e per i frutti sempre migliori che da questa a buona ragione si aspettano. Ora, come fu accennato ripetutamente nel Congresso sta specialmente nelle Delegazioni di spiegare la loro attività nelle singole vallate, studiandone esattamente i bisogni, riferendone alla Direzione e provvedendo d’accordo con essa all’erezione, allo sviluppo, e alla diffusione delle società dirette a istruire e ad educare il popolo, a migliorarne le condizioni economiche e a renderlo indipendente, a procurargli maestri che corrispondano ai suoi sentimenti, a salvaguardare la gioventù dai pericoli: in una parola a difenderne e promuoverne tutti gli interessi materiali e morali. |
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| 01901-1905
| Trento, 25 maggio Chi avrebbe detto che la festa delle società operaie cattoliche avrebbe fatta un’impressione così profonda da occupare la stampa trentina di ogni colore per una decina di giorni? Eppure ciò che non si aspettava, è avvenuto: segno evidente che quella festa ebbe l’importanza d’un vero avvenimento sociale, che attesta l’esistenza e la forza e la disciplinatezza della giovane democrazia cristiana del Trentino. Rileggendo un dopo l’altro i numeri del Popolo e dell’Alto Adige, si vede chiaro l’imbarazzo dei socialisti e dei liberali. Ora cercano di diminuire l’importanza della festa; ora chiamano a raccolta i loro fidi come se Annibale stesse alla porte; ora mostrano di ridere e di scherzare, ora sputano fiele e veleno; ora dichiarano – e questo è il caso dei liberali – che essi corte non ne fanno che di carnevale; ora si sforzano di far passare come una spettacolosa dimostrazione nazionale quale l’accoglienza fatta da una truppa non soverchio numerosa di gente raccogliticcia e di vario colore ai ginnastici reduci da Bologna . Ah, povero Alto Adige! Se lunedì sera fossero stati per le vie di Trento da 3500 a 4000 liberali, i capoccia del tuo partito non avrebbero dovuto mesi fa subire l’umiliazione di mendicare umilmente i voti dei clericali per impedire nei ballottaggi della V curia la vittoria dei socialisti. Ma la memoria di quei giorni sembra interamente spenta nella mente dei liberali di Trento che adesso vorrebbero andar uniti coi socialisti contro i cattolici; anzi, parlando con maggiore esattezza, sgambettano puerilmente dietro i socialisti, come il bimbo dietro la mamma al cui grembiale si tiene attaccato. Questa è infatti l’impressione che destano gli articoli scritti negli ultimi giorni dall’Alto Adige il quale non fa che sboccare e ripetere le frasi del Popolo. Osservate un po’. Il Popolo, alla vigilia del 16 maggio , rievoca la memoria del Taxil e della Vaughan e l’Alto Adige fedele scolaretto, ne ripete dopo la festa la meravigliosa trovata. Il Popolo non vede nel corteo delle società operaie che vecchiotti e ragazzetti, e poco dopo l’Alto Adige pappagallamente gli fa eco. Il Popolo, non curando menomamente il fatto che alla sfilata del primo maggio le vie erano quasi deserte e a quelle del 16 zeppe di spettatori, dice che la cittadinanza sopportò la dimostrazione clericale; e l’Alto Adige, incapace di dire qualche cosa di proprio, fuorché quelli spropositi di cronaca, riporta anche questa circostanza, vista attraverso gli occhiali del Popolo. Ma ciò che merita speciale attenzione è il disprezzo con cui il Popolo prima e poi, fedele alla consegna, l’Alto Adige parlarono delle persone che presero parte alla sfilata . Primo impegno del Popolo fu naturalmente di diminuire a tutta possa il numero dei cittadini che marciavano dietro il vessillo della Società operaia cattolica di Trento . Ma tutte le sue chiacchiere non distruggono il fatto che quel vessillo era seguito francamente da quasi trecento operai, quanti i socialisti non furono capaci di racimolare nella città per il loro corteo di quindici giorni prima. Sta bene notare, affinché non si creda che Trento sia proprio tutta liberale o socialista, e affinché certi scrittori da strapazzo non credano di poter far giorno della notte e notte del giorno e chiudere la bocca a tutti colla spudoratezza delle loro asserzioni. A Trento c’è un nucleo di operai che si vantano ancora di essere cattolici e v’è un nucleo di cittadini che vedono con simpatia ed appoggiano efficacemente questi buoni operai. Se finora su molti altri poterono più le iraconde diatribe, le dimostrazioni chiassose, lo spirito irreligioso e turbolento di rossi tribuni, v’è però a sperare che all’opera pacifica ma intelligente e costante dei cattolici saranno riserbati buoni successi e già fin d’ora chi mira con animo tranquillo ciò che hanno fatto i socialisti e ciò che hanno fatto i cattolici, riconosce a quelli il primato nelle monellate, a questi nel lavoro serio e proficuo. Ridotto ai minimi termini il nucleo cittadino, il Popolo trattò gli operai delle vallate da poco meno che cenciosi e ignorantissimi paria; e anche qui l’Alto Adige gli corse dietro. Sentite un po’ la sua prosa, e se sa troppo di lezzo, turatevi, leggendo, il naso. «Mentre infatti nella nostra città una incosciente schiera di poveri illusi – guidati dall’altrui malafede e da un’innata mania superstiziosa – girava quasi aspirando alla palma di una gloria a loro incompresa 1) – pochi ma coscienti e coscienziosi nostri giovani facevano nella turrita Bologna sventolare onorato il vessillo sul quale puro e terso stava il nome bello di Trento. E con quel vessillo, al quale avevano aggiunto l’alloro di altre vittorie, ritornarono ben meritando il plauso della terra natia. Ritornarono quasi a testimoniare che l’irrevocabile cammino anche il nostro paese deve assolutamente percorrerlo, e che la meta segnata dal progresso e dalla civiltà deve in epoca non troppo lontana essere e da tutti e da per tutto raggiunta». Così il «comporretto» del cronista dell’Alto Adige, che antepone i salti e le capriole di questi quattro ginnastici all’espressione solenne di duemila trentini, figli del lavoro, e offende questi nei loro sentimenti più sacri e si sforza di vomitare velenosa bava su coloro che hanno avviato il popolo trentino sulla via dell’educazione civile e del progresso economico e sociale. Povero diavolo! Crede forse lui di pascere il popolo con le trasparenti frase di un bolso irredentismo? È troppo poco; anzi è troppo per un popolo che è attaccato alle legittime autorità e che ha in uggia quel partito che al suono di «nazionalità» lo ha pelato e dissanguato e roso fino alle ossa. Del resto il Popolo e l’Alto Adige credono di avvantaggiare il loro partito col mostrare disprezzo per gli abitanti delle vallate, si sbagliano di grosso. Gli abitanti delle vallate, messi a cognizione del linguaggio usato verso di loro dai socialisti e, sull’esempio di questi, dai liberali, si metteranno sempre più in guardia contro gli uni e gli altri, e sapranno che conto fare di quei partiti che non li cercano e non apprezzano se non quando possono fare di essi strumento alle loro mire private. Sotto questo riguardo c’è da rallegrarsi del contegno del Popolo e dell’Alto Adige e da ringraziarli di cuore perché si sono mostrati nella loro vera faccia al popolo trentino. Se poi ci sia da rallegrarsene anche per la città e la sua buona armonia colla grande maggioranza del paese, è un’altra questione che, considerata a mente tranquilla e serena, potrebbe convincere le persone più assennate che non è cosa buona farsi pedissequi del Popolo e dei suoi ispiratori. Un cittadino. 1) Variante dilavata di un pensiero del Popolo. |
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| 01901-1905
| Il telegrafo vi avrà portata la risposta tanto attesa del ministro dell’istruzione . L’impressione che ha fatto sugli studenti è varia . Chi pensa all’entusiasmo che ha riacceso in questi ultimi giorni la lotta ed è quello che egli si riprometteva, trova la risposta fredda, evasiva, inconcludente. Chi conosce però d’altro canto la situazione parlamentare e più ancora la situazione difficile in cui era – di fronte alla suscettibilità dei pantedeschi – il ministro trova la risposta soddisfacente; ed io, francamente, sono fra questi ultimi. L’importante era di ottenere una dichiarazione sulle intenzioni del governo e questa dichiarazione (sempre a patto che si ricordi di essere in Austria) deve parere ad ognuno abbastanza chiara. Il ministro in fin dei conti è venuto a dire che (erforderlichermassen) all’occorrenza presenterà un progetto alla Camera per una propria università. L’intenzione dunque c’è, e l’«occorrenza» penseranno i deputati o in genere gli italiani a crearla. A questa risposta gli studenti erano su per giù preparati dal discorso del baron Malfatti tenuto iersera all’adunanza generale degli studenti. L’onorevole osservava appunto che se la risposta sonasse come... press’a poco suonò, si dovrebbe starne contenti. All’Adunanza erano comparsi fra entusiastici applausi anche il professor Pacchioni di Innsbruck, il prof. Zamboni e il dr. onor. Bennati. Il prof. Pacchioni disse brevi parole di entusiasmo e di speranza. Sperava che presto la lotta finirebbe, o almeno avrebbe una sosta. E così sarà! Una sosta! Ma se i fatti non corrisponderanno alle promesse, ritorneremo con entusiasmo alla lotta! gf. |
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| 01901-1905
| Alla riunione popolare, convocata dai socialisti Gerin e Ottolini, intervennero molti operai e studenti . Si apre il comizio alle ore 10 ant. A presidente viene eletto Ottolini. Egli spiega le ragioni della convocazione da parte operaia: un’università italiana eleverà anche la cultura del proletariato. Dopo lui prende la parola il referente Gerin. Quando si incominciò a spargere il seme socialista, le classi colte accolsero in sul principio il movimento con simpatia. Più tardi, di fronte al carattere internazionale dello stesso, il socialismo fu combattuto come antipatriottico e antinazionale. Ora noi vogliamo mostrare che la taccia è una calunnia, interessandoci della questione universitaria la quale non è questione di classe, ma dell’intera nazione. Del resto noi la mettiamo anche tra le questioni economiche. La nostra iniziativa suona anche protesta contro il monopolio intellettuale, e contro le restrizioni della libertà d’insegnamento. Nelle scuole popolari si insegna il catechismo e la storia sacra; solo all’università si insegna liberamente la scienza, e di questa ha bisogno anche il proletariato. Solo allora sarà possibile la vera civiltà. Quando il proletariato organizzato sarà arrivato alla vittoria decisiva, troverà fra le istituzioni che devono restare, anche l’università. Noi facciamo anche questione di solidarietà, perché anche i professori, i medici, ecc. sono lavoratori. Infine l’università servirà per combattere la reazione, poiché dogma e scienza non possono andare d’accordo. Faccio voti che la scienza nella ventura università sia scienza popolare e non officiale e che fra l’ortodossia in economia politica si imponga il marxismo. – L’oratore fa poi la storia della lotta universitaria negli ultimi tempi, rileva la concordia dei partiti e la slealtà degli avversari. Prelegge quindi all’assemblea un ordine del giorno. Dopo il Gerin parla lo stud. Liebmann a nome degli studenti italiani. Ringrazia gli operai per il loro interessamento, dimostrato anche in genere dal partito in Innsbruck. Rileva il metodo falso degli slavi per il conseguimento dei loro desideri, che, in quanto a principio, noi non contestiamo. Respinge e dimostra false le insinuazioni del prof. Waldner e della Ostdeutsche Rundschau. Lo studente Zuccali, come socialista, porta un saluto speciale agli operai organizzati, in nome degli studenti socialisti. Lo stud. Degasperi domanda la parola per una dichiarazione. Porta anch’egli un saluto speciale che fra gli operai socialisti arrecherà forse meraviglia. Porta il saluto degli studenti clericali. Tra i due partiti, fra i due indirizzi sociali esiste un immenso divario, un abisso! I suoi consenzienti non possono essere naturalmente d’accordo con molte idee espresse dal Gerin né in riguardo religioso, né in riguardo politico. Ma benché non prescindano né gli uni né gli altri dai propri principi, qui non è il luogo di discuterli. Oggi si afferma un postulato comune di nazionalità e di civiltà. Oggi gli operai si sono dichiarati per questo postulato anzitutto in nome della cultura e della giustizia e per questo li saluta. Si augura che all’Università superiore in Trieste segua subito un nuovo incremento dell’educazione fra le masse, poiché l’estensione della cultura non deve nuocere a nessun partito, e la verità non ha nulla a temere. Dopo che diversi oratori, operai e studenti, ebbero discusso l’ordine del giorno Gerin, esso venne accettato con una modificazione proposta da Zuccali. L’ordine del giorno dei lavoratori italiani in Vienna protesta contro «una delle più grandi infamie sociali», il monopolio della cultura, saluta lo risvegliarsi della gioventù studiosa, afferma l’unione degli operai per ottenere una Università italiana, assicura agli studenti l’appoggio degli stessi, e mentre pur riconoscendo a tutte le nazionalità pari diritti, protesta contro ogni tentativo di procrastinazione e contro la delazione politica operata nella lotta degli slavi. fg. |
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| 01901-1905
| Cattolici trentini! Una questione grave, interessante sovratutto la cultura nazionale, commuove presentemente tutti gli italiani delle provincie austriache: la questione universitaria! È nota la causa prossima che concentrò d’un tratto la nostra attenzione su questo antico postulato e che resuscitò in noi l’entusiasmo per la lotta e la fede nella vittoria. In quei giorni nei quali alle violenze degli avversari rispondevano gli italiani tutti con un grido di indignazione e di protesta, noi, studenti delle associazioni cattoliche, non secondi a nessuno nell’amore alla patria e nell’interesse per una questione altamente nazionale, non venimmo meno al nostro dovere, non abbandonammo mai il nostro posto. In quei giorni, belli di battaglie generose, ci confortava e ci raffermava il pensiero che combattevamo per idee e postulati che erano le idee e i postulati di tutto il popolo nostro. Cattolici trentini! È giunto il momento di dimostrare col fatto a tutti che quel pensiero corrispondeva veramente alla realtà e che tutti i cattolici trentini sono concordi coi propri rappresentanti e cogli studenti nella rivendicazione dei loro legittimi diritti. La sottoscritta presidenza costituitasi in comitato promotore, vi invita ad una solenne adunanza che si terrà in Trento al 1 gennaio 1902, ore 4 e mezzo pomeridiane . Nel Teatro dell’oratorio P.V., gentilmente concesso. Cattolici trentini! In quell’adunanza noi affermeremo i nostri diritti, ripeteremo le nostre domande e le nostre proteste. Nessuno manchi all’appello, nessuno manchi di venire personalmente o di spedire la propria adesione. Si tratta dell’università italiana a Trieste, si tratta di una questione, da cui dipenderà il nostro avvenire intellettuale e la elevazione nostra a popolo forte, moralmente unito e libero! Trento, 27 dicembre 1901 La Presidenza dell’Associazione Catt. Universitaria, come comitato promotore. Le tessere d’ingresso possono venir prelevate nella nostra sede, via Lunga N° 23 I piano. |
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| 01901-1905
| La questione dei rapporti esistenti fra il cattolicismo e la cultura moderna è certo di grandissima attualità: una questione che hanno suscitato molti, e alla quale molti diversamente hanno risposto. I più vedono nel cattolicismo un grande avversario della cultura moderna, come ultimamente l’Harnack , il Chamberlain, l’Hoensbroech , da noi il Sergi ed altri. Sarebbe quindi una viltà, dice l’Erhard nell’introduzione, per un dotto cattolico, lo sfuggire la questione, tanto più che le accuse più sensibili sono mosse alla Chiesa in nome del puro e primitivo Cristianesimo. L’Autore constata anzitutto 3 fatti: 1) Il ripetersi frequente di voci che segnalano la decadenza del cattolicismo e parlano di un’altra religione che vi si deve sostituire 2) il progressivo allontanarsi delle classi colte dalla Chiesa cattolica 3) le manifestazioni di malcontento con una serie di rapporti ecclesiastici esistenti, in scritti di riforma, lettere ecclesiastico-politiche ecc. Questi fatti formano il perno della questione, la quale però non può venir sciolta coll’affermare l’incompatibilità assoluta della Chiesa colla cultura moderna, giacché la storia si oppone recisamente a questo concetto. L’Autore spera di aver sciolto la questione quando avrà risposto alle tre domande seguenti: 1) Com’è sorta l’odierna situazione ecclesiastico-religiosa? 2) Quali sono i caratteri essenziali e la portata del contrasto fra la Chiesa cattolica e il mondo moderno 3) Quale compito spetta ad un prossimo avvenire? Per rispondere alla prima domanda l’Erhard risale molto più in là della Riforma, studia i rapporti fra Chiesa e Stato nel medioevo, giudica questa età, la quale per lui non è per nulla il massimo fiore del cattolicismo, considera il progressivo indebolimento dell’influsso della Chiesa nel secolo XIV e XV e l’apparire dei due più potenti fattori dell’età moderna: il soggettivismo e l’individualismo in opposizione all’universalismo del medioevo. Dal soggettivismo nacque la rivoluzione ecclesiastica, la riforma. Di questa l’Erhard riconosce imparzialmente i meriti e i demeriti. S’aggiunse poi il barbaro principio «cuius regio, illius et religio», che finì l’opera di distruzione. Contro allo scisma la Chiesa mise in opera tre fattori: il Concilio di Trento, la Società di Gesù, il Papato e i principi cattolici. Riguardo ai gesuiti l’Autore constata di fronte ad asserzioni in contrario 1) 1’ordine dei gesuiti dal punto del diritto ecclesiastico è un ordine come gli altri e non è affatto in un più intimo legame coll’essenza del cattolicismo 2) per il contrasto fra esso e gli ordini più antichi, per la spiccata individualità del suo fondatore per il tempo e le condizioni della sua fondazione, esso ha soltanto un valore relativo storico e non un valore assoluto 3) per conseguenza è falso che cattolicismo e gesuitismo siano la identica cosa 4) Il carattere relativo che all’ordine dei gesuiti ne viene è anche documentato dalla storia, poiché esso dimostra tutte le mancanze e i difetti che si associano ad un lavoro umano. Ogni cattolico è perciò libero di accettare o no tanto le pratiche di pietà e di divozione particolari ai gesuiti, quanto il loro particolare indirizzo in teologia. Ma questi tre fattori, ripiglia l’Erhard, non bastarono a scongiurare la catastrofe. Alla metà del sec. XVIII subentrarono due nuovi mali: l’assolutismo nello Stato e il particolarismo nella Chiesa. Il sec. XIX ha poi compito il passaggio dalla rivoluzione anticristiana alla rivoluzione antireligiosa e antiteistica. Rappresentanti di questa tendenza sono i materialisti Moleschott , Vogt , Büchner e Haeckel. Naturalmente con queste tendenze in campo, la Chiesa non poteva progredire. Non manca però anche da questa parte qualche passo in avanti. Come tale l’A. denota il risorgere della filosofia di S. Tommaso. La raccomandazione però di Leone XIII in questo riguardo non deve essere interpretata in modo che tutti i principi siano con ciò dichiarati inoppugnabili. S. Tommaso dev’essere per la teologia e la filosofia un faro e non una pietra di confine. Più innanzi l’Autore parla delle pietre miliari dello svolgimento moderno entro il cattolicismo: il sillabo, il concilio vaticano, la fine dello stato della Chiesa. Il primo non aveva certamente valore dogmatico. Riguardo allo stato della Chiesa, l’Autore constata che esso era una delle forme dell’indipendenza necessaria al pontefice. «Che non sia l’unica forma possibile dimostra già il fatto che essa sorse appena nell’VIII secolo» (p. 283). Ed ora viene la parte più interessante e più aoggettiva del libro. Come farà la Chiesa a riguadagnare il mondo colto? Quale è il compito dei cattolici nel secolo XX? Dopo aver affermato che della separazione del cattolicismo dalla cultura sono responsabili in parte anche i cattolici e che questa separazione non è assoluta, ma che in sé la moderna cultura segue ancora da lontano le tracce del cristianesimo, l’Erhard precisa il compito dell’avvenire così: 1) I rappresentanti della cultura moderna devono venir spinti all’autocritica: la dichiarata bancarotta della scienza dà ai cattolici il diritto di pretenderlo. 2) I cattolici devono venir eccitati a lavorare praticamente nel campo della riconciliazione; a tal uopo essi dovranno andar incontro ai nuovi bisogni religiosi ed ecclesiastici, benché non concordino colla maniera di esternare la vita religiosa nel medioevo. 3) I cattolici devono cercare ogni mezzo per liberarsi dalla taccia d’inferiorità: affermarsi nella teologia, nella filosofia e nella storia non meno che nelle belle arti e nelle lettere. La fondazione di università cattoliche, pensa l’Autore, per quanto sia una cosa ideale, non è nostro compito prossimo, quanto invece l’affermarsi nelle università già esistenti. Come vedono i lettori, l’opera del prof. Erhard è uno di quei libri che il Tommaseo chiamerebbe «libri legione». E proprio un libro d’oggi che si tirerà dietro chi sa quanti altri libri: e niente di meglio potevamo augurarci della discussione su questo importantissimo argomento. Che esso sia stato anche apprezzato come tale lo dimostra il fatto che in 14 giorni si rese necessaria una seconda edizione. A.D. |
37cdd27b-0a55-4741-9376-5768c113d343 | 1,902 | 3Habsburg years
| 01901-1905
| La bancarotta dei darwinisti ebbe una dimostrazione chiara ed intuitiva nella polemica scientifica sostenuta da Edoardo Hartmann , il noto autore della «Philosophie des Unbewussten» contro i più sfegatati darwinisti. Nel libro succitato egli cercava dimostrare che la teoria meccanica darwinista non è in grado di spiegare l’origine delle specie superiori e che per spiegare tale origine sono assolutamente necessari argomenti di natura spirituale. Il libro venne accolto dai darwinisti con un sorriso di compassione per l’autore, il quale, com’essi dicevano, non era da prendersi sul serio per mancanza di cognizioni in storia naturale. – Dopo alcun tempo comparve un libro anonimo intitolato: «Das Unbewusste von Standpunkte der Physiologie u. Descendenztheorie» il quale con grande apparato di nozioni ed argomenti tolti dalla storia naturale si lanciava contro E. Hartmannn e la sua filosofia. Il libro fu accolto con grande giubilo dai fautori di Darwin ed Ernesto Haeckel , il più grande fra essi, ebbe a dichiarare solennemente dalla cattedra che egli stesso non avrebbe saputo difendere il darvinismo, in modo migliore. Quand’ecco dopo pochi mesi apparisce una seconda edizione dello scritto polemico con queste piccole modificazioni: 1) v’era il nome dell’autore, il quale non era altri che E. Hartmann stesso; 2) il libro portava un’appendice, nella quale con una dimostrazione stringentissima ad absurdum annientava senz’altro tutti gli argomenti di prima. a.d. |
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| 01901-1905
| [...] Incaricato dalla Presidenza dell’Associazione a fungere in questa assemblea da relatore sulla questione universitaria, mi limiterò anzitutto ad una breve cronaca di quegli avvenimenti i quali fecero sì che una questione ristretta prima ad interesse ed importanza locale, allargasse mano mano la propria cerchia, tanto da diventare tutto d’un tratto in questi ultimi tempi una questione austriaca, nel senso più largo della parola. La prima tappa era stata segnata ancora nel 1863, quando il deputato on. Consolati presentava alla Dieta di Innsbruck la proposta che all’Università di Innsbruck almeno le materie più difficili della facoltà legale e medica venissero spiegate contemporaneamente in tedesco e in italiano. In seguito a questa proposta fu istituita già allora una cattedra giuridica italiana, la quale cessò assai presto. Undici anni fa però parve che il governo ritirasse il disegno primitivo, e furono istituite le prime cattedre parallele della facoltà giuridica. Nel 1899 il governo fece un passo in avanti e col voto dell’intera facoltà giuridica venne stabilita l’erezione di due nuove cattedre, l’una per la procedura civile, l’altra per l’economia politica, e vennero invitati a prepararsi alla libera docenza il dr. Francesco Menestrina e il dr. Giovanni Lorenzoni . Nel primo semestre infatti del 1900 il primo di questi giovani studiosi si presentava coi suoi titoli a conquistare la cattedra di procedura civile. Ma allora incominciò l’agitazione dei tedeschi. Ai 14 marzo del medesimo anno il deputato Erler presentava alla Dieta un’interpellanza in cui chiedeva quali provvedimenti intendesse prendere il Governo di fronte all’invasione degli italiani per salvare il carattere tedesco dell’Università di Innsbruck. L’interpellanza però rimase senza risposta e il dr. Menestrina dopo aver conquistato passo passo il terreno, sembrava ormai fosse giunto alla meta. Ma gli studenti tedeschi radicali incominciavano l’agitazione, e minacciavano d’impedire con la violenza la solenne prolusione in italiano del nuovo libero docente dr. Menestrina. Contemporaneamente, nella seduta del 6 luglio 1901 della Dieta provinciale, il dr. Pajr presentava un’interpellanza diretta contro la utraquizzazione dell’Università di Innsbruck. All’interpellante si associava il dr. Mjrbach, allora Rettore dell’Università, e per gli italiani il barone Malfatti. Giacché fin d’allora e deputati e studenti italiani, mentre accettavano quel riconoscimento di fatto dei nostri diritti, l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck, protestavano però contro di essa come una mezza misura, né degna degli italiani, né sufficiente, né come i fatti ebbero di recente a dimostrare possibile fra il radicalismo nazionale dell’Università innsbrucchese. Intanto a scongiurare una lotta sul terreno accademico, la facoltà giuridica aveva deciso che la prolusione del prof. Menestrina si facesse in forma privata, il che anche avvenne. Gli studenti tedeschi radicali, per allora corbellati, andarono alle vacanze con un arrivederci a quest’autunno che voleva dire: Quod differtur, non aufertur. Gli studenti trentini poi tornarono ad Innsbruck con la certezza che la lotta sarebbe scoppiata alla prima lezione del prof. Menestrina. Tutti sanno che la previsione si avverò ; ed ora siamo proprio al momento epico della lotta. Il giorno 27 ottobre, il nuovo docente privato saliva la cattedra tra gli applausi degli italiani e i fischi dei tedeschi; la lotta intorno a quella cattedra si ripeté tre volte; gli italiani, forti dell’appoggio di tutto il paese che applaudiva da lontano e da vicino; i tedeschi forti del diritto dei più: eppure, cosa strana! tutti, e chi applaudiva e chi fischiava, combattevano contro la medesima cosa; contro l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck; gli italiani, perché volevano, sulle conseguenze logiche degli avversari, conquistare un’università nazionale; i tedeschi perché volevano mantenere all’università innsbrucchese il carattere tedesco. Intanto, come contraccolpo ai fatti di Innsbruck, successero le dimostrazioni di Vienna e di Graz e le grida di: «Vogliamo l’università italiana!» echeggiarono fin sotto l’atrio del Parlamento. D’allora in poi la questione dell’università italiana diventò una questione austriaca. Un’ora dopo la dimostrazione, i giornali della capitale parlavano a lungo della questione, ne rifacevano la storia e la maggior parte simpatizzavano in certa maniera, naturalmente senza smentire i loro connazionali, per le domande degli italiani. Solo l’organo dei pantedeschi, l’Ostdeutsche Rundschau, si faceva scrivere dal teatro della lotta un articolo, in cui osservava che gli studenti tedeschi nel loro fervore giovanile avevano sbagliato tattica e che essi avevano ripetuto in tale maniera quegli atti di generosità dei tedeschi, per i quali essi aiutavano i propri avversari. Parallela all’azione universitaria, si svolgeva l’azione parlamentare. I deputati italiani, appena avuto sentore dei fatti di Innsbruck, presentavano alla camera un’interpellanza, dove chiedevano al Governo l’erezione di una completa università italiana a Trieste, ora che risultava evidentemente vano il tentativo di una mezza misura a Innsbruck. Qui intanto gli avvenimenti erano precipitati. Il senato accademico, cedendo alle violenze degli studenti tedeschi radicali, ordinava l’interruzione delle lezioni al prof. Menestrina. Questo passava ogni limite ed esasperò a ragione all’estremo gli italiani. La parola d’ordine degli studenti era: ad Innsbruck! e chi poté, lasciò Vienna e Graz e comparì sul teatro della lotta. Eravamo al giorno 7 novembre, e tutti aspettavano con ansia la risposta del ministro Hartel . Il prof. Pacchioni telegrafava da Vienna di sperare bene. Al Parlamento, sulle gallerie, gli studenti italiani pendevano dalle labbra del ministro: ad Innsbruck si aspettava al telegrafo. E la risposta venne: tutti lo sanno: fu la risposta di un ministro che non vuole dire chiaramente né sì né no. L’Hartel diceva pressapoco: finora il Governo credette bene di venire incontro ai desideri degli italiani con le cattedre parallele ad Innsbruck; se la cosa, per le lotte nazionali, non sarà possibile, come pare, il Governo dovrà pensare a provvedere altrimenti a che gli italiani possano godersi un’istruzione superiore. I deputati ed in genere gli studenti in Vienna videro in queste ultime parole una promessa abbastanza chiara per l’Università a Trieste. A Innsbruck, invece nel grande comizio del 7 novembre in cui erano rappresentati tutti gli studenti, vari municipi e la stampa, gli studenti votarono un ordine del giorno radicale su tutta la linea. Io non voglio qui decidere, se esso fosse giustificato o ingiustificato, opportuno o meno opportuno: su tale cosa deciderà il futuro e questo futuro speriamo non sia ancora giunto. Certo è che la stampa tedesca e slava interpretò la risposta in genere più favorevolmente che noi: tanto è vero che la parola d’ordine per tutte le nazioni non equiparate fu questa: se ricevono l’università gli italiani, perché non ce ne danno una anche a noi? E d’improvviso ci trovammo a lato nuovi e più forti competitori – gli sloveni, i croati, i ruteni, gli czechi, i tedeschi: la questione era precipitata al plurale. La stampa tedesca ne approfittò per trarre la cosa in ridicolo, e si parlò d’università ladina e d’una per gli zingari. In seguito a questo ed alle condizioni di moribondo in cui si trovava il Parlamento, qui non fece passi in avanti la nostra causa, benché i nostri deputati non perdessero alcuna occasione sia nel plenum della Camera, sia nelle commissioni o per via di interpellanza. Ad Innsbruck successe una sommossa verso destra. Gli studenti tedeschi radicali capirono che le loro violenze facevano il nostro comodo ed ubbidendo alla Ostdeutsche Rundschau, riprovarono per vile interesse il passato e promisero di essere per l’avvenire gli uomini dell’ordine. Altrettanto chiedeva il Rettore agli italiani, ma questi non s’impegnarono. L’università venne tuttavia riaperta e le lezioni del prof. Menestrina ripigliarono il loro corso tranquillamente, però tra le dichiarazioni dei giornali tedeschi che dicevano: È l’ultima concessione che vi facciamo. E la questione rimase insoluta. È chiaro che ora essa si trova in un periodo di tregua, non concessa da noi ma portata dalla necessità delle cose: quando ne uscirà? non è facile il dirlo: probabilmente la lotta scoppierà di nuovo quando si inaugurerà la seconda delle due cattedre stabilite, quella del dr. Lorenzoni. Questo è certo, che il Governo si troverà sempre più stretto nel dilemma o di mantenere e completare le cattedre parallele in Innsbruck e scontentare tanto italiani che tedeschi, o di concederci un’università propria su terra italiana, accontentarci almeno noi. Il Governo avrebbe pure escogitata una via di mezzo, quella cioè di completare le cattedre in Innsbruck, poi dichiararle indipendenti, istituendo un’accademia per sé e gli italiani in Innsbruck. Ma questo progetto, oltreché con ogni probabilità non incontrerebbe le simpatie dei tedeschi, non potrebbe essere accettato dagli italiani. Che cosa vorrebbe dire un’accademia italiana o una semi-università incompleta in terra tedesca, come vi si adatterebbe la nostra dignità e quella dei docenti? Del resto noi non avremmo conquistato che una scuola professionale mai un centro di cultura nazionale. Poiché, o signori, quale è la ragione prima della nostra domanda? Certo vi hanno parte anche motivi professionali: che il medico, il professore, l’avvocato possano studiare in quella lingua nella quale insegnano e non debba accadere, come avviene a taluno, di rifare poi per la pratica i suoi studi in italiano. Ma non è questa, o signori, la ragione principale. Noi vogliamo università italiana su suolo italiano per stabilirvi la nostra palestra di cultura e i nostri laboratori della scienza, ove agli studenti italiani austriaci sia possibile di coltivarsi anche oltre quello che tende l’esaminatore, ove la gioventù prenda amore alla scienza alle lettere, sì da crescere degna della nostra grande cultura nazionale! Le università, o signori, sono state sempre non solo i laboratori del pensiero scientifico, ma anche le fucine ove si idearono e produssero i grandi rivolgimenti intellettuali dei popoli. Ebbene, o signori, noi vogliamo un’università italiana la quale ci metta in grado di gareggiare con le altre nazioni dell’Austria, noi vogliamo un’università ove si formi una generazione che trovi il vanto non nello sprezzare i tedeschi e la loro cultura; richiamandosi ai nostri grandi Padri, ma nel far sempre meglio dei tedeschi nel superare la loro cultura, vogliamo in poche parole una università italiana la quale sviluppi il nazionalismo positivo dei doveri e non solo dei diritti, in maniera che si possa dire agli italiani in Austria non che gli italiani sono semplicemente gli avversari nazionali degli slavi o dei tedeschi, ma che sono un popolo, che è più colto e più sviluppato degli slavi e dei tedeschi. E questa nostra domanda, o signori, ci è garantita dalla costituzione nel paragrafo 19 delle leggi fondamentali . La legge c’è, ma chi vi pon mano? I tedeschi ci sogliono rinfacciare difficoltà pratiche, mancanza di professori e di studenti. Il corpo docente italiano di Innsbruck, con la sua risposta al prof. Waldner, pubblicata dai giornali, si dispensa dal confutare questo poco solido argomento. Ma se anche la nostra debolezza esistesse di fatto, non si entrerebbe nel circolo vizioso di non concederci la cultura, perché non abbiamo la cultura? Una debolezza vera fu forse che per il passato non abbiamo affermato abbastanza forte questo diritto, e a questo c’è ancora tempo di rimediare; marchiamo forte il nostro diritto di un’università italiana. E poiché per ora le circostanze pratiche e la voce comune indicano Trieste come sede dell’Università, affrontiamo tutti la ritrosia del Governo e la pervicacia dei tedeschi radicali con un grido unanime: Viva l’università italiana di Trieste! Ancora una dichiarazione che riguarda specialmente noi, studenti delle Associazioni cattoliche. Lo studente socialista Ferdinando Pasini , fungendo da relatore dell’ottavo congresso della Società degli studenti trentini , finiva la sua relazione con le precise parole che non posso fare a meno di leggere: «Tutta quanta la mia relazione è stata fatta col tacito presupposto, che la nostra campagna sia diretta ad ottenere un vero istituto superiore di studi aperto a tutti i soffi della scienza moderna, senza menoma restrizione allo spirito della libera ricerca e del libero pensiero, non quale anche la loro solita intransigenza ed intolleranza, i clericali già cominciano a pretendere. Gli studenti di quel partito, nel loro congresso del 18 settembre a.c. a Mezzocorona, vollero occuparsi, quest’anno, anche della questione universitaria, ma in seduta segreta, dove, secondo le scarse e riservate notizie della Voce Cattolica si discusse vivamente e a lungo sulla questione, e si decise di invitare i deputati e in modo speciale quelli di parte clericale a occuparsi energicamente della università italiana, provvedendo al sentito bisogno degli studenti accademici italiani. Di occuparsi in che modo ai deputati di parte clericale non è qui veramente detto, e noi ne resteremmo ancora all’oscuro, se non sapessimo fin dal giugno scorso, che nella festa universitaria della fondazione della Società Cattolica in Innsbruck, tra i discorsi e i brindisi delle persone importanti intervenute, ce n’è stato anche uno, e precisamente un deputato “in nero ammanto” che credette bene di augurare alla futura università cattolica italiana! E questo, mi diceva in confidenza uno di quei giovani véliti del clericalismo, questo è il programma e il voto di noi studenti cattolici: vogliamo proprio una università di carattere confessionale, sul tipo di quella che si sta piantando ora in Salisburgo. Non ne abbiamo ancora proclamata e iniziata pubblicamente la lotta, ma, a dire la verità, se due anni fa al congresso di Pergine abbiamo espresso il voto per una Università a Trento, si era perché crediamo che una università cattolica non possa sussistere in Austria fuorché a Trento. Denuncio fin d’ora, o signori, queste perfide intenzioni che non si ha il coraggio di portare alla luce del sole, perché si sappia qual valore dobbiamo accordare alla cooperazione, che costoro vorrebbero fingere alla nostra causa, le denuncio con tutte le forze dell’anima contro un tale programma, destinato a buttare presto o tardi, e probabilmente nel momento più difficile della lotta, il flagello della guerra civile tra gli italiani dell’Austria e magari a distruggere per sempre tanti sforzi ininterrotti ch’essi hanno fatti per migliorare le condizioni intellettuali della loro nazione; le denuncio esortando i nostri deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi; cioè col prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza poiché essi non offrono per tutte, indistintamente, le varie correnti del pensiero moderno, quelle garanzie di libertà che noi saremmo sempre disposti a garantire anche al loro pensiero; e perché noi piuttosto di mettere capo ad una università, che riuscirebbe un pericolo costante per la civiltà ribadendo i ceppi dell’ingegno umano, preferiamo mille volte e più di rinunciarvi per ora e per sempre». Signori! io non v’ho letto questo sfogo del signor Pasini per avere occasione di un attacco personale. È certo però ch’egli è un ingannato o un ingannatore. Giacché, come fu già dichiarato da un mio collega in una solenne adunanza di studenti ad Innsbruck, è falso che l’Associazione universitaria cattolica tridentina abbia avuta l’idea di un’università italiana cattolica, ovverosia confessionale; e sappia il signor Pasini, che se l’idea l’avessimo avuta, avremmo avuto anche il coraggio di pubblicarla come abbiamo avuto il coraggio di manifestare tant’altre idee di ordine religioso che hanno costato a qualcuno di noi, oltre che ingiurie e isolamento perfetto, anche pugni e schiaffi. Ma di questo, o signori, si è già parlato abbastanza ad Innsbruck. Volevo soltanto «denunciare» anch’io qualche cosa qui davanti al vero popolo trentino, dinanzi ai suoi rappresentanti, volevo, ripeto, «denunciare» anch’io qualche cosa. Denuncio fin d’ora, o signori, – dirò anch’io col Pasini, – questo perfido sistema di creare pregiudizi o false opinioni in riguardo agli avversari per poi annientarli, sistema che è tanto più da deplorarsi quando si tratti di una questione che è di tutti gli italiani. Riguardo a noi, i fatti vennero a smentire queste false insinuazioni. Nessuno di noi mancò in quei giorni né al lavoro delle assemblee, né a quello dei comitati. Pareva che la pace fosse fatta e non si dovesse temere «il flagello della guerra civile». Ma poi, passate le burrasche, parvero ritornare i consigli antichi, e da Vienna si tentò ogni mezzo per cacciarci dal comitato , si tirarono in campo le nostre opinioni religiose ed ecclesiastico-politiche, e si tentò in pubblica adunanza di metterle in contraddizione, udite, o signori, con l’università italiana. Era la pratica della teoria, tanto applaudita a Rovereto, di Ferdinando Pasini, il quale non contento di escludere noi studenti e di presentare ordini a nome di tutti gli studenti accademici trentini, esortava «i deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi, cioè di prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza». Ebbene, o signori, contro tale altezzoso sistema di sorpassarci e di ignorarci, noi protestiamo energicamente e con tutta l’anima e v’assicuro che cercheremo di far sentire in tutte le occasioni la nostra esistenza. Vivaddio! Non è questo nostro paese nella sua gran maggioranza cattolico? Non sta il popolo, il vero popolo, dietro di noi, o i suoi rappresentanti non sono in maggioranza di parte cattolica? Non c’è bisogno di esortazioni, ma se fosse il caso noi vorremmo dire ai nostri deputati: Rispondete a queste esortazioni di parte anticlericale con l’occuparvi con sempre maggiore energia della questione universitaria, e gli studenti e l’immensa maggioranza del Trentino saranno con voi. Ancora una cosa. Il signor Pasini terminava la sua applaudita filippica, motivandola con l’assicurare che i clericali non concederebbero agli avversari la libertà di pensiero e di ricerca. Lasciate che gli risponda con un augurio. No, o studenti anticlericali, andate pure nei laboratori, nei gabinetti, nelle biblioteche, cercate di ricercare, studiate e ristudiate col vostro ingegno libero da tutti i ceppi. Cercate! Novelli Ulissi, ripartite da Itaca, non cacciati dalla noia, come diceva nella sua ultima conferenza sulle funzioni sociali del pessimismo il prof. Pasini, ma attirati dalla sete del vero e del buono. Avventuratevi sul mare tempestoso, passate le colonne d’Ercole, lanciatevi arditamente per l’oceano infinito, vagate e cercate! Se la stella vi sarà propizia, se non farete prima naufragio, troverete il monte della salute. Dopo tante fatiche e tante aberrazioni ritornerete sulle antiche vie degli avi, alla religione delle vostre madri, al Vero davanti al quale chinan la fronte e Dante Alighieri e Michelangelo e Raffaello e il Vico e il Muratori e Alessandro Manzoni e tutte le maggiori glorie italiane. |
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| 01901-1905
| Ho potuto leggere soltanto oggi la Sua... comunicazione ! Ella, dopo aver accennato a parecchi oratori «sit venia verbo» se la piglia specialmente con me per la chiusa della mia relazione, o del «brodoso imparaticcio» come sa dire meglio Lei, quale persona molto pratica di discorsi e di conferenze . Il signor professore anzi mi fa anche la grazia di un consiglio, insinuato invero alquanto in ritardo, ma che appunto per questo, è tanto più efficacemente voluto. Ella sarebbe cioè dell’avviso ch’io, prima d’incominciare la mia relazione, avrei dovuto venire da Lei a dare una prova del mio coraggio nello sfidare sino «i pugni e gli schiaffi». Ebbene, signor Pasini, veda ingenuità! Io pensavo invece proprio il contrario. Pensavo che Ella nella Sua infinita lealtà (ne possiede, come pare, da metter fuori cambiali), prima di parlare a proposito delle nostre idee dell’Università italiana espresse a Mezocorona, e prima di parlare come ha fatto con tanta disinvoltura e con il poco fondamento (veda la rettifica del collega Puelli ) avrebbe dovuto informarsene meglio, e venire non dico da me, povero studentello senza buona creanza e senso comune, ma dal presidente dell’Associazione, oppure dal relatore di quel giornale che riportava in argomento sì magre e scarse notizie. Forse avrebbe appreso, che le nostre intenzioni non erano proprio così «perfide» da meritare una denuncia tanto solenne ed un’esortazione così marcata ai deputati anticlericali. Ma Ella credette bene di non farlo; e così siamo rimasti a pari condizioni. Lei ha detto quello che Le è parso bene di dire in un’adunanza anticlericale; io quello che m’è parso giusto di dire in un’adunanza clericale: differenze ce ne saranno tante sicuramente; p. e. (lo concedo volentieri anch’io) alla mia prosa occorevano le «stampelle», alla sua forse sarebbe occorso un freno, o un po’ di zavorra per tenere le ali un tantino più rasenti alla verità, Le pare? In quanto alle altre lezioni che Ella ha la bontà di darmi, lezioni di lealtà, di buona creanza, di galantomenismo, di coraggio civile e di senso comune, non ho voglia davvero di rispondere. Se ne avessi voglia, signor Pasini, comincerei col citare quello che scriveva l’Alto Adige (19-20 febbraio 1891) a proposito di un certo Adone Spranfini (forse lo conosce) e compagnia. Se ne ricorda? «Molti (diceva l’Alto Adige moralista) restano per tutta la vita nella loro miseria morale ed in questa nevrotica fine di secolo trovano sempre giornali che stampano i loro saggi di feroce intolleranza.» Ma il secolo di mi parlava l’Alto Adige è morto, e ne abbiamo cominciato un altro, il secolo dei superuomini. Mi avevano detto, signor professore, che Ella, a cavalcioni dei due secoli, tutto ad un tratto da rapsodo... dannunziano era diventato un superuomo. Come sia avvenuta la cosa, non lo so propriamente. È probabile però che sia accaduto a Lei quello che avvenne a Pietro Rapagnetta, quando rinacque tutto il in colpo Gabriele d’Annunzio. Un bel giorno, signor professore, pieno la testa dei libri di Sär Péladàn e di Federico Nietzsche, tronfio di sé e dell’ingegno che madre natura Le aveva dato, si sarà levato anch’Ella dal letto col volto inspirato e l’occhio lucente, si sarà mirato nello specchio ad angolo ed avrà detto alla sua figura riflessa nel terso cristallo: «Anch’io come... d’Annunzio! Se l’uomo è una corda tesa tra il bruto e il superuomo, io sarò il secondo capo della corda, sarò il superuomo! Incipit vita nova!». Quando penso a questo, sign. professore, non vorrei nemmeno aver scritto quello che ho scritto. Come si fa a contradire ad un superuomo? Se è così, ha più che ragione, signor professore. Di fronte a Lei, è proprio vero, il D.r Conci e compagni sono oratori «sit venia verbo», (il Popolo però diceva che era un forbito discorso, ma...); noi tutta gente la quale non sa dire che «buaggini», e il Lanzerotti un dottore «ameno». Ha proprio ragione! Lei ha avuto la carità cristiana di ridere degli infelici, ha avuto persino la degnazione di occuparsi di me, povero studentello ultimo venuto; e di ciò anche a nome degli altri La devo ringraziare proprio tanto. Colla debita stima A. Degasperi |
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| 01901-1905
| Due parlamenti contemporaneamente si occuparono ieri e l’altro ieri della guerra nell’Africa meridionale: il parlamento inglese ed il francese. In ambedue i parlamenti si fecero sentire delle voci di severo biasimo contro il contegno dell’Inghilterra nella guerra del Sud-Africa, contro i campi di concentrazione, contro le devastazioni e le crudeltà, definendo la guerra condotta contro i boeri una vera guerra di sterminio. S’intende che nella Camera inglese non ebbero coraggio di gettare questa scottante verità di fronte ai governanti del gabinetto di S. Giacomo altro che gli irlandesi, che e per la religione in cui furono educati, ed ammaestrati dalla lunga oppressione sotto cui dovettero gemere per secoli, appressero ad aborrire ogni sorta di violenza del forte contro del debole; e qualche liberale di carattere che né dalle minacce di impopolarità, né dalle carezze del Governo si lasciò indurre a rinnegare quel programma e quei principi, che pur formarono il patrimonio tradizionale del partito liberale inglese. Nella Camera francese si levarono oratori da destra e da sinistra a protestare contro il modo di condurre la guerra da parte degli inglesi, contrario agli usi civili ed alle specifiche determinazioni della Conferenza dell’Aja: e l’abate Lemire ed il socialista Clovis Hughes si trovarono uniti nel denunziare con libera voce le infamie degli inglesi nel sud-Africa. Costretto e dalle dirette recriminazioni mosse nella Camera inglese, e dai lamenti universali della stampa del mondo civile, lord Chamberlain sorse a spiegare, che cosa sieno i campi di concentrazione, tentando di presentarli come un provvedimento ispirato dall’umanità e dalla compassione verso la popolazione boera. Ma lord Chamberlain ha scelto male il tempo per tentare una siffatta difesa, quando appunto la pubblicazione di un’inchiesta della signora Joubert, che dopo infinite preghiere potè ottenere di visitare uno dei campi di concentrazione, fa fremere di sdegno ogni cuore ben nato per gli inumani maltrattamenti a cui sono sottoposti gli inermi figli e le spose dei valorosi boeri; e quando la pubblicazione di una petizione di parecchi notabili boeri al generalissimo Botha , sollecitandolo ad arrendersi, dimostra, come la forza d’animo dei boeri, cui non potè domare una guerra spietata di due anni e mezzo, né minacce, né crudeltà nemiche contro i combattenti, né infine traversie, cede ora sotto lo spasimo del cuore, torturato dai patimenti dei figli e delle spose morenti di fame nei campi di concentrazione. E lord Chamberlain osa presentare i campi di concentrazione come opere create dall’umanità e dalla misericordia degli inglesi verso i boeri e l’osa appunto nel momento che più terribili si manifestano al mondo civile le rivelazioni sulle condizioni dei «concentrati», e quando anche la stessa statistica pubblicata dagli inglesi, mostra come sono assai maggiori le vittime dei campi di concentrazione che non quelle della guerra stessa! Davvero, che non si saprebbe decidere, se sia più di macigno il cuore o più di bronzo dell’ambizioso ministro delle colonie inglesi. Nelle due Camere, inglese e francese, si parlò pure in favore della pace; in quella si sollecitò il Governo a cercar modo di por fine alla guerra; in questa si presentarono delle mozioni invitanti il Governo ad intervenire in favore della pacificazione e dell’arbitrato. Ma la risposta di Chamberlain e di Delcassé , tuttoché presentate, anche quella di Chamberlain contro il suo solito, sotto il velo di una forma cortese e diplomatica, suonarono in senso negativo e sono tali da togliere ogni speranza ai poveri boeri, all’infuori di un ultimo sforzo delle loro armi per difendere la propria libertà, e da dissipare tutte le dicerie ed i sogni di trattative di pace, sperse e concepite all’entrare del nuovo anno e ripetute in quest’ultimo tempo. La risposta di Chamberlain intima la sottomissione completa e la resa a discrezione dei boeri e la risposta di Delcassé è l’ultimo e definitivo rifiuto dell’egoismo diplomatico delle potenze europee di far dei passi presso l’Inghilterra perché voglia cessare la scandalosa guerra di sterminio contro un popolo provocato, che difende la propria patria e la propria libertà. La causa boera dunque non è affidata che al fucile di quel pugno di prodi, che si dibattono come leoni, e con una perseveranza più unica che rara nella storia dell’umanità, contro un esercito venti volte maggiore. Contro questo pugno di prodi ora l’Inghilterra fa l’ultimo sforzo per domarli e fiaccare la loro resistenza. Dall’Inghilterra, dalle Indie e dall’Australia si segnala la partenza di nuove truppe di rinforzo alla volta dell’Africa, mentre Kitchener raddoppia lo zelo delle fucilazioni dei prigionieri boeri e fa gemere e strillare di fame, nuovo Barbarossa, i figli, le spose e le madri degli eroi, che pugnano sul campo per la libertà, nella speranza di domare con questo genere di raffinata tortura la costanza di quegli uomini contro de’ quali è impotente la rabbia dei suoi mercenari. Oh affrettatevi, affrettatevi ed accorrete da tutto il mondo, o sciacalli dell’affarismo e dell’avidità inglese, a compire quello stupendo serto di gloria onde anela cingersi le chiome la nobile fronte della vostra madre patria. |
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| 01901-1905
| Martedì prossimo ventuno avremo la prima seduta del nuovo periodo di sessione parlamentare del Consiglio dell’Impero ; e la Commissione del bilancio non ha ancora terminato il proprio compito. La Commissione ha ancora da affrontare le giornate critiche, perché le questioni scottanti fin’ora sono state evitate, nella speranza di poter coincidere un accordo fra i rappresentanti dei partiti nazionali contendenti, e risparmiarsi le discussioni tumultuose ed appassionate, che formerebbero un punto nero nei protocolli delle sedute commissionali procedute fin’ora sempre dignitose e regolari. E intanto si è trattato tutta la settimana: si è trattato tra Governo, czechi e tedeschi per la questione dell’Università morava; fra tedeschi e polacchi per i ginnasi di Troppau e di Teschen; fra sloveni czechi e polacchi da una parte e tedeschi ed italiani dall’altra per l’eterna questione del ginnasio di Cilli; fra italiani polacchi e tedeschi per il ginnasio croato di Pisino. Si è trattato adunque e di questioni grosse e di questioni relativamente piccole; ma pur tutte scottanti, tutte delicate, tutte stuzzicanti le suscettività o le passioni di parti nazionali in guerra. Ed il risultato? Per la questione dell’università morava, com’è facile crederlo, il Governo non ha potuto indurre a cedere d’un punto della loro intransigenza né gli czechi né i tedeschi, ma specialmente questi ultimi, cui a mala pena il d.r Koerber potè trattenere dall’inscenare dimostrazioni contro una dichiarazione puramente platonica del Governo: e ciò colla minaccia delle dimissioni di tutto il gabinetto. E questa dichiarazione platonica del ministro Hartel in favore di un’università czeca morava, che il Governo mette di là da venire dovrà chiudere interinalmente una questione, che risorgerà fra breve nella Camera. La dichiarazione sarà tale, che non soddisferà, per la sua indeterminatezza, gli czechi, né soddisferà i tedeschi, che non vogliono neppur sentir nominare l’Università morava. Però sarà probabile che né l’uno né l’altro dei 2 partiti presentino contro tale dichiarazione delle proposte o delle mozioni. E questo sarà il massimo risultato che il Governo ha potuto ottenere dopo due settimane di... senseria. Riguardo alla questione del ginnasio di Cilli , che i tedeschi hanno risuscitato, neppur idea di un accordo tra sloveni e tedeschi, volendo quelli mantenere le parallele slovene a Cilli, ed i tedeschi volendone ad ogni costo l’abolizione ed offrendo in cambio di completare le parallele slovene del ginnasio di Marburgo ed erigerle in ginnasio autonomo. La questione sarà portata dunque nella Commissione e poi nella Camera e risolta in diatribe e voti. I tedeschi sperano di poter racimolare maggioranza per la propria proposta calcolando sull’appoggio del Centro e degli italiani. Gli sloveni però fanno la voce grossa, e nel caso che la proposta dei tedeschi avesse da passare alla Commissione minacciano «di tirarne tutte le conseguenze anche al Parlamento»: così il comunicato di una conferenza tenuta a Cilli da tutti i deputati sloveni parlamentari e dietali. Accanto alla questione del ginnasio di Cilli è risorta la questione del ginnasio croato di Pisino, volendo gli italiani la radiazione dal bilancio della posta stabilita per il ginnasio di Pisino. La proposta degli italiani avrà il voto dei tedeschi; ma avrà contro tutti gli elementi slavi, compresi i polacchi, e cadrà. Forse sarebbe meglio chiedere non la radiazione pura e semplice della posta per il ginnasio di Pisino; ma il trasloco del ginnasio in terra slovena, come hanno fatto i tedeschi per le parallele slovene di Cilli: allora forse sarebbe possibile e probabile di guadagnare i polacchi ed avere la maggioranza. Verranno pure tirate in campo le desiderate Università italiana e rutena; ma le relative proposte non hanno probabilità di venir approvate e sono destinate a cadere. Passi per l’Università rutena, ma per l’Università italiana il ministro Hartel dovrebbe ricordarsi delle sue parole e promesse e dovrebbe ben guardarsi dallo smentire sé stesso, abbandonando il buon diritto della nazionalità italiana, gloriosa per antica civiltà, alle bramose canne dei suoi avversari ed alla prepotenza di un esclusivismo nazionale monopolizzatore, senza levarsi a riaffermarlo e difenderlo. Questo almeno gli italiani possono pretendere da loro. Come si vede, carne al fuoco ce n’è ancora per la Commissione, le cui ultime sedute coincidenti con il principio del nuovo periodo di sessione parlamentare ridesteranno nell’aria della Camera dei deputati quella tensione elettrica nazionale, così facile alle scariche, sempre pericolose per la Camera di Vienna e per la regolare funzione della Costituzione e dell’organismo dello Stato. |
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| 01901-1905
| Nella seduta di ieri della Camera ungherese dei deputati si portarono delle interpellanze sovra un caso occorso nella faccenda della visita dell’arciduca Francesco Ferdinando alla Corte russa, caso che è bene conoscere, perché è una prova della presunzione insieme e prepotenza e della partigianeria e grettezza del governo liberale ungherese. È da premettere, che ufficialmente il viaggio dell’arciduca non doveva essere né apparire, che un atto di personale cortesia. Perciò, quando si trattò della scelta del seguito la curò l’arciduca stesso, nominando a suoi compagni di viaggio due gentiluomini, il principe Carlo Windischgraetz austriaco ed il conte Giovanni Zichy ungherese, cameriere di Corte; ne partecipò la scelta ai due cavalieri, che accettarono ed all’Imperatore ed al conte Golouchowski , ministro degli esteri, che non ebbero nulla da eccepire. Ma ecco tutto ad un tratto giungere da Budapest terribile un voto che sconvolgeva tutto l’ordine già stabilito, rendeva vani i passi fatti dall’arciduca e pretenziosamente dettava ordini in un affare personale dell’Erede del Trono e contro disposizioni già prese ed approvate dal Sovrano stesso e dal ministero degli esteri. Era il governo ungherese, che non appena seppe della scelta del conte Zichy, irato perché l’arciduca non avesse scelto un cavaliere de’ suoi devoti, una delle sue creature, ma invece il conte Zichy, cattolico tutto d’un pezzo, mise in moto tutte le sue influenze e si rivolse allo stesso Imperatore, rappresentandogli come cosa sconveniente e sgraditissima al governo ungherese, che l’arciduca venisse accompagnato da uno dei capi dell’opposizione parlamentare. L’Imperatore, sempre buono, fece presente questa difficoltà all’arciduca, che per deferenza verso il Capo della casa regnante rinunciò all’accompagnamento del conte Zichy, col quale si scusò in un’udienza privata, alla quale l’aveva egli stesso invitato; ma per mostrare il suo malcontento ed il suo biasimo per questo procedere del governo ungherese non volle accettare per compagno di viaggio nessun cavaliere ungherese, ed andò a Pietroburgo col solo principe Windischgraetz. Non è chi non vegga a colpo d’occhio la piccineria, la grettezza e la villania dei governanti liberali ungheresi; ma insieme è opportuno notare quanta partigianeria, e quanta prepotenza traspiri da questo contegno della cricca liberale ungherese, la quale pretende escludere da un servizio d’onore alla Corte ogni cavaliere che abbia idee differenti dalle proprie, – autorizzato a prestarlo dallo stesso erede del Trono, e pretende infeudare le cariche di corte e gli onori di corte ad una cricca politica, ed asservire la corte stessa ad un partito. Il ministro Szell può dare quante spiegazioni vuole dell’affare, può anche farsi applaudire dai suoi fedeli, può anche pagare dei giornali, perché parlino di «complotti orditi dai clericali», come si disse quando l’arciduca Francesco Ferdinando assunse il protettorato della Società scolastica cattolica «complotti che il ministro Szell seppe sventare» (Neue Freje Presse), può dir quello che vuole, ma non potrà mutare d’un etto la chiara sostanza delle cose, né distruggere od attenuare presso ogni uomo imparziale e di buon senso l’impressione prodotta dal suo contegno niente cavalleresco, niente nobile, ed anche condotto con poca avvedutezza e troppa precipitazione. |
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| 01901-1905
| Nell’ultima seduta della Commissione parlamentare per i provvedimenti eccezionali applicati a Trieste , il deputato triestino on. Hortis , fiancheggiato dal deputato socialista dr. Ellenbogen , fece la lunga esposizione dei fatti tragici di Trieste, cominciando dallo scoppio dello sciopero dei fuochisti, fino alle presenti condizioni, esposizione che in diversi punti diversifica dalla relazione ufficiale, precisamente per quel che riguarda la causa immediata delle prime salve della truppa in piazza della Borsa. La relazione ufficiale assegna la provocazione ai dimostranti, parla di gettito di sassi contro i militari stazionati in piazza della Borsa, di diversi feriti tra i medesimi e dello stesso comandante caduto a terra, fatti che autorizzavano da parte del militare l’uso delle armi. L’Hortis invece accagiona la truppa di esser stata la prima ad assalire e nega il fatto del comandante caduto a terra in deliquio. Körber sopra un voluminoso materiale raccolto, riconferma le reazioni ufficiali e giustifica i provvedimenti presi dal Governo. Hortis si dichiara pronto a suffragare con numerose testimonianze la sua esposizione ed invita la Commissione o a chiamar a Vienna testimoni da Trieste o a mandar colà un proprio sottocomitato per praticare un’inchiesta. Da qual parte sta dunque la ragione, e qual’è la relazione vera, corrispondente in tutto e per tutto alla realtà dei fatti? Come avviene in simili avvenimenti, difficile è l’eruirlo e troppo spiegabile una diversa esposizione di fatti singoli, perché testimoni oculari non interessati in causa in simili circostanze non ce ne sono, ed è quindi facile trovare delle testimonianze contraddittorie e perciò delle relazioni diverse. La proposta dell’on. Hortis di chiamare a Vienna i testimoni ci pare alquanto ingenua; più pratica e non inutile crederemmo invece quella di praticare un’inchiesta sul luogo stesso, per mezzo di una sottocommissione. Tale proposta non è stata presa in considerazione, a quel che sembra, dalla Commissione parlamentare, ma l’Hortis vi insisterà nella seduta di domani, e ci auguriamo che la proposta venga accettata. Non nutriamo però fiducia, che la Commissione vi aderisca, perché crederà di poter avere materiale sufficiente in mano per poter adempiere al suo compito specifico, che è quello di esprimere un giudizio sulla legittimità dei provvedimenti eccezionali presi dal Governo e sull’opportunità di togliergli o meno. Eppure un po’ più di luce anche sull’inizio e sullo svolgimento dei fatti, sulle loro cause prossime e sulle relative responsabilità sarebbe pur necessaria! Fatto il primo passo e saltato il primo fosso, il... nuovo ministero Zanardelli doveva saltarne subito un secondo, accettando e facendo propria la candidatura accarezzata dall’opposizione per la presidenza della Camera. Incredibile, ma vero! a quanto raccontano i giornali italiani venutici stamane. Dopo il rifiuto, troppo necessario, di Villa , uscito così malconcio dall’urna, di accettare la rielezione a presidente della Camera, una delle prime nuove fatiche di Zanardelli era quella di cercarsi un altro candidato per la presidenza della Camera, ma tale che lo assicurasse da una seconda imbarazzante sorpresa. Ma ecco, che mentre il nuovo Diogene va in traccia dell’uomo-candidato, i giornali dell’opposizione, fanno il nome dell’on. Palberti ; vice presidente della Camera. Il tiro era birbone: una candidatura Palberti, posta dall’opposizione, era ancor più pericolosa per il Governo, che non le schede bianche. Che fare? Quando si è in guerra, pronto consiglio: Zanardelli piglia il sacco in cima e fa proclamare come proprio candidato l’on. Palberti. Se non ché nella fretta di saltare questo secondo fosso, Zanardelli non osservò la mota, che era raccolta al di là, e s’inzaccherò per bene i lindi stivaletti di Cavaliere del Serpente. L’opposizione, mettendo sul tappeto il nome di Palberti, voleva dare, si capisce all’elezione presidenziale uno spiccato colore... antidivorzista, e così precisare anche il significato delle schede bianche deposte nell’urna la prima volta. Il nome stesso di Palberti, l’uomo che con le sue dimissioni da presidente della Commissione per il divorzio aveva recato il più forte colpo al progetto Berenini , e che pur non essendo dell’opposizione veniva designato dall’opposizione a proprio candidato non lasciava dubbio sul significato antidivorzista della candidatura Palberti. E lo Zanardelli? Lo Zanardelli trangugiando l’amara pillola, per evitare una dimostrazione... disastrosa, al posto del divorzista Villa, mette Palberti! Palberti quindi riuscirà eletto con tutti i voti ad eccezione di quelli dell’Estrema; non si potrà parlare di un voto di sfiducia dato al Governo, sarà protratta anche la manifestazione contro il divorzio; ma la prima sconfitta morale del nuovo (chiamato così) ministero Zanardelli è già segnata. Ed a questa non tarderanno a seguirne delle altre. Intanto però è bene notare, che i giornali zanardelliani proclamano in cento guise e in cento toni, essere l’introduzione del divorzio volontà reale. Impegnata la parola della Corona la setta ora ne abusa per imporre l’odiato progetto alla nazione; ma sopra la volontà della setta, se Dio vuole, trionferà la volontà delle oneste posizioni. L’altro ieri nel Parlamento prussiano, discutendosi il bilancio dello Stato, venne ancor sul tappeto la questione polacca. Il dep. Glebovski al titolo «rimunerazione del ministro dell’interno» prese la parola per criticare l’azione del ministero dell’interno di fronte ai polacchi, esponendo una nuova serie di soprusi, illegalità, oppressioni, miranti a far sparire la lingua ed il carattere polacco dalle provincie orientali. Il ministro gli rispose con un discorso bilioso, insultando vigliaccamente la nazione polacca, ed agitando sempre l’accusa contro i polacchi di voler preparare il terreno per una generale insurrezione dei polacchi allo scopo di risuscitare l’antico stato polacco, morto, disse, per sempre. Ma codeste le sono bubbole. Se i polacchi van fuori della legge puniteli; se no, lasciate loro i loro diritti di cittadini. Ma sperar giustizia dalla prepotenza prussiana è impossibile. |
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| 01901-1905
| Una notizia inaspettata e curiosa, ci reca da Vienna la Neue Freie Presse. Essa dice, che il governo ed i deputati trentini ultimamente si sono riprese le trattative; ma il novo ed il curioso non istanno per nulla in ciò, sì bene in questo, che il d.r Koerber vuole trasportare le basi delle trattative dalla questione dell’autonomia, quelle dei bisogni economici nel Trentino e particolarmente alla concessione di un’accademia di diritto da erigersi a Trento, che il Governo sarebbe propenso a concedere e nella quale si trasferirebbero le parallele italiane già erette nella facoltà legale dell’Università di Innsbruck. Scopo di queste trattative e di queste concessioni sarebbe di muovere i deputati trentini ad abbandonare l’ostruzione e permettere alla nuova Dieta di riprendere il suo lavoro, «desiderio imperioso del dott. Koerber». E la questione dell’autonomia verrebbe rimessa alle calende greche? Ed a che scopo allora si mandò lo Schwartzenau ad Innsbruck? La Neue Freje Presse dice, che «per il momento un’intesa nella questione dell’autonomia non ha nessuna prospettiva di essere raggiunta». E perché? Il giornale viennese pare voglia attribuirne la causa alla circostanza, che il nuovo Luogotenente, «come si dice», si è «accinto allo studio della questione». Questa ragione però non tiene. Non si era già determinato fin da un anno e mezzo fa il Governo centrale nella questione dell’autonomia, chiamando a Vienna i membri del sotto-comitato dietale per la questione dell’autonomia, facendo loro rielaborare, col concorso di impiegati ministeriali il progetto della curie nazionali e dando con ciò a questo una tal quale sanzione preventiva? E non ci aveva avuto parte diretta lo stesso Schwartzenau nella rielaborazione di questo progetto? E non fu sostituito appunto per questo lo Schwartzenau al conte Merweldt nel governo della provincia? E non aveva il governo centrale lasciato capire fino dall’ingresso del nuovo Luogotenente nel suo ufficio che, all’aprirsi della nuova Dieta sarebbe stato avanzato un progetto governativo sulla questione Trentina, e che il Governo si sarebbe dato attorno le mani per tempo per accordare nella questione i rappresentanti delle due nazionalità? Ed ora si dichiara di punto in bianco (giacché crediamo la Neue Freie Presse informata da fonte autorevole nella faccenda) che una intesa nella questione per ora non è sperabile, e si giustifica tale abbandono, sia pure interinale della questione dell’autonomia con un «si dice» che il bar. Schwartzenau si sia appena posto allo studio della questione. Il «si dice» non tiene affatto; quello che si capisce è solo questo, che per una soluzione prossima della questione trentina sono sorti degli impedimenti gravi, che il governo per ora li crede insormontabili. Quali saranno o donde sono sorti? A Vienna, a Innsbruck, da parte dei deputati tedeschi o d’altronde? Non si dice nulla o solo potremo saperlo in seguito. Intanto il Governo vista la impossibilità di un accordo, per ora cerca di indurre i deputati trentini a togliere l’ostruzione offrendo delle concessioni lusinghiere, giacché la concessione di un’accademia di diritto a Trento non è certo nei presenti momenti di lotte e difficoltà nazionali una cosa indifferente. Un impedimento sorge a difficoltare l’accettazione di questa offerta governativa: la promessa dei deputati trentini, ai deputati triestini ed istriani di insistere per l’Università italiana a Trieste. La Neue Freie Presse sbarazza i trentini da questa difficoltà, protestando che il Governo non accorderà mai un’Università italiana a Trieste. Crediamo anche noi che nelle presenti circostanze politiche e parlamentari non si può sperare la erezione di una Università italiana a Trieste, perché a questa erezione si oppongono inesorabilmente gli elementi slavi ed i tedeschi più o meno nazionali del Parlamento e senza il consenso del Parlamento Università non se ne fondano. Ma bisogna vedere se i deputati istriani e triestini pur vedendo questa difficoltà, hanno abbandonate le speranze anche per il futuro, e se non credono pregiudicate queste speranze dall’erezione di un’accademia legale a Trento. In ogni modo saranno i trentini costretti dai loro precedenti a passare parola coi loro colleghi del Litorale. S’intende da sé, che l’accettazione di questa offerta del Governo non potrà e non dovrà in ogni caso importare un abbandono della questione dell’autonomia. |
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| 01901-1905
| I libri del Toniolo sono sempre due cose: anzitutto una meravigliosa sintesi storica e filosofica del contenuto di un dato periodo sotto un punto di vista determinato, e poi un catechismo dei corollari pratici che la storia del passato insegna o impone al futuro. Anche questo vi dirà dei «provvedimenti sociali popolari» compiuti nell’ultimo periodo della storia contemporanea della civiltà, e conseguentemente stabilirà i provvedimenti che saranno un programma, per i «volonterosi non solo di conoscere ed adorare, ma ancora di coadiuvare con docile cooperazione i disegni della Provvidenza nella odierna rigenerazione popolare». Così nel primo capitolo l’Autore risale al principio degli odierni rivolgimenti popolari e studia la genesi dei programmi di riforma sociale democratica, descrivendone prima la formazione razionale e storica in genere, e rifacendo poi con un ordine ed una profondità mirabile l’elaborazione storica degl’immediati provvedimenti popolari ai quali parteciparono le varie scuole riformatrici. Sulle rovine degli altri programmi egli vede negli ultimi decenni delinearsi il programma democratico cattolico, di cui trova la preparazione remota nei grandi fatti storici caratteristici circa il 1870 e lo svolgimento prossimo in quello che accadde poi fino alla Rerum Novarum . Le venti pagine che seguono sono dedicate a questa enciclica e all’altra del 1901 sulla democrazia cristiana: e qui oltre il filosofo della storia e il sociologo ammirate l’apologeta contro i liberali e i conservatori, il moderatore fra i consenzienti, l’interprete fedele e scientifico delle direttive pontificie. Tutto questo primo capitolo è un quadro così complesso e abbraccia una palingenesi così vasta e profonda, da renderne facile l’intelligenza solo a chi conosce il dettaglio ed ha l’occhio ormai esperto fra il labirinto degli ultimi sconvolgimenti sociali. I tre capitoli seguenti trattano dei tre principali intenti pratici immediati, che sono infine con poche divergenze i caposaldi delle varie scuole riformatrici: la riforma del contratto di lavoro e delle concomitanti relazioni fra imprenditori ed operai – la ricostituzione di unioni corporative dei lavoratori – la legislazione sociale operaia. Il contratto di lavoro viene prima studiato storicamente nell’economia capitalistica, nei suoi abusi e nelle sue riforme e poi tradotto nella sua forma cristianamente ideale coi criteri prevalsi dopo la Rerum Novarum – morali, giuridici, di alto ordine pubblico. Seguono a conclusione alcune osservazioni induttive, e si stabilisce: 1) Si matura in questi dì una storica rivendicazione del lavoro manuale. 2) A questo grande compito provvidenziale spetta principalmente alle classi superiori di adibirsi. 3) Dalle classi doviziose e colte dipende massimamente la salvezza propria e dell’intera società. L’ordinamento della classe operaia nelle corporazioni (cap. III) trova la sua ragione nella rinata coscienza di classe e nel corrispondente sforzo per tradurla in un fatto sociale organico mercè la Costituzione del quarto stato: le manifestazioni di questa nuova coscienza vengono descritte dall’Autore nella storia e nella biologia, le forme e l’importanza dell’ordinamento corporativo distinte e rilevate con rigore ed esattezza scientifica e insieme con tanta chiarezza da rendere superflui molti dei volumi che furono iscritti su quest’argomento. In un terzo capoverso del medesimo capitolo l’Autore risponde ad alcune obbiezioni che potrebbero fare gli avversari (cattolici e liberali) del sistema corporativo, avverte di molti errori che potrebbe trarre con sé una propaganda incauta e stabilisce l’efficacia della propaganda cristiana. Col medesimo metodo l’illustre professore procede nel capitolo quarto trattando della legislazione sociale operaia. I suoi fattori storici, i differenti procedimenti nei vari paesi, le sue funzioni (tutrici, cooperatrici, elevatrici) passano sotto gli occhi del lettore condensati in poche pagine. Brevi cenni su quelle provvidenze, che non appartengono propriamente alla legislazione operaia, ma che storicamente le sono parallelle, per esempio la rivendicazione delle autonomie locali, chiudono il libro. Il quale, diciamolo subito, è una prova di più essere la scuola cattolica l’unica che logicamente e conseguentemente tende alla riforma sociale. E lo leggano i nostri studiosi e propagandisti i quali troveranno anche (ciò che non era degli «Indirizzi ecc.») nelle note una copiosissima bibliografia, lo leggano specialmente quelli che procedono nel lavoro della restaurazione con un cieco empirismo, e... lo leggessero i nostri avversari, i quali ci accusano sempre di non sapere quello che vogliamo! Dobbiamo ricordare infine con gratitudine la società di cultura editrice , per la bella edizione di questo studio che nella Rivista Internazionale sarebbe stato accessibile a pochi. A.D. |
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| 01901-1905
| Da parecchio tempo a questa parte la stampa ebraica conduce una campagna di recriminazioni, di odio, di maldicenza, di irose ostilità contro la Rumenia. E siffatta campagna dà maggiormente nell’occhio della stampa giudaica in Austria, in quanto che si sa che le relazioni fra l’Austria e la Rumenia e le rispettive case regnanti sono ottime, che fra tutti gli stati balcanici quello che maggiormente gravita verso l’Austria e si appoggia all’Austria, e sul quale l’Austria può fare maggior assegnamento per la realizzazione della sua politica nell’oriente europeo, è la Rumenia. La più elementare prudenza politica adunque domanderebbe, che i giornali politici austriaci, che vanno per la maggiore, e che talora si presentano magari nella livrea dell’ufficialità e della semi ufficialità, usassero verso la Rumenia quei riguardi che si merita e per le sue relazioni di amicizia coll’Austria e per la posizione e l’importanza, che ha la Rumenia per la realizzazione della politica estera austriaca nei Balcani. Eppure voi non aprite giornale giudaico di Vienna e di Budapest, che non avventi, quando gli si presenta l’occasione, i suoi fulmini contro la Rumenia. Ma qual’è la ragione di questo fenomeno? È semplicemente questa. Alla testa del governo rumeno sta un ministro, il quale compreso di tutta la serietà della sua situazione interna economica e sociale, ha iniziato un energico lavoro ed una saggia legislazione per l’organizzazione, lo sviluppo, e la tutela delle classi industriali e lavoratrici indigene; e siccome quest’opera del ministero rumeno va a colpire direttamente, anche senza nominarlo, lo sfruttamento, l’usura e la sfrenata concorrenza dell’industria ebraica ivi piantatasi, e che minacciava di soppiantare l’industria indigena, così la stampa ebraica mondiale non sa darsi pace per questo «malo esempio», che la Rumenia dà all’Europa incivilita. Due parole di spiegazione riguardo a quest’azione di difesa del ministero Sturdza . Negli ultimi decenni e specialmente, quando la Russia cacciò dai suoi confini gli usurai dell’affarismo ebraico. questi si riversarono come un branco di cavallette sui paesi confinanti, inondando particolarmente la Rumenia. Questa lasciò loro libero passaggio e libero esercizio di commercio e di industria. L’effetto non tardò a manifestarsi. Il metodo tutto proprio di tali affaristi, lo sfruttamento inumano del lavoro e della povertà, la concorrenza sfrenata, il monopolio, l’usura e la frode, coperta sotto mille furberie, trassero a sé in breve ora gran parte, se non la massima, del commercio e dell’industria rumena, impoverirono e pressoché annientarono l’artigianato, disorganizzarono ed oppressero i ceti industriali, portando terribili conseguenze alle condizioni sociali interne del paese che li aveva ospitati. Basti dire, che, per confessione della stessa Neue Freie Presse di ieri sera, vi hanno delle località in Rumenia, dove tutte le industrie, anche piccole sono in mano esclusivamente di ebrei. Tali terribili effetti dell’immigrazione degli ebrei nella Rumenia ridestò un vivo malcontento in tutta la popolazione indigena, la quale vedendosi impotente ad impedire una tale deleteria attività dell’ebraismo importato in paese, sorse a feroci sommosse contro gli ebrei, prendendo d’assalto ed incendiando gli aborriti negozi. Allo scoppiare di tali tumulti antisemiti, specialmente quattro anni fa , la stampa ebraica mondiale non mancò di gridare al fanatismo, agli odi di razza, agli odi di religione, reclamando dal Governo rumeno di soffocare col piombo e colle manette «la ferocia della piazza» e di tutelare la vita e le sostanze degli innocenti perseguitati. Il Governo rumeno non mancò al suo dovere, e protesse con la forza e con la legge coloro, che pure erano la causa del proprio male; ma nello stesso tempo ricercò le ragioni di que’ disordini sociali, che andavano affacciandosi e crescendo sul suolo rumeno, e studiò i rimedi per porvi riparo. Ed i rimedi compariscono ora per mano del ministro Sturzda in forma di progetti di legge al Parlamento; e il Parlamento non ancora signoreggiato dagli ebrei li approva, ed il Re non ancora serrato fra le maglie dei debiti verso gli ebrei le approva. Del resto, non si creda che sieno leggi di persecuzione o leggi eccezionali contro nessun suddito rumeno: sono semplici precauzioni da usarsi nel concedere il diritto di cittadinanza a forestieri ed il diritto di esercizio e di patente industriale a stranieri; sono leggi (come quella sanzionata giorni sono) che provvedono alla organizzazione dei ceti industriali, dell’artigianato e del lavoro indigeno; sono prescrizioni mediante le quali le amministrazioni pubbliche devono offrire i loro lavori possibilmente all’industria indigena; sono provvedimenti per promuovere l’educazione industriale indigena. Ed è forse degno di biasimo un Governo, che agisce in questo modo, ed è forse uno stato barbaro quello che vi dà di tali leggi sociali? Magari gli stati civili sapessero imitarlo; magari avessero adottato per tempo i provvedimenti, che ora adotta per sè la Rumenia: si sarebbero risparmiati tanti pentimenti ed avrebbero in radice impedito tanti disordini e tante calamità sociali. |
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| 01901-1905
| L’Austria è per la stessa struttura sua, più che per gli uomini che vi governano, uno Stato «naturalmente» refrattario alle riforme sociali e a un movimento che vi faccia capo. Le lotte nazionali fra due razze potenti, che si contendono disperatamente il potere dal Comune, alla Dieta, al Parlamento, distolgono di per sé l’attenzione da mali più profondi e più generali, e conducono a un sistema parlamentare, dal quale il popolo spera meno che mai una legislazione sociale riformatrice in senso democratico. Questo va premesso, per comprendere in quali condizioni sfavorevoli, che altri paesi non hanno, si è sviluppato e vive tuttora il partito cristiano-sociale austriaco. In Austria dal ’60 all’85 circa, spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. Alla testa della corrente liberale stava la nazione ebrea, che si rifaceva della prigionia patita negli anni dell’intolleranza. Vienna e l’Austria Inferiore – il cuore della monarchia – erano completamente sotto il giogo degli ebrei. Giornalisti, si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali, tenevano gli operai cristiani in condizione di schiavi; commercianti, facevano coi grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri, affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica. «Noi austriaci, mi diceva una settimana fa un deputato cristiano-sociale, temiamo sempre che all’estero non ci si comprenda quando vediamo nel nostro giudaismo l’origine di tutta la nostra miseria morale ed economica. Eppure è un fatto che la lotta nostra è un continuo agitarsi in cerca d’aria e di vita, è una marcia dai piccoli quartieri, in cui essi ci avevano riservati, verso le piazze e le vie grandi, ove si erano creduti re». Poco dopo il 1880 parve che il liberalismo avesse raggiunto l’estremo della parabola e incominciasse a discendere. Aveva trovato un avversario teoretico terribile nel celebre barone Vogelsang il quale nel «Vaterland» (ora giornale feudale-conservativo) e nella «Monatschrift für christliche Sozialreform» (questa rivista esiste ancora ed è diretta dal celebre professor Beck dell’Università di Friburgo) predicava i principi d’una riforma sociale cristiana. Egli fu certo per lungo tempo un predicatore al deserto, le sue idee furono monopolio di alcune poche intelligenze e non penetravano nella coscienza popolare. Dalla sua scuola però uscirono poi tutti quei politici e quegli agitatori che avviarono e diressero il movimento cristiano-sociale. Verso l’85 in Vienna s’andava compiendo un meraviglioso rivolgimento: il popolo incominciava a capire. Allora tutti quanti deploravano le rovine apportate dal pseudo-liberalismo divennero, naturalmente, alleati contro il nemico comune. La parola d’ordine era stata pronunciata dal principe Liechtenstein a un banchetto nel quale si festeggiava un giubileo del «papa sociale» (’87): «Tutto ciò che divide sia evitato». E così si trovarono in un medesimo campo cattolici convinti (la gran maggioranza) e convinti protestanti ed anche indifferenti di ambo le confessioni, i quali ultimi però si staccarono presto. Questa falange portava il nome – dato dal prelato dott. Sckeicher – «die Vereinigten Christen» (i cristiani uniti). Chi seppe tenere tutti questi elementi disparatissimi in un fascio solo e li condusse alla vittoria fu il dott. Carlo Lueger , un profondo conoscitore dell’anima popolare, un agitatore di eminenti qualità strategiche, uno dei primi oratori popolari che al dì d’oggi esistono in Austria, il quale per la sua bella e imponente figura, per l’ironia e l’acutezza della critica che sgorgava dalle sue labbra, trascinò le masse alla riscossa. Accanto a lui alla testa del nuovo partito stavano il principe Luigi Liechtenstein, che è tuttora uno dei più facondi oratori parlamentari, rampollo di nobilissima famiglia ed insieme fervente democratico; il prelato dott. Sckeicher, il quale colla sua opera «Il clero e la questione sociale» influì assai sui giovani preti; e infine il dott. Gessmann , che ha grandi meriti per l’organizzazione del partito. «L’unione dei cristiani» entrò in azione anzitutto nelle elezioni municipali della capitale. Ogni nuova elezione portava un nuovo trionfo, e finalmente nel 1895 il municipio di Vienna era conquistato. Allora il liberalismo fece gli ultimi sforzi e mise in moto tutte le leve più occulte. Il dott. Lueger venne eletto borgomastro, ma l’imperatore non diede la necessaria sanzione. Il Consiglio, ciò nonostante, rielesse Lueger; e il Ministero sciolse allora la rappresentanza e prescrisse nuove elezioni. Queste riuscirono una vittoria ancor più splendida per gli antisemiti e il Lueger venne rieletto per la terza volta. Ma di nuovo gli fu negata la sanzione. Seguirono tempi critici per la capitale. I viennesi col garofano bianco all’occhiello, cantando la Lueger-marsch (marcia Lueger) s’avviarono a migliaia e migliaia alla Hofburg (corte imperiale) e chiesero ad alte grida la sanzione di Lueger. In questi momenti pericolosi per tutto il movimento, l’uomo idolatrato dalla folla si sacrificò, fece eleggere nel suo posto l’amico Strobach ed egli venne eletto vice-borgomastro. L’anno dopo ricevette finalmente la sanzione. D’allora in poi il partito ebbe due mete: consolidarsi internamente, col rendersi più omogeneo, ed allargarsi alle altre province austriache. Del lavoro interno non diremo nulla perché a darne un’idea occorrerebbe un libro. Basti dire che i cristiano-sociali – così si chiamò poi la parte maggiore e più pura del partito – conquistata anche la Dieta dell’Austria Inferiore, svilupparono una rete tale di organizzazioni in tutte le classi del popolo da assicurarsi la vittoria per lungo tempo ancora. Celebri sono le società femminili (Frauenbund) che hanno assunto ora un’importanza colossale per il partito. Parallelamente in tutte le province si lavorava con alacrità nella propaganda, e il movimento fiorentissimo avrebbe invaso tutta l’Austria, se sgraziatamente non si fossero scatenate con raddoppiata violenza le passioni nazionali, quando il ministro Badeni emanò le famose ordinanze sulle lingue . In Boemia, dove prima il nome di Lueger suscitava entusiasmi, gli stessi socialisti perdettero i loro seggi di fronte al fanatico partito dei pangermani. Invece il Vorarlberg è ormai tutto cristiano-sociale e nella Stiria e nel Tirolo il movimento progredisce di anno in anno. Ma la gloria più bella di questo partito è il movimento prettamente operaio, che l’anno scorso nell’ultimo Congresso a Vienna si è dichiarato in quanto all’organizzazione autonomo ed indipendente dal partito politico, benché ne rimanga naturalmente una parte. L’organizzatore degli operai è Leopoldo Kunschak , una volta garzone sellaio, poi propagandista fervente per tutta la gioventù, ora redattore della «Christlich-soziale Arbeiterzeitung» (giornale dei lavoratori cristiano-sociali). Queste schiere lavoratrici, informate a uno spirito veramente cristiano sono le fresche riserve del partito. Chi ha veduto l’anno scorso i rappresentanti dei maggiori centri industriali al Congresso degli operai cristiano-sociali in Vienna e li ha visti giurare su di un programma profondamente cristiano e sinceramente democratico ed acclamare entusiasticamente a Leone XIII, aveva dinanzi l’Austria futura, se pur ve ne sarà una. Ricordavo allora il dilemma di Lueger: «O l’Austria cristiano-sociale o la dissoluzione!» Mentre vi scrivo i cristiano-sociali si preparano a una battaglia colossale e – in quanto riguarda il partito politico – decisiva. In autunno ci saranno le elezioni per la Dieta (rappresentanza della provincia) finora in mano ai nostri. Gli ebrei – i rappresentanti del capitale – hanno trovato degli alleati nei socialisti che qui sono veramente il partito internazionale al servizio dell’«Alliance Israelite», nei tedeschi nazionali e nei tedeschi radicali (Wolf- Schonerer). Questa coalizione che non sa lanciare contro un partito – il quale rialzò le finanze della provincia, emancipò l’Austria Inferiore dal capitale straniero e per il primo concesse il sistema elettorale più democratico che esista in Austria – nient’altro che la taccia di «clericalismo», metterà a dura prova le schiere di Lueger. Le previsioni sono inutili. L’Austria versa ora in una crisi profonda, e il fanatismo nazionale fa cambiare d’aspetto, da una elezione all’altra, un intero paese. Ma, avvenga quello che si vuole del partito politico, il movimento sociale cristiano continuerà la sua rotta trionfale. E dove passa la sua democrazia ritorna anche lo spirito religioso, il Cristianesimo. In Vienna, all’epoca del dominio liberale, le chiese erano deserte e i predicatori inascoltati. Quando sorse il nuovo movimento – e chiamarsi cristiano nella vita pubblica divenne un vanto – si incominciò anche ad esserlo veramente, le chiese si riempirono e i famosi predicatori P. Abel (gesuita) e P. Feund attirano tuttora grandi folle di popolo (uomini soprattutto) alle loro conferenze sulle «questioni del giorno», e le processioni del Corpus Domini si trasformarono addirittura in feste popolari, perché il popolo vedeva coloro che lo avevano liberato dalla schiavitù economica, e innanzi a tutti il dott. Lueger, andare francamente dietro la Croce. In Austria i conservatori cattolici si accorsero troppo tardi dell’efficacia morale della Democrazia Cristiana, che osteggiarono e in parte osteggiano ancora, e appena l’anno scorso, quando i cristiano-sociali si mostrarono l’unico baluardo contro il movimento scismatico «los von Rom», riconobbero a Lueger il titolo di «salvatore dell’Austria». Lo intendessero per tempo in altri paesi almeno, ove condizioni simili reclamano simili rimedi! Vienna, fine aprile A. Degasperi |
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| 01901-1905
| Vienna, 22 Per il passato, quando leggevo in parecchi scrittori anatemi e condanne inappellabili contro l’arte moderna, era sempre tentato a pensare ad un intransigentismo feroce, ad un rigorismo incompatibile, ad un’esagerata ortodossia. Il Pavissich e il Baumgartner erano gesuiti, il Weiss regolare anch’egli e terribile scolastico per giunta: e se Leone Tolstoi mi parlava di satanismo dell’arte moderna, non lo si può spiegare forse col suo idealismo evangelico che gli ha fatto dannare tante altre buone o indifferenti apparizioni della vita doggi ? Persino Romolo Murri – al quale noi giovani crediamo volentieri – quando nelle Battaglie d’Oggi deplorava nell’arte moderna un nuovo antropomorfismo, peggiore dell’antico, come motivo costante e direttivo, non valeva a persuadermi. Gli è forse che non avevo ancora afferrato il senso intimo della vita, e non mi era ancora accorto del paganesimo nuovo che domina. Né v’è da meravigliarsi, perché il paganesimo nasce da noi, ci accompagna nelle abitudini e nei gusti di moda, e ci viene poi più tardi imposto da una letteratura e da una stampa messe al suo servizio. Come a me, accade alla più parte dei giovani ed anche dei vecchi, ed è sintomatico che alla fine del secolo XIX il vegliardo di Jasnaja Poljana abbia sentito la necessità ed il dovere di scrivere un volume sul senso della vita, richiamando al confronto quella nostra di oggi con la vita ideale del Vangelo. Gli era, dirò ancora più giustamente, che la teoria della verità – a cui per via di induzione ed a fatica era infine venuto adattandomi – non aveva avuto ancora come dimostrazione di quegli esempi, i quali oltre che credere fanno subito sapere. Uno di questi esempi fu per me e quanti vollero comprendere, l’ultima esposizione della «secessione» viennese. Ebbi a notare altre volte in queste colonne, a proposito di altre esposizioni «secessioniste», che vogliono periodicamente mostrare al pubblico i progressi ultimi dell’arte di oggi, tendenze anticristiane e rinascimenti pagani; ma ciò compariva sporadicamente qua e là in qualche quadro o pastello e quasi sempre accanto a qualche lavoro d’arte sana, come per esempio l’anno scorso, accanto ai quadri grandiosi del nostro Segantini . Questa volta invece niente di cristiano, e quasi tutto pagano. Procediamo con ordine. Massimiliano Klinger , indiscutibilmente il più grande cultore delle arti figurative in Germania, lavorava da quindici anni intorno a un monumento di Beethoven, il celebre musico tedesco. Chi si era incaricato della réclame preparatoria, sapeva dire che il monumento sarebbe di materiale vario e preziosissimo: marmo di Syrna e dei Pirenei, opale e iaspide, che il Klinger stesso aveva scelto con cura in Grecia, nei Pirenei, ecc. Si confrontava questo Beethoven col Faust di Goethe perché ambedue queste opere, attraverso molte altre 1), rimanevano la cura costante degli artisti. L’opera tanto aspettata comparve finalmente nella Pasqua di quest’anno, e a Lipsia nell’atelier dell’artista venne esposta all’ammirazione del pubblico. Si seppe allora che Beethoven era ritratto dallo scalpello dell’artista non come uomo, né come superuomo, ma come un Heros o un dio; e in quanto all’ammirazione, basti dire che lo Schuman affermò potersi ripetere di quel monumento quello che scrisse Epitteto del Giove di Fidia: «Beata quella città che lo avrà entro le sue mura...». Vienna, la grande ammiratrice dell’autore delle sinfonie, volle vedere anche questo nuovo omaggio, e la Secession, di cui Klinger è membro corrispondente, lo fece oggetto unico dell’ultima esposizione. E qui prevalse un criterio nuovo: tutto quello che circonda il monumento – luogo e decorazioni – deve essere in relazione con esso. In quanto al luogo bisognava darci il carattere della monumentalità; al dio bisognava costruire un tempio. E il palazzo dell’esposizione si trasformò in un tempio d’uno stile tra l’egiziano e quello della pagoda: nel mezzo un quadrilatero che è come un sacrario intorno al simulacro, ai lati due sale più ristrette. Il soffitto (una curva lieve) è continuo, perché le due sale laterali sono divise da pareti che raggiungono appena metà dell’altezza del tempio, cosicché il monumento è visibile da ogni canto. Beethoven siede su un trono di bronzo col corpo superiore nudo proteso innanzi; il viso pensoso, i pugni serrati e poggiati sulla gamba destra che è a cavalcioni dell’altra. La parte superiore del corpo è marmo bianchissimo di Syrna, in contrasto singolare e forse troppo forte con la parte inferiore su cui è disteso un drappo d’onice giallo bruno, e coi bracci del trono che nella parte più sporgente sono d’oro risplendentissimo. I piedi sono legati nei sandali e il sinistro poggia sullo zoccolo di un marmo violaceo. Ai piedi un’aquila di marmo nero leggermente venato di bianco, con le ali pronte al volo guarda al divo che pensa. Questi è evidentemente ritratto nel momento che raccoglie tutte le sue forze per fissare una melodia, un motivo che gli passa per il capo; dunque nel momento immediatamente anteriore alla creazione 2); e l’aquila aspetta per poi darne notizia agli dei. Non tocco la questione, puramente estetica, se a così breve termine dalla morte di Beethoven era opportuno rappresentarlo nudo – mancando la «lontananza ideale» – e se l’applicazione dei colori nella plastica sia giustificata. Per me, per esempio, il Mosè di Michelangelo nella sua terribile e pur serena semplicità non ci ha a che fare col Beethoven, e il marmo bianco avrà sempre un fascino insuperabile. Sulle estremità esteriori della spalliera stanno cinque teste d’angioli d’avorio che nella diversa espressione del volto pare rappresentino le varie concezioni che tenzonano nel capo del musico. Il resto della spalliera è ornato ricchissimamente di pietre preziose. Non c’è che dire, il monumento senz’essere tutto quello che ne dicono critici tedeschi, è certamente un’opera grande per la Germania, forse per molto tempo unica. Ma ora appena arrivo al nocciolo della questione. I fianchi e lo schienale del soglio sono adorni di altorilievi che rappresentano la filosofia del Klinger, di Beethoven e in genere dei cultori dell’arte moderna. A sinistra Eva porge ad Adamo la mela appena spiccata dall’albero: il piacere goduto contro la proibizione di Dio. A destra Tantalo tenta invano di arrampicarsi su di una rupe a picco per cogliere il frutto dell’albero, ed una Tantalide non riesce, malgrado ogni sforzo, ad attingere con una conchiglia dell’acqua. Ambedue con la mano libera afferrano uno spettro che si libra fra loro. Questo rilievo bellissimo rappresenta evidentemente la voluttà insoddisfatta ed eternamente inestinguibile del piacere, infusa dagli dei come pena a coloro che peccarono contro la divinità. Nel mezzo dello schienale sta il terzo rilievo: in cima al Golgota con i tre crocifissi 3), Maria Maddalena che guarda il buon ladrone; in fondo Venere sorta dalla schiuma del mare; in mezzo san Giovanni in atto di scagliare sulla dea del piacere una tremenda maledizione. Abbiamo dunque il contrasto di due età, di due religioni. Lasciando da parte la maniera di ritrarre il contrasto, la quale per chi vede nel Golgota più che una tragedia umana, è semplicemente ributtante, attendiamo alla soluzione del problema. Chi vincerà? Per quale delle due religioni decide l’artista? Ci fu qualche benevolo che, tirando le cose ai suoi desideri, vide in san Giovanni il Klinger stesso, che scagliando maledizioni a Venere, origine di tutti i mali, la fa rientrare donde era uscita. Ma non è vero. La dea del piacere pare non si curi delle minacce e si rallegra della grazia delle sue forme e della sua nudità provocante. Non resterebbe che l’interpretazione più semplice. Klinger – come Beethoven – è scettico e dichiara la religione dell’arte la più grande delle religioni, come appunto l’heros siede più in alto, al di sopra di tutti i rilievi. Se non ci fosse che l’opera del Klinger solo, non durerei fatica a crederlo. Ma – purtroppo – c’è dell’altro. Dicevo da principio che in questa esposizione si pose alla concordanza di tutte le parti col monumento, cosicchè risultasse un medesimo concetto. Questo principio valse specialmente per le decorazioni, alle quali consentì espressamente Klinger. Ora il motivo che ritorna sempre in tutti gli affreschi laterali e che sono dovuti al celebre Klimt, è il finale della nona sinfonia di Beethoven: «Freude, schöner Götterfunken!». Ed ecco la rappresentazione del Klimt . Prima una serie di figure di donna che si librano orizzontalmente e si lanciano una dietro l’altra; con le braccia distese in avanti: significano l’ansia degli uomini in cerca della felicità. La corsa è contrastata dalle potenze nemiche che il pittore vede in Tifeo, il gigante contro il quale gli dei stessi si combattono invano e nelle sue tre figlie, le terribili Gorgoni. Voluttà, Intemperanza, Lussuria, Morbo, Pazzia e Morte, sogno orribile che ha creato la fantasia dell’artista. E qui – sia detto di passaggio – il più completo verismo; la negazione dell’arte classica. Corpacci deformi e schifosi di femmine, nudità ributtanti, le pose più apertamente oscene, gli atti più animaleschi. Da questa scena al di sopra delle «sozze scapigliate fanti» si stacca una moltitudine di strisce, variamente colorate, che si svolgono come le vibrazioni longitudinali di un’onda fino dall’altra parete 4). Sopra questa finalmente il Klimt dipinge la felicità, il regno ideale. Anzitutto la Poesia che disseta un po’ l’uomo dalla brama innata: poi le arti ci conducono nel regno ideale, l’ultima meta. Qui un coro angelico canta: «Freude, schöner Götterfunken!». E dietro a loro l’uomo, dopo tanti travagli, ha trovata la felicità nell’amplesso con una donna, nella soddisfazione dell’amore. «Dieser Kuss der ganzen Welt». È chiaro? Gustavo Klimt completa Massimiliano Klinger, ed ambedue interpretano Beethoven e tutti i moderni. Klinger dunque ha deciso; l’arte di oggi si è dichiarata per la religione del piacere, il paganesimo, o quello che si chiama con una parola nuova «ellenismo». V’è ancora chi ne dubita? Osservi le decorazioni di Andri nella sala destra, un affresco specialmente intitolato «Freude...», dove è dipinto ogni allettamento del senso e perfino oscenità aperte; guardi attorno alle altre decorazioni, e non vedrà che un’immensa apoteosi della forza, dell’amore sensuale, della carne, della passione. «E quindi sien le nostre viste sazie!». Tiriamo, amici, le conclusioni amare. L’arte moderna in paesi che si chiamano cattolici, è perfettamente anticristiana, spiccatamente pagana. L’arte di oggi non che nipote, non è nemmeno parente a Dio. Sparì la fede che a Raffaello dipinse le tele, scomparvero i Cherubini di Fra Angelico e le Madonne del Perugino, rinacquero le greche etere e Venere risorse trionfante dalla schiuma del mare. La religione del dolore e della prova, il cristianesimo, ha ancora i suoi templi, i suoi sacerdoti; ma i sacerdoti di un’altra religione, quella del piacere, erigono un tempio in mezzo agli altri, un panteon agli dei risorti. E su questo tempio sta scritto: «Der Zeit ihre Kunst...». Sì è dolorosa la constatazione «Al tempo la sua arte!». Quest’arte rappresenta la filosofia delle grazie come la diceva Wieland, la filosofia del gran mondo e del tempo! «Un pubblico numeroso e fremente di santo entusiasmo» 5) s’avvia ogni giorno alla «secessione», paga ed ammira: signori della Corte, borghesi, vecchi, giovani, fanciulle, tutte le «classi colte» portano il loro tributo. Fino a ieri i visitatori secondo la Neue Freje Presse erano 46.500. E così, amici, mentre i cristiani discutono, se la cultura moderna sia conciliabile col cattolicismo o no, risorge il Nirwana e il culto del superuomo, e mentre i cattolici innalzano monumenti al Redentore sulle vette dei monti, lassù sta ancora per Siegfried (il rappresentante della nazione tedesca) la bella vergine del Walhalla dormente, ch’egli dovrà risvegliare al suo amore, non curando le fiamme, né le rupi ardenti, perché lassù troverà la felicità, perché questa è la sua religione, la filosofia delle grazie! Oh che San Marco di Venezia, Santa Maria del Fiore di Firenze, San Pietro di Roma, l’eredità stessa dei capolavori greci e romani, serene speculazioni del bello, preservino la nostra borghesia da una simile decadenza! Restino le glorie dell’arte, le glorie della religione del Golgota! A. Degasperi 1) In questi 15 anni di mano al Klinger uscirono le seguenti opere: Salomè, Cassandra, Anfirite, la Crocefissione di Gesù, Cristo in Olimpo... 2) Secondo la regola di Lessing, dedotta dal Laocoonte. 3) Noto qui che il Klinger l’ha rotta affatto con la tradizione: Cristo è completamene nudo. La croce è composta di due rozze travi non quadrate, il corpo è quasi a cavalcioni di un legno che esce dalla trave principale. 4) Sono parole del signor G. M. di Graz, che nel Popolo del 14 maggio si mostra entusiasta del «Beethowen». A discolpa aggiungiamo che non parla delle decorazioni, e che evidentemente lo conosce solo dai giornali. 5) Forse rappresentano i desideri e le aspirazioni dell’uomo, i quali vanno via ad altra meta. |
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| [...] Signore, signori ! Io vi vengo a parlare ancora di ideali, di programmi, di idee! C’è anche fra i cattolici un gruppo di empirici ai quali tutto questo pare un chiacchierio inutile. Altri invece, buon’anime, lasciano volentieri che i giovani sognino, purché non facciano altro che sognare. Non baderemo né a questi né a quelli, ma nella coscienza dei doveri del presente e dei diritti che aspettiamo dall’avvenire, discutiamo per ora l’oggi, preparandoci un poco la strada per l’indomani. Oggi nel campo studentesco le cose sono a questo: la maggior parte degli studenti, chiusi in una società, di cui l’esistenza sola basta a testimoniare il relativismo della fiacca intelligenza trentina ; gli altri pochi raggruppati intorno ad una bandiera issata di recente fra applausi scarsi, ma con intendimenti ben determinati . I primi, quando cessarono di essere tutto e tutti, non trovarono nel loro programma un solo concetto direttivo che positivamente li distinguesse dai nuovi venuti, e per conservare l’armonia degli intenti finirono col dichiarare di non essere qualcosa e si chiamarono i non clericali; i secondi, staccatisi in prima dagli altri per un problema privato, di scienza, maturando le idee e i tempi, vennero successivamente a schierarsi con coloro che si dicono cattolici in senso più stretto, perché non staccano la vita domestica dalla pubblica, ma vogliono che l’uomo intero segua i cenni della Chiesa nella quale crede. Le società cattoliche trovarono però fra la gioventù studiosa due grandi nemici: le tradizioni del passato e le correnti predominanti del presente. Il passato della vita universitaria, il passato recente non conobbe società che facessero calcolo anzitutto delle convinzioni morali-religiosi e, mentre nelle università si combattevano epiche lotte fra i tradizionali principi cattolici e le nuove idee sorte in nome di una scienza che fece poi il fallimento, toccava ai figli di un paese cattolico starsene indifferenti quasi che non si trattasse di cose loro. Era forse riflesso del liberalismo moderno, indiscusso da altri tempi, forse anche nei buoni paura di crear maggior male. Ma intanto si fece strada il pregiudizio che le società dovessero di regola essere neutre, che le confessionali portassero inutili discordie, e le mamme ancor ora, quando congedano il candidato, gli raccomandano a calde lacrime le solite devozioni e continuano: Non impicciarti con società o, alla più, sta là dove ci possono star tutti. E per fortuna le poverette trovano anche qualche buon prete che sa tranquillarle in proposito! Da questa atmosfera infida parve un giorno ci dovessero liberare i socialisti. Erano giovani e si dicevano fautori dell’avvenire; si presentavano in nome di una dottrina e di un movimento ch’era ad un tempo religione e programma d’una vita intera. Parlavano di principii e di idee, riducevano la lotta nei suoi veri termini. «Dove passerete voi, passeremo anche noi» scrissero dopo il congresso di Pergine . Non fu vero! Nessuno s’accorse dopo l’entrata del socialismo, che negli studenti – le eccezioni non contano – siano penetrate nuove idee, abbiano fatto scuola nuovi ideali, e soprattutto che questi ideali siano stati messi a programma d’una società o scritti su di una nuova bandiera. Tutto si ridusse ad un po’ di radicalismo dalle tinte più vivaci; in questo o quel congresso si udirono delle frasi più forti e più arrischiate. Che era stato? I socialisti avevano cambiato al vecchio fonografo liberale il cilindro, ve n’avevano sostituito uno nuovo e si sonava allegramente; erano le medesime frasi, gli stessi motivi, ma più ben intonati, più forti secondo le nuove invenzioni. Di queste frasi parecchie suonavano accusa contro di noi; le più parevano fatte apposta per crearci attorno pregiudizi ancor maggiori e così s’aggiunse al passato il presente. Il nostro programma, le nostre idee giungono quasi sempre indirettamente agli orecchi degli studenti che escono di ginnasio, quasi mai a quelli dei genitori. Gioverà oggi che parliamo in questa Trento, centro intellettuale – almeno per gli studenti – ripetere quello che siamo e quello che vogliamo. L’Associazione universitaria ha scritto sulla propria bandiera: Pro Fide, Scientia et Patria. Permettete, o signori, che oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astrattismi ed esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici italiani, democratici! Ruskin disse una volta: «Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla Patria ed alla società». Con la nostra formula noi vogliamo quello che desiderava Ruskin. Cattolici! Siamo al punto fatale della divisione. Non risusciterò, signori, antiche polemiche, né ripiglierò i classici argomenti che svolsero i trentini in quei giorni, in cui si dovette rompere un infausto letargo e riscuotere il paese a quella vita, di cui oggi appunto ci rallegriamo. Ma è strano che di tutti quei rumori non sia arrivata nei circoli universitari tanta eco, da giustificare e motivare il nome che abbiamo dato alle nostre società. Giovani, negli anni nei quali con tutta l’anima si cerca ovunque il vero e l’ideale, venuti alle università, che furono per tutto il secolo XIX le officine di nuovi rivolgimenti intellettuali e sociali ostili al cattolicismo, avrebbero dovuto accorgersi che, alle soglie dell’aula magna, vengono a toccarsi cogli estremi confini due mondi avversi: mondi di idee e di convinzioni, ma che fuori nel turbine sociale corrispondono a due grandi soluzioni pratiche e radicali della vita presente ed avvenire. Questo contrasto, questa lotta suprema essi avrebbero dovuto affrontare e coraggiosamente superare in sé stessi e consacrare gli entusiasmi e le forze giovani all’una causa o all’altra. Si preferirono invece – pochi eccettuati – alle soluzioni radicali le soluzioni intermedie. Le idee «moderne» fecero un vile compromesso con quel po’ di cattolicismo che doveva restare per amor delle tradizioni familiari, ridotto naturalmente ad una somma più o meno grande di messe basse per non disgustare le ferie alla mamma. E quel tanto di cattolicismo che non si adattava al compromesso venne chiamato clericalismo, e a noi, che decisamente avevamo preso le parti di uno dei combattenti e ci eravamo dichiarati per una soluzione radicale, si gridò: fanatici, e turbatori della pace. Signori, anche Cristo un giorno ha detto: Non vengo a portar pace, ma spada. Ma regnava una pace in cui il bene era confuso col male, col vantaggio del peggio. Il Trentino è un paese, negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano. Mentre la fede dei lavoratori di questa dura terra trentina restò salda malgrado la marea, che ascendeva quasi difesa da baluardi naturali, non ne rimasero illese le nostre città, i nostri borghi. Lo spirito invadente del paganesimo, qualunque nome portasse, penetrò in questa società colta, ove coltura divenne più o meno sinonimo di scetticismo. O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri, la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono inspirati ad ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicismo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose. I nostri contadini comprendono che fra loro e i signori c’è una grande diversità di convinzioni, benché non sappiano misurare la profondità dell’abisso; e quando muovono alla chiesa e vedono il dottore o l’avvocato seduti alla porta del pizzicagnolo o dell’oste del paese osservarli con un cert’atto di superiorità e disprezzo, brontolano qualcosa che esprime il voto di un popolo intero più che non avvenga in cento comizi. E se domandate loro dell’origine di questi mali, vi rispondono: Ma, sono stati all’università! Conosco un buon uomo intelligente che aveva posto le più belle speranze su di un nipote che in ginnasio non aveva mai fatto parlar male di sé. A suo tempo, espresse allo zio il proponimento di andare all’università, e lo zio, pur continuandogli la sua benevolenza, incominciò a dargli del lei. E al nipote meravigliato motivava la mancata confidenza così: Mio caro, lei ora va all’università, quando ritornerà non penserà più come me ed è meglio ci avvezziamo ora a trattarci con deferenza. Nessuno vorrà negare che i nostri popolani nell’indicare la origine del male, non colpiscano nel segno. Sì, dall’università ci venne il paganesimo intellettuale, se non sempre la crisi morale. Ebbene, o signori, volevate voi che giovani convinti della loro fede ed entusiasti della sacra poesia della religione paterna, saliti là dove più distintamente s’ode il rumore della battaglia suprema, se ne stessero indifferenti osservatori? No, noi abbiamo ascoltato la voce del dovere, ci siamo stretti in un fascio, abbiamo spiegato la nostra bandiera e abbiamo offerto alla causa cattolica il nostro tributo di forze giovanili. Noi, ricordandoci delle parole di Montalembert , non abbiamo nemmeno supposto di non accettare le condizioni di un’epoca militante. Non bastava conservare il cristianesimo in sé stessi, conveniva combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti. Contribuire ora e più tardi al ritorno delle classi colte trentine all’antica fede della città del Concilio, e distruggere così l’abisso fatale aperto fra il popolo e la colta borghesia, ricondurre quell’armonia necessaria ad un popolo tendente ad alti destini, ecco quello a cui noi tendiamo e che esprimiamo mettendo a capo del nostro programma la parola cattolici. E a questo scopo ci soccorre la fede che solleva i cuori e la scienza che arma la mente. A chi nega la conciliazione dell’una con l’altra, risponda Pasteur . Disse una volta ad un cotale che gli domandava se fra i risultati delle sue esperienze e la Bibbia avesse mai trovato contraddizione: Signore, io passai la vita nello studio, e giunto alla fine credo quanto crede un povero contadino della Bretagna. Se vivessi ancora penso che le mie esperienze mi condurrebbero a quella fede che anima la più povera vecchiarella brettone! Signore! signori! I polacchi dicono che per loro polonismo e cattolicismo è la medesima cosa. Polacco significa già cattolico. Parlando di noi trentini potremo dire a più ragione: Cattolici significa già italiani. E avremo una parola di meno nella formula. Ma viviamo, o amici, in un paese di confine, ove valse finora per buon italiano chi giurò spesso d’esserlo, ove una borghesia di petrefatti ricantò nei caffè e nelle accademie ideali vecchi, tramontati già, se non mai sorti, per le masse popolari, belli se commuovono un popolo intero, quando seguirli venga stimato virtù; spogli di splen dore, abbrutiti quando non facciano conto della realtà delle cose e dell’anima popolare e vengano rappresentati senza uomini o partiti come passione senza il riconoscimento delle leggi morali e dell’ordine civile! Questi uomini e questi partiti o giovani, che ne ereditarono il fonografo, ripetono ancora oggi in buona o mala fede una terribile accusa contro i cattolici: mancar essi di patriottismo ed amore alla propria nazione. Ricorderò sempre, o signori, con sdegno la risposta che a me e ad un mio collega diede uno studente radicale in Vienna, quando eravamo accorsi come tutti ad interessarci d’una questione comune: Voi cattolici – lo sapete – non vi teniamo come italiani. Ah! Viva Dio, avremo dovuto rispondergli, i cattolici sono italiani da secoli, da quando sorse la nazione intorno alla cattedra di San Pietro; voi siete – se lo siete – italiani da dieci-dodici lustri. I cattolici hanno dietro quasi due periodi storici che furono guelfi, voi, forse, il ghibellinismo di cinquanta anni. Ma ci parve meglio ridergli in faccia. E così dovrei far oggi e passar oltre e dire: Guardate che cosa hanno fatto i cattolici trentini per la difesa della loro lingua e dei loro costumi, e vi basti. Se oggi sviluppo alquanto il nostro pensiero, non è per rispondere a certi giovanotti che di questi giorni proprio vanno, a rovina della patria e a vantaggio di un partito, ripetendo antiche menzogne, né per ottenere la patente di buon italiano da certi signorini che poi dichiarerebbero, magari dal podio del teatro sociale, di non crederci; ma io penso alle madri ed alle famiglie, ove la calunnia poté trovare credenza. A loro gioverà gridare di nuovo: No, questi giovani che si propongono d’essere anzitutto cattolici, non dimenticano socialmente di essere anche buoni italiani. Difendendo la fede e i costumi dei padri, compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemoratori delle glorie altrui ripetono doversi sacrificar tutto e idee e convinzioni. Questo concetto trapelò anche da noi in molte occasioni e quando si dice che davanti al monumento a Dante devono sparire tutte le misere divisioni di partito, che cosa si vuole insegnare altro alla gioventù se non altro che la Nazione va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Signori, non è vero! Noi ci inchiniamo solo innanzi a un Vero supremo indipendente e immutato dal tempo e dalle idee umane e al servizio di questo noi coordiniamo e famiglia e patria e nazione. Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo fino là dove finisce il cattolicismo. Pratica: non furono i cattolici che ordinarono i fatti di Wreschen, ma furono coloro che senz’altro ritegno di giustizia e moralità gridano: la nazione soprattutto. No, Iddio, il Vero innanzi tutto! Nella pratica della vita questo principio non ci ha impedito di accorrere ogni qualvolta lo richiedesse l’onore di tutti gli italiani: e noi giovani anche per l’avvenire non perderemo nella nostra propaganda democratica cristiana; rammenteremo sempre che vogliamo creare non soltanto buoni cattolici, ma anche buoni italiani, amanti della lingua loro e dei loro costumi, fieri di appartenere a quella Nazione che fu nella storia la prediletta della Provvidenza. Un’altra parte del nostro programma è espresso nella parola «democratici». Signore e signori! Se le esigenze del Congresso e la ristrettezza del tempo lo permettessero, io vorrei parlare a lungo su questo argomento. E non perderei tempo! A quei signorini universitari che se ne stanno anche durante gli anni dello slancio e dell’altruismo epicureamente lontani dal popolo e s’avvezzano per tempo al caffè donde c’è venuta una borghesia parassitaria, vorrei ripetere oggi questa parola. Anche in questo riguardo il periodo universitario è fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti. O che da giovani ci si avvezza a ridurre il mondo ai giornali che si leggono e ai membri della propria classe, e allora il giovane, divenuto dottore, avvocato, non discenderà fra le grandi masse popolari come fratello ai fratelli, ma come rappresentante di quella borghesia che si attirò nei tempi nostri tanti odi e maledizioni. O che si vede già da giovani oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune. Non è mancanza di modestia, o signori, se noi, studenti cattolici, ci mettiamo senz’altro fra i democratici. Io credo che nessuna associazione universitaria ha tanti membri che si siano, come molti dei nostri, buttati all’istruzione popolare ed abbiano affrontato con coraggio, quando i loro studi lo permisero, il problema di creare nel popolo trentino democratici cristiani. Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori dell’uomo, in tutta la vita pubblica. Signore! signori! Con questo programma che abbraccia tutta la vita, abbiamo alzato l’anno scorso, all’aurora del secolo XX la nostra bandiera. Questa bandiera l’abbiamo portata in mezzo alla gioventù studiosa, chiamando a raccolta e continuando a combattere. Noi vogliamo creare caratteri, vogliamo chiarezza d’idee. La nostra società è sorta come un’accusa contro i compromessi morali e religiosi. Noi rompiamo questa massa incolore, fortemente, ma lealmente! Numquam incerti, semper aperti! Non tema qualche buono che con ciò creiamo dissidi incancellabili. Vogliamo la guerra, ma per la pace. Quando gli studenti si troveranno di fronte con ideali chiari, con propositi precisi, sarà più facile intendersi. Ma fino a che regna la nebbia e il mare batte furioso, noi – la cavalleria leggera dell’esercito cattolico – stiamo sull’attenti, e al primo rumore che precorre l’assalto, gridiamo rivolti a tutti: Alle dighe; e vi ci lanciamo per i primi! |
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| 01901-1905
| Nel N. 199 dell’Alto Adige il prof. F. Menestrina rivolge agli studenti universitari una parola franca, la quale suona come un rimprovero, meditato da tempo, ma lanciato all’ultima ora, quando cadde la speranza di un’autocritica che avrebbe forse salvato a qualche studente almeno il diritto di parlare di dignità e di carattere. Benché il rimprovero non sia diretto propriamente a noi dell’Associazione cattolica che non abbiamo adottato una formula radicale alla quale non ci sentivamo di corrispondere in alto – almeno nella sua integrità – tuttavia ne fo cenno qui, perché mi dà occasione di esporre alcune idee in proposito, che maggiormente si accentuarono nella discussione su questo argomento nell’ultimo nostro convegno. Penso anzitutto che in quanto all’ideale tutti si trovino d’accordo: converrebbe andare tutti ad Innsbruck, prender d’assalto le cattedre parallele, vincere o venir vinti, restando in ogni caso per lo meno con vantaggio eguale. Ma nella pratica è possibile che tutti o quasi tutti si concentrino nell’università contrastata? Ragionavamo di questo con un amico che poi ebbe a dimostrare coi fatti la sua piena adesione alla tattica ideale, e calcolavamo il numero di coloro che avrebbero potuto trasferirsi da Vienna a Innsbruck. Ebbene? quattro o cinque soltanto. Parlo sempre dei trentini, ché degli adriatici le cose stanno pur troppo diversamente. Gli altri, chi per ragioni economiche, chi per ragioni di studio imprescindibili non avrebbero potuto compiere la concentrazione che a costo di sacrifici impossibili. Ma si dice che a Graz stiamo meglio in questo riguardo e che un numero abbastanza forte della facoltà giuridica potrebbe senza gravi sacrifici portarsi ad Innsbruck. Ciò giustifica e motiva pur troppo il rimprovero del prof. Menestrina, ma non dà ancora ragione a coloro che vorrebbero ripetere come parola d’ordine per la pratica avvenire «Tutti ad Innsbruck». Avremmo diritto di far questo quando per lo meno / degli studenti trentini fossero nella possibilità materiale di stare alla consegna, altrimenti si mette a rischio... nient’altro che l’onore. Per ora – direbbe il sottoscritto se avesse voce in capitolo – facciamo così: gli studenti che appartengono ad una delle società accademiche vengano interpellati uno per uno dalla presidenza. Il presidente cioè s’informi quali soci possano recarsi ad Innsbruck e ne faccia loro questione d’onore in maniera che il socio venga moralmente costretto a seguire la tattica della maggioranza. Anche i circoli universitari potrebbero far molto. Cosa sarebbe p. e. se in certi circoli, ove di un certo onore convenzionale da fioretto ce n’è d’avanzo, si obbligasse chi la voce pubblica mette tra i «possibilitati» a recarsi ad Innsbruck? So che qui c’è di mezzo la questione degli adriatici, una questione seria. Ma non si potrebbe ridurre anche quelli ad aderire alla tattica di Innsbruck per mezzo di persone serie ed influenti di laggiù? Ad ogni modo badino i Trentini prima a fare il proprio dovere, per poter poi colle spalle al muro rinfacciare gli altri di codardia. Un’altra faccenda dove ci sarebbe da ridire è quella dei comitati pro università. Sorti una volta in mezzo alla burrasca, quando valeva più l’impeto o l’entusiasmo che la moderazione o la costanza, furono costituiti solo di studenti, quasi che la questione universitaria passasse soltanto sopra le loro spalle. Ora, senza voler criticare l’opera loro fino ad oggi, credo però di non dir troppo se asserisco che per l’avvenire, essi saranno inetti a compiere un lavoro serio e continuo, nel quale devono godere la fiducia di tutto il paese. A mio credere, il lavoro che si dovrà fare richiederà più le attitudini del vecchio che quelle del giovane, o almeno ambedue proporzionalmente. Alle università quindi si eleggano comizi misti di studenti e d’altre persone attempate, il cui nome solo infonda fiducia. S’eviteranno così certe rappresaglie da settari, certe imprudenze e peggio, che possono o avrebbero potuto rovinare la buona causa. Concludo: organizzate in seno alla società e circoli studenteschi il concorso ad Innsbruck e così lavoreranno per lo scopo comune tutti, chi va e chi resta; costruite comitati che diano grande affidamento di sé, e nel Trentino avrete il concorso di tutti e non soltanto la bolsa lirica della stampa. L’associazione cattolica si è già espressa favorevolmente per queste idee. Riusciremo dopo tutto questo? Non lo so; ma almeno sarà salvo l’onore, e potremo dire come il vescovo Notker a Hugo von Sitten: Volui et volo; sed conclusi summa in manu Domini et nos et opera nostra; est enim quae nos trahit necessitas non voluntas, et iniunctis iustare nequimus: ex eo minus vota exsequimur a.d. |
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| 01901-1905
| La giornata di domenica ha mostrato al Trentino uno spettacolo nuovo. Dopo un lavoro sereno ed elevato, di tre giorni continui, intorno ai problemi più intensamente moderni, che interessano la religione e le classi superiori, noi abbiamo fatto un’affermazione solenne e vigorosa di coscienza cattolica e di principi democratici. Quei cinquemila operai e contadini che compatti passavano per le vie di Trento, superbi del loro nastrino e dei bianchi garofani, stretti intorno alle loro bandiere, avranno certo turbato i sonni felici ed eccitato il sangue di certi borghesi camorristi e dei settari del socialismo, ma hanno anco detto chiaramente al paese: La forza, l’avvenire siamo noi. L’hanno detto e lo saranno. Chi, anche scettico, ha assistito al nostro congresso, osservando, lo svolgersi laborioso della discussione in tutte le sezioni, chi vide la splendida chiusa della festa, ne dovette necessariamente trarre la convinzione profonda che l’idea democratica cristiana nel nostro paese è in movimento ascendente. E nella democrazia è la forza, l’avvenire. Noi non dobbiamo però addormentarci in questo bel sogno, non cullarci neghittosamente nelle belle speranze, per quanto fondate, non riposarci sui colti allori. Ma i bei sogni devono allettarci ad affrettare la corsa per raggiungere concepite, le speranze, accrescerci l’ardore dell’azione, moltiplicare gli sforzi tutti. In questi cinque anni noi abbiamo fatto un lavoro immenso, abbiamo percorso una immensa strada, è innegabile. Abbiamo coperto il paese di una fitta rete di società economiche, di società di credito, di consumo, di produzione, di assicurazione e di smercio e le abbiamo riannodate intorno a fiorenti società centrali che ne sono il sostegno e l’anima e che coordinano tutto il movimento. Quasi quattrocento società, ben organizzate e solide, e poderosi istituzioni centrali quali la Banca, il Sindacato, la Cassa centrale, la stamperia... in soli cinque anni! E tutto per il popolo liberato dalle angherie, dall’usura dallo strozzinaggio nel credito, nel consumo, nello smercio, nella produzione ed assicurato mutuamente nelle immancabili avversità! Quanto cammino in pochi anni! Ma la via non è ancora percorsa, la fabbrica non è ancora compiuta. Molto ci resta a fare ancora; basta leggere le risoluzioni del congresso , specialmente quelle che riguardano l’organizzazione professionale. E se ci resta molto ancora da fare estensivamente, quanto non ci resta da fare intensivamente! Nel campo della propaganda, specialmente e dell’educazione, siamo si può dire ancora agli inizi. In questi cinque anni abbiamo create le società, ora ci tocca di fare almeno in parte, i soci. Gli avversari più di una volta gettarono in fronte ai nostri l’accusa di incoscienza e risero dei 33mila cooperatori, portati avanti come sostegno delle idee cristiano-sociali. La verità anche dolorosa, è giovevole confessarla, e ce lo impone anche quella lealtà verso gli avversari che dev’essere la nostra base d’azione. Sì, non esito a dirlo, tra i nostri soci vi sono molti, che restringono le loro vedute ad una concezione gretta del nostro programma, e riducendolo a una mera azione economica. Questo è perciò il compito che ci spetta: creare una coscienza sociale in tutti i soldati delle nostre file. Noi dobbiamo persuadere i contadini e gli operai, che la democrazia cristiana, seguendo i sapientissimi indirizzi di Leone XIII, mira ad un totale rinnovamento della società, ad una instauratis ab imis fundamentis, per raggiungere la quale vogliamo che i rappresentanti delle nuove idee lavorino nelle assemblee legislative a difendere la Chiesa e il popolo. Bisogna persuadere i nostri cooperatori, che le istituzioni economiche non mirano soltanto a dare loro il fabbisogno ad un prezzo onesto e a liberarli dall’usura; ma che, senza un alto ideale cristiano sociale – che giustifica e spiega la aconfessionalità – esse perdono il loro fine mediato, ma importantissimo, e tosto o tardi degenereranno nelle miserie del neutralismo. Che, infine, quantunque, e anzi appunto perché la questione sociale è una questione essenzialmente morale, essa deve abbracciare tutto l’uomo, non deve limitarsi ad una visione unilaterale – come pur avviene di molti che pongono l’essenza del cattolicismo e della vita religiosa in certe esteriorità che formano a mala pena, se la formano, la scorza; ma deve pervadere tutta la vita sociale e accanto ai rapporti di carità occuparsi dei rapporti di giustizia. È una coscienza insomma che noi dobbiamo creare tra i nostri, integralmente religiosa e perciò anche sociale; coscienza dei loro doveri e soprattutto dei loro diritti di uomini e di cittadini, coscienza dell’importanza storica e delle altissime finalità, che, in questo secolo di crisi, attendono gli sforzi delle classi inferiori organizzate. Allora noi potremmo dire di essere veramente padroni del paese, quando nell’animo di tutti i nostri sarà diffuso un sentimento di un dovere sociale da compiere, quando ognuno saprà che egli non è membro di una società sorta nel suo paese per necessità tattiche dal momento, ma l’anello di una grande catena, la particella di un immenso edificio, che l’evoluzione dei secoli e il maturare delle idee vanno inalzando. Allora tutti staranno al loro posto di combattimento colla coscienza di combattere per la civiltà ed il progresso umano, che si aggirano sempre attorno ai principi del cristianesimo. Allora noi saremo invincibili. Il Belgio insegni. Al lavoro dunque! Il nostro Congresso ci ha additati tre mezzi potenti per la propaganda di idee: sta a noi il profittarne. E in primo luogo la stampa. Noi della stampa nostra ci siamo troppo poco occupati, abbiamo trascurato di formare intorno ad essa quel nucleo di studiosi che ne sposano in parte, in parte ne determinano le idee e ne sono i più validi sostegni. Noi abbiamo trascurato di migliorarla e di diffonderla, di assicurarle finanziariamente l’esistenza. Non dimentichiamo che una campagna giornalistica ben condotta ha vinto più d’una battaglia, che il giornale penetra e porta il germe fecondo di discussione e di convincimenti ove non arriva la viva voce, che l’argent fait tout, il quarto potere può ancora più del denaro, perché, alla fine, nell’uomo moderno, l’azione è determinata dall’idea, né le masse si muovono se il terreno non è preparato. In secondo luogo le conferenze. Il congresso ha deciso di promuovere un’attiva formazione d’una squadra di conferenzieri, che si rechino a propagandare le valli e diffondervi l’idea sociale. La simpatica associazione universitaria, che nella sua breve vita può orgogliosa mostrare un vasto lavoro d’istruzione popolare, ha raccolto con tutto l’entusiasmo giovanile la proposta, l’ha confermata nella sua adunanza speciale e già ieri uno dei suoi più valenti oratori cominciava, a San Lorenzo, la serie delle conferenze popolari che continueranno per tutto il mese. E ben venga quest’attività giovanile, ma sia sorretta dagli sforzi e dalla cooperazione di tutti. Né si restringa ai soli studenti; i nostri operai fatti coscienti ed educati alle battaglie della parola saranno i nostri apostoli migliori; essi conoscono le intime fibre dell’anima popolare, essi sentono i battiti del cuore di quella plebe, dalla quale sono elevati e sapranno penetrarvi, persuaderla, guadagnarla a noi. E finalmente venga la geniale, simpatica nuova istituzione: il «Giovane Trentino». Sì, la nostra società sportistica – ché nel primo convegno parziale dei soci ha preso questo nome, simbolo degli ideali tutti che affratellano, e delle speranze nostre nell’avvenire – è destinata a portare colla schietta energia e l’alacre entusiasmo dei giovani l’idea sociale in tutte le vallate del nostro paese, a trarre a noi tutti quelli che ci guardano diffidenti perché non ci conoscono, che stanno a noi lontani, perché non sanno che nel nostro programma è scritto tutto quanto v’ha di buono, di bello, di utile alla vita moderna. All’opera dunque, nel lavoro è la vita! Un reduce del Congresso. |
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| 01901-1905
| Amici ! Nella nostra terra trentina vennero eretti sul principio del secolo nuovo due monumenti. L’uno si va elevando lassù tra il verde delle conifere e voi, contadini di Civezzano, quando uscite la mattina al lavoro dei campi siete soliti ammirare quella sua facciata bianca che s’impone sempre più a questa conca di Pergine e alle valli; l’altro , se lo cercate, lo trovate in un giardino pubblico; e gli passa davanti più o meno riverente la folla dei cittadini che si riversa la sera in Piazza Dante cercando svago o spasso o un ritrovo. Questi due monumenti, o amici, son come una pagina della nostra storia modernissima e, ad un tempo, segnano i due cardini fatali intorno a cui si svolgeranno le lotte nostre nel futuro, in un futuro molto vicino. Sorge il primo presso il Santuario della Madonna di Pinè, ove i buoni trentini quasi annualmente vanno in pellegrinaggio a rinforzare e a dimostrare il sentimento religioso e la pietà. Sorge dedicato al Divin Redentore, quasi protesta che il Trentino dopo un secolo rinnegatore dei benefici del cristianesimo, vede sempre in lui, nel Nazareno, la verità e la salute. Sta là come un giuramento che il Trentino rimarrà sempre la diocesi degna di un san Vigilio. Quelli che verranno dopo di noi e leggeranno delle generose offerte dei comuni e dei privati, saranno grati alla generazione presente e la loderanno. Ma d’altra parte vi sono anche dei trentini degeneri che non credono quello che ci insegnano le nostre mamme, non ascoltano più la voce delle nostre campane, dimenticano tutto il buon Trentino passato, seminato di croci e di campanili. Anche in questo Trentino resta un ricordo marmoreo ed è il monumento a G. Canestrini , inaugurato clamorosamente in Trento fra applausi e imprecazioni. Questo monumento – l’hanno dichiarato essi – non fu omaggio ad uno scienziato più o meno grande, ma omaggio a idee e teorie contrarie a quelle che abbiamo creduto fino ad ora, e quello che si disse e si fece in quell’occasione fu come uno schiaffo in viso a chi sente e pensa cattolicamente, fu una sfida lanciata a tutti che vogliono il Trentino cristiano, dal Vescovo all’ultimo prete di montagna, lanciata a voi buoni contadini, a voi buoni operai. Ebbene, o amici, la storia dovrà decidere se noi cattolici trentini abbiamo accettato coraggiosamente la sfida, e se abbiamo combattuto da valorosi la battaglia. La guerra, la battaglia! Voi abitatori delle valli e dei monti non ne avete ancora sentito che i rumori lontani, ma ora il nemico è venuto ed ha fatto la dichiarazione di guerra. Per cinque anni giravano le città e i villaggi, parlando di vantaggi economici, di progresso e di scienza. Ma ora che ci hanno detto chiaro che cosa essi intendano per progresso, di qual specie di scienza intendevano di dire: baldanzosi per la conquista di un paio di città, si credettero sicuri tanto da calare la maschera e lanciar sfide a tutto il Trentino. Ebbene, noi cattolici, questa sfida l’accettiamo: e l’accettiamo non soltanto per respingere gli aggressori ma anche per conquistare. In queste due parole c’è tutto il nostro programma: formare una falange irremovibile che sostenga qualunque assalto e non lasci passare il nemico e contemporaneamente addestrare delle squadre di cavalleria leggera che muovano all’assalto e alla riconquista: c’è posto per i vecchi e per i giovani. Accenno a ciò qui in questa adunanza, credo opportunamente, perché i battaglioni di questo esercito sono formati quasi tutti dalle Società agricole operaie. Ricordatevene, o amici, sulle Società operaie pesa ora, si può dire, l’esito della battaglia, il destino della patria. Che non avvenga di nessuna di quelle che sono qui rappresentate ciò che accadde a qualcun’altra, la quale limita la sua attività a qualche pratica religiosa in comune, alla bandiera forse issata con qualche entusiasmo e poi ripiegata e messa nell’armadio ove con essa viene seppellita anche la vita sociale. Si ricordino tutti quelli che lavorano nel campo delle società operaie che esse hanno assunto ora – di fronte al Trentino cattolico – un grande compito d’istruzione e di educazione. In piazza ora si parla stortamente e a rovescio dell’inquisizione, di Galilei, dell’evoluzione, della democrazia; ebbene ora conviene spiegare nelle Società operaie che cosa fu l’inquisizione, che ne fu di Galilei, che cosa è l’evoluzione, qual’è la democrazia vera, che cosa vuole la democrazia cristiana. Solo, o signori, a patto di formare nel Trentino una coscienza nuova, d’infondere nelle valli un nuovo slancio di vita, saremo degni della vittoria. Qualcuno mi obbietterà che è cosa difficile, impossibile. A quello io addito Civezzano, perché gli serva d’esempio. Anche questo paese una volta andava a rilento e passava per «malva», ed ora dobbiamo venire da Trento a Civezzano per imparare che cosa sia la vita che cosa frutti un lavoro continuo. Con una settantina di Società operaie come quella di Civezzano noi rideremmo di qualunque sfida. Avanti dunque – dico rivolto alle altre – al lavoro, preparatevi alla guerra! Due grandi eccitamenti, due grandi fiotti di vita sono venuti a noi in questi ultimi tempi: 1) il Congresso cattolico che fu come le nostre grandi manovre, ove si vide il lavoro pratico, sociale prestato in cinque anni dai cattolici, e si sentì anche lo spirito nuovo che informava le masse dei contadini e degli operai poiché, o amici, non era più «la scarpa grossa» isolata, impaurita da ogni cosa nuova che si batteva sui marciapiedi di via Larga, ma erano cinque, anzi diecimila «scarpe grosse» organizzate in assetto di guerra; e passavano via superbi della loro coccarda sotto una bandiera, soggiogati da un’idea comune; 2) il Congresso degli altri, l’offesa recata, la sfida lanciata . C’è qualcuno al quale piacerebbe quel bustarello tolto via donde l’hanno messo e rotolato chissà dove! No, amici, lasciatelo lì anche perché ci serva d’ammonimento. Come quel generale persiano aveva l’incarico dal re di ripetergli ogni qual tratto: «O re, ricordati della sconfitta di Maratona», affinché il re ben si preparasse alla riscossa contro la Grecia, così quel busto ci ammonisca sempre del dovere sacro che abbiamo di rintuzzare l’offesa, di marciare alla riscossa. Se ognuno di voi che passa davanti al busto di Canestrini si ricordasse dell’obbligo di istruirsi, di prepararsi alla battaglia, allora nelle Società operaie si educherebbero tal «rospi» che quel tal dottore, riuscirebbe a stento a schiacciare Allora il nostro esercito – lasciate che m’immagini la nostra conquista morale in modo palpabile – fatto più cosciente più svelto e più leggero, discenderà dai monti nostri, su cui imperano le nostre croci, alle città, e forse allora si apriranno quelle certe finestre dei signori «filistei» che le hanno chiuse al dì del congresso, compariranno alla luce del sole certe bandiere che non si vollero issare e faremo campo in piazza Dante dinanzi al monumento di Canestrini. E non l’oltraggeremo, no! ma se l’iscrizione sarà spazzata via dalle ali del tempo (vedi discorso Altenburger) e se gli anticlericali nelle angustie della sconfitta non provvederanno a rifarla, ce la faremo noi la scritta, magari sulle tracce della vecchia, di fronte al Vaticano. E scriveremo: A G. Canestrini – studiò e faticò molto – ma sbagliò la strada – Riposa in pace. Allora l’arma non sarà un trofeo della vittoria del «libero pensiero», come si augurava il barone Altenburger, ma un ricordo della sua sconfitta. E l’unico interprete e testimone fedele dei sentimenti e delle idee della nostra età resterà il monumento alla Comparsa dedicato al divin Redentore il quale disse: Non praevalebunt! |
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| 01901-1905
| Vienna, 19 Ci andiamo avvicinando ad una grande battaglia elettorale. Gli abitanti dell’Austria Inferiore sono chiamati alle urne, donde usciranno i nomi dei nuovi rappresentanti alla Dieta provinciale. La giornata campale sarà per Vienna il 5 Novembre, per il resto della provincia il 28 ottobre. Nessuna elezione finora in Austria ebbe tanta importanza come questa, e nessuna campagna elettorale prese tali dimensioni dopo l’introduzione del costituzionalismo. Il giorno dell’elezione marcieranno l’uno contro l’altro due eserciti inconciliabili, quasi pari di forze. Dalla vittoria dell’uno o dell’altro dipenderà se il partito cristiano-sociale riavrà in mano la maggioranza dietale o no. La lotta è estremamente difficile. I cristiano-sociali dal ’96 in qua avevano la semplice maggioranza di due voti, a cui s’aggiungevano di volta in volta i quattro voti dei cattolici del grande possesso fondiario; la rielezione dei quali però dipende da un compromesso coi feudali liberali. Ora se si pensa che il partito cristiano-sociale si trova per la prima volta solo di fronte alla coalizione di tutti gli altri partiti e che ben difficilmente i feudali liberali rinnoveranno il compromesso, si comprende di leggeri la fatalità della lotta. Roma e Cartagine Non saprei meglio caratterizzare le due armate che verranno al cozzo terribile che paragonando la guerra imminente con quella di Roma e Cartagine. Il paragone è del principe Luigi Liechtenstein . Da una parte i cittadini viennesi, i professionisti, gli artigiani, il popolo onesto che lavora e i contadini della campagna che combattono pro aris et focis per le mura avite, per il focolare paterno: Roma. Dall’altra i semiti di Cartagine, i capitalisti che hanno assoldato un esercito di mercenari il cui grosso è formato dal proletariato socialista internazionale. Il primo esercito marcia sotto una bandiera su cui sta scritto: Per la Fede e i costumi degli avi, per l’emancipazione dallo spirito e capitale ebreo. L’altro inalbera bandiere diverse, ma su tutto sta un motto comune: Abbasso il cattolicismo ed il Cristianesimo. Passiamo attentamente in rassegna le sue file. Prima vengono i vecchi liberali, i quarantottisti, i rappresentanti dell’oro e della bancarotta politica, i fabbricatori della pubblica opinione (Neue Freie Presse, Tagblatt, Zeit ecc.), i padroni della borsa, i grandi industriali e commercianti: il capitale insomma internazionale, i cartelli, i trust e la «fournaille». Tutto questo po’ di roba messa insieme porta l’etichetta di Fortschrittpartei ma il vero nome è Alliance Israélite. Poi viene un partito che nell’Austria inferiore si chiama Misch-Maschpartei, perché è molto difficile a caratterizzarsi. (Fate conto come la «Lega liberale democratica» del d.r. Silli ). Officialmente si chiama «Deutsche Volkspartei» ed avrebbe nel suo programma l’antisemitismo a scartamento ridotto, se questa volta non si fosse pensato a ridurlo a zero. Il generale di questo corpo d’esercito è il borgomastro di S. Poelten, Völkl e i soldati gli «intellettuali» delle piccole città della provincia, qualcosa come i frequentatori quondam caffè Nones. Subito dietro a loro passa Wolf coi suoi «ost-deutsche», Schoenerer cogli «alldeutsche» e finalmente s’avanzano le schiere rosse, i giannizzeri, i mercenari dell’esercito. Il loro capo è l’ebreo Ellenbogen, innanzi al quale notoriamente «curvan la fronte...» Colmano, Piscel e Battisti. La riscossa Questi partiti, sorti o risorti finora sotto diversa bandiera marciano ora sulla medesima via alla riscossa. La Dieta si è addimostrata il più forte sostegno del regime cristiano-sociale. Se la dieta è in mano altrui il Comune di Vienna non si sente più libero. Dunque la riscossa deve incominciare di là. La uscita maggioranza ha assestato i colpi più duri al capitalismo ebreo creando la società di assicurazione, le latterie e le cantine sociali, i magazzini agricoli ecc. ecc.: dunque, quella maggioranza non deve rientrare, perché gli ebrei possano ricominciare l’asservimento dei cristiani. La maggioranza cristiano-sociale ha introdotto il Crocifisso nelle scuole, le monache negli ospedali, ha licenziato i maestri socialisti o pangermanisti, dunque tutti quelli che odiano Cristo e i suoi seguaci congiurano alla sua rovina. Che importa ai socialisti se i loro alleati sono proprio i grandi borghesi, i miliardari? Le ossa di Marx abbiano pace! Ora importa vincere nella «rude campagna anticlericale». Il «leader» della democrazia cristiana In questa lotta suprema, disse giorni fa il principe Lichtenstein, la nostra speranza, la nostra fiducia nell’avvenire sono come incarnate in un uomo, che ci è modello per il suo disinteresse, il suo amore al popolo cristiano, il suo coraggio di lottatore invincibile: il d.r. Carlo Lueger! Infatti tutti gli sguardi sono rivolti a lui: ed egli sente che il momento è solenne, ed ora più che mai consacrerà alla causa cristiana tutte le forze, tutta la sua ammirabile strategia, la sua eloquenza, la sua fama e popolarità di venti anni di lavoro. La sera, magari dopo fatiche eccessive che gli porta il suo posto di borgomastro, riprende il suo cappello a cencio, il suo vecchio Havelock e compare in due, tre anche più comizi popolari. La sua attività in questi giorni si può appena paragonare a quella di Roosvelt che attraversa gli Stati Uniti tenendo il suo discorso elettorale in tutte le stazioni del suo treno-tribuna. Il Lueger si sceglie i posti più pericolosi e più difficili. In tali occasioni si potè vedere di quanti amori e quanti odi sia oggetto quest’uomo. A Moedling p. e. quando comparve in un salone stipato da 2500 elettori, immensi furono gli hoch mentre circa 300 della coalizione con le grida di abbasso e con mille schiamazzi tentarono d’ostruire l’adunanza. E la cosa non finì fino che i 300 ad uno ad uno non furono portati fuori dalla porta o dalle finestre. A Wagran alla chiusa di un’adunanza di contadini in cui Lueger aveva parlato, qualcuno venne a dire che lungo la via verso Vienna si erano radunati dei socialisti per insultare Lueger nel ritorno. Fu un grido unanime: andiamo con lui! E i giornali riportano che per un buon tratto di via la carrozza del «terribile» Carlo era accompagnata da circa un migliaio di contadini. Ma quello che parve raggiungere il colmo dell’audacia fu la sua candidatura nel 2° distretto, nella «Judenstadt», collegio nel quale anche nelle ultime elezioni per il Parlamento soccombettero i cristiano sociali. Il generale deve mettersi nel posto più difficile, e Lueger vi si mise, anche a costo di una sconfitta. Sotto il comando di un tal uomo i cristiano sociali si preparano di buon animo alla battaglia. La campagna elettorale È incominciata si può dire già da un anno e la cerchia di agitazione si è venuta mano mano restringendo dalla campagna alla città. In campagna ordinano le mosse il professore di Seminario D.r Scheicher, il decano Kühsehelm, in città il d.r Gessmann e il principe Lichtenstein, il second’uomo del partito, il quale potè finire ier l’altro un discorso ai suoi elettori così: Ho la coscienza di meritare la vostra fiducia: i miei compagni di studio o d’età sono diventati tutti generali o ambasciatori: io da trent’anni ho difeso e promosso la vostra causa! L’azione fuori di Vienna raggiunse la sua massima intensità nel congresso cristiano-sociale, che fu tenuto proprio nel centro della coalizione. Fu una delle mosse più ardite e riuscite di Lueger. I treni straordinari, come sapete, partirono domenica da Vienna verso S. Poelten con circa 4000 viennesi salutati da altrettanti che erano appostati lungo la linea e dai soldati in consegna nelle caserme, i quali fecero una rumorosa ovazione a Lueger. A S. Poelten la scena si cambiò e un 400 fra «sozi» e Voelkiani assordivano cogli «abbasso» e le minacce. La cosa si faceva seria perché contemporaneamente dalla campagna parecchie migliaia di contadini invadevano la città dall’altra parte e se non fosse stata la precisa parola d’ordine dei cristianosociali di non rispondere alle provocazioni degli avversari e l’intervento di una cinquantina di gendarmi e di varie compagnie di soldati, quel giorno si sarebbe sparso sangue. Così a dispetto del partito che domina a S. Poelten il congresso si poté tenere, e circa 10000 persone intervennero all’adunanza a cielo aperto. Sarebbe interessante registrare tutte le menzogne che portarono i giornali avversari su quel congresso. Vi basti il dire che l’Alto Adige e il Popolo del nostro congresso cattolico al confronto dissero gloria. Un’altra cosa che interessò gli elettori fu la questione delle liste elettorali in Vienna. A giudizio di tutti gli imparziali quest’anno le liste furono più che mai perfette. Il luogotenente Kielmansegg stesso, a cui i cristiano sociali vogliono tanto bene che gli promettono già, se riavranno le redini in mano, il calcio dell’asino, dovette ammettere che i reclami erano nella maggior parte senza fondamento. Il Popolo ispirandosi all’Arbeiter Zeitung parla di non so quanti morti iscritti nelle liste elettorali. Ufficialmente i casi si riducono a tre, morti appunto mentre si componevano le liste. E che c’è di portentoso? A Vienna ne muoiono parecchi ogni ora. Tuttavia il fatto che il Lueger non permise assolutamente che si copiassero le liste a scopi di agitazione irritò i coalizzati tanto da provocare mezzo scandalo parlamentare. E la risposta di Koerber infuriò la Neue Freie Presse, la quale oggi minaccia di abbandonare il «fido» ministro che questa volta almeno non soddisfece le sue voglie, contro la patente giustizia. Ma lo scopo di tutto è probabilmente il poter avere in riserva una scusa ed un’accusa in caso di una disfatta. Se i cristiano sociali vincono avranno vinto imbrogliando se perdono... allora perdono malgrado i brogli. Chi vincerà? Impossibile farsi un’idea chiara della situazione. Tutto dipende dai contadini. Se essi votano, la vittoria sarà ancora per i cristiano-sociali. Ma se il tempo è bello i contadini non vanno alle urne, ma piamente dietro l’aratro. Dunque «ut pluviat»? Certo è che se anche i cristiano-sociali resteranno in minoranza, si rinnoverà la vittoria di Pirro. Disse Lueger nel congresso di S. Poelten: «Io non faccio previsioni: nemo propheta in patria sua; in questi ultimi giorni io parlerò ancora più frequente al popolo e non ristarò fino che non risorgerà tutto contro i suoi nemici morali e materiali, e poi vedremo l’esito. Una cosa è certa che i nostri nemici non godranno della vittoria. La lotta tenace che conduciamo ora la continueremo anche alla Camera fino che il popolo non avrà più né oppressori, né corruttori.» Fortis |
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| 01901-1905
| Vienna, 6 Pubblichiamo con piacere questo articolo del nostro Fortis, il quale compie quanto abbiamo già scritto in argomento rilevando nuove cause della vittoria cristiano-sociale in Vienna e traendone con tatto pratico ammaestramenti anche per noi. L’ampiezza della vittoria – Cause esterne ed interne – Nota pratica. Un anno di agitazioni e di lotta impegnata vivissimamente su tutta la linea, si è chiusa ieri con una vittoria provvidenziale. I cristiano-sociali entrano nella Dieta con una grande maggioranza, anche considerando perduti i candidati in ballottaggio; il che non è probabile. Mai fu celebrata una vittoria elettorale con più ragione de questa, che distrusse per sempre le speranze dei forti avversari coalizzati, che giunse inaspettata – nella sua pienezza – persino ai vincitori. Il Lueger stesso la dichiarò un terribile giudizio di Dio. Cadde infatti per la prima volta la rocca antica del liberalismo, la città interna, la City, il cuore di Vienna; e chi vuole comprendere tutta l’ampiezza di questa vittoria legga la Neue Freie Presse, che nel giorno delle elezioni incitava i suoi alla lotta, gridando che la perdita di quel distretto, ove sono le grandi banche, gli empori, i tribunali, la Corte ecc. sarebbe una grande vergogna di fronte a tutto il mondo civile. Ebbene in quel distretto spuntarono con grande maggioranza sei deputati schiettamente cattolici. Nella Leopoldstadt il Lueger trionfò sui socialisti e gli ebrei coalizzati (Ellenbogen, Jordan) con quasi 4000 voti di maggioranza, il principe Lichtenstein battè nell’Ottakring, distretto operaio, il socialista ebreo David; perfino in Favoriten l’Adler venne in ballottaggio. E così nella futura Dieta i liberali sono ridotti ai rappresentanti della Camera di Commercio e del grande possesso, i tedeschi popolari a pochi mandati della città di Provincia, decapitati però del capo Kienmann; i socialisti al deputato di Florisdorf; i politici sociali, fra i quali il celebre prof. Philippovich, e i pantedeschi scompaiono totalmente dalla scena. Chi si domanderà ora, a campagna quasi finita, quali furono le cause di un esito tanto lieto per i cattolici, troverà che esse sono di due specie: esterne ed interne. Anzitutto la splendida organizzazione del partito cristiano sociale, che abbraccia tutti i ceti, tutti gli strati della popolazione e il contatto continuo che i deputati tengono cogli elettori; poi l’ammirabile disciplina di partito, per la quale alla vigilia delle elezioni si assopirono tutte le questioni interne come per incanto. Alla vittoria contribuì poi grandemente la stampa liberale che stomacò tutti coll’immenso cumulo di fango che gettò contro gli uomini coraggiosi e indipendenti: i cristiano sociali accettarono la sfida, e lavorarono con una agitazione sempre più intensa (il Gessmann solo in questi quattro mesi diresse circa centoventi comizi) e nei giorni della decisione tutti andarono alle urne, dall’ottuagenario Cardinale arcivescovo all’ultimo facchino. E metteremo anche fra le cause esterne l’avere questo partito alla testa uomini come un Lueger, un Lichtenstein, un Gessmann, un Pattal. Tutto ciò sarebbe forse una spiegazione bastante per chi guarda le cose solo superficialmente, sempre però una spiegazione più convincente quella che dava il corrispondente dell’Alto Adige quando annunziava che Vienna voterebbe per i cristiano sociali, motivando: «le capitali amano distinguersi dalle altre città: Parigi è nazionalista, Vienna è cristiano sociale.» Noi però faremo cosa utile a studiare le molle interne della macchina luegeriana. Risaliamo un pochino all’insù per gli anni del secolo XIX. Vi fu un tempo in cui il popolo cristiano sembrò preso dal delirio, e vibrava in tutte le fibre del corpo sociale lo spirito rivoluzionario, rinnegatore di qualunque passato, e un grande rappresentante della coltura moderna, Victor Hugo cantava Grâce à toi, progrès saint, la Révolution Vibre aujourd’hui dans l’air, dans les voix, dans le livre. Ma quando la «Giovane Europa» conquistò dalle barricate la vita politica, trovò che l’ebreo Carlo Marx aveva già sconvolto la sociologia ed aveva già fondato la Lega dei Comunisti, che l’ebreo Lassalle aveva già un esercito in assetto di guerra, che l’ebreo Heine e le colte ebree dominavano già nella letteratura e nel salone, che l’ebreo Willamowitz regnava nell’industria libraria editrice e che una pleiade di professori ebrei avevano già conquistato la cattedra della scienza. Così la giovane borghesia, giunta dopo tanti stenti al potere, si trovò allato, se non dappertutto sopra i semiti, i quali si industriavano di soggiogarla, come nel medio evo avevano saputo regnare nelle corti dei principi. E vi riuscirono materialmente e spiritualmente. Le borse e le banche e la stampa, seppero tirarle nelle loro mani: il popolo pagava e credeva, e una grande maggioranza era schiava di una piccola minoranza. Questo stato di cose si manifestava, com’è naturale in tutta la sua gravità nelle grandi città capitali. E qui incominciò anche la reazione. Una dopo l’altra tutte le capitali – fuori che Roma – tentarono la riscossa: ma a Budapest con poco esito; Berlino cadde ben presto – restavano Parigi e Vienna. Parigi resistette splendidamente anche nelle ultime elezioni; quindi tutta l’influenza materiale e morale dell’Alliance Israélite si buttò su Vienna. Qui le elezioni ebbero perciò un’importanza mondiale. Ma qui anche gli ebrei si trovarono di fronte ad uomini integri e coraggiosi, che illuminarono il popolo e gli fecero comprendere tutta l’importanza del momento. E la coscienza di questo momento, il timore che l’ebreo non rialzasse il capo, fu una molla potente che spinse i cristiani alle urne. Ma c’è di più. Lueger quand’era sorto ed aveva chiamato alla riscossa tutto il popolo cristiano (è la sua frase prediletta) gridando: Fuori gli ebrei! si era opposto: Ma voi diventerete clericali? Ma egli disse: Ecco: per ora non parliamone! prima buttiamo fuori di casa nostra gli ebrei, e poi discuteremo. Ma vedi meraviglia! Scacciati dai pubblici poteri gli ebrei e i loro schiavi, liberali, combattuto l’influsso della stampa e dei teatri, continuando dall’altra parte il benefico influsso delle chiese e degli oratori ecclesiastici, gli antisemiti restarono di per sé quasi fino ad uno, buoni cristiani, lavorarono assieme col prete nella vita pubblica, combatterono per l’integrità della Chiesa contro il los vom Rom, per la scuola confessionale, per la revisione delle leggi scolastiche, per la famiglia cristiana. E chi volesse persuadersi di questo successo del piano dei cristiano-sociali – attraverso l’antisemitismo al cattolicismo – osservi oltre i già noti campioni i nuovi eletti ora nel primo distretto come un Baeclé, un Porzer, vicepresidente dello Schulverein cattolico, oppure vada nelle grandi adunanze ed avrà agio di osservare l’immenso entusiasmo del popolo per la sua religione. Ora l’assalto di tutti i partiti a quanto vi ha di più caro, la coscienza che si trattava di un conflitto fra Cattolicismo e Acattolicismo fu la seconda molla che spinse i cattolici alla vittoria. Ma c’è dell’altro. I partiti che sono semplicemente «reazione», per quanto sia buona la loro causa, non hanno in sé che l’energia di un periodo di storia relativamente breve. Ora il partito cristiano sociale è reazione all’antisemitismo, ma è azione positiva nell’indirizzo sociale. Esso è anzitutto sinceramente democratico e rappresenta gli interessi di tutte le classi. Fra i deputati trovate contadini, lavoratori, bottegai, piccoli industriali, maestri, professori, preti, avvocati. In questa maniera il partito ha potuto prestare, come sapete, vantaggi enormi al popolo, e il popolo ha avuto quindi un motivo di più per dar ragione anche questa volta colla scheda elettorale al Lueger. Notate ancora questo. In Vienna i cristiano-sociali appariscono come un partito progressista sì, ma ad un tempo continuatore di una storia gloriosa. Infatti, mentre i liberali non possono richiamarsi che fino al marzo del ’48, i democratici cristiani si appellano a tutto un evo di storia, e niente più sprona i Viennesi a schiacciare i nemici del cristianesimo, del ricordo degli antichi trionfi sui nemici dei cristiani nel 1683 , ed immenso è il loro entusiasmo quando il principe Lichtenstein rammenta loro che l’Austria deve restare cattolica, poichè essa fu fondata da un povero conte svizzero, proprio quand’egli smontò da cavallo per cedere il posto ad un sacerdote che portava il SS. Sacramento. Chi conosce un po’ della psicologia delle folle – direbbe il Sighele – converrà meco, quando asserisco che la continuità storica ha nell’evoluzione dei partiti una grande importanza; essa assicura nel caso nostro duraturi trionfi alla causa. E così gli ebrei sederanno ancora un pezzo sulle rive del fiume... Danubio, lamentando sulla città perduta, e l’uomo provvidenziale legherà fino alla morte la vittoria alla sua bandiera... e a voi, amici, lascierei volentieri il compito di seguire un buon esempio dato, e di applicare – mutatis mutandis – agli stessi mali gli stessi rimedi, se proprio oggi e dopo questa meditazione non mi piacesse ripetere una cosa che sanno tutti, ma che bisogna sapere sempre meglio. Nel trentino stanno di fronte a noi i socialisti – i giannizzeri dei liberali – ed ora gli... organizzatori della «democratica». Dei primi abbiamo, anche i più giovani, fatto la storia assieme; i secondi sono vecchi impenitenti, ribattezzati con un nome che contiene una contraddizione in terminis, affastellati in una Lega che vorrebbe esser nuova, ma tisica larva sdentata ritinta giovane di vecchia data. Ora noi soli abbiamo nello spirito del cristianesimo un’eterna giovinezza, noi soli abbiamo un programma di riforme intellettuali e sociali in consonanza alla realtà della vita, noi soli infine ci possiamo presentare come gli eredi e i continuatori di tutta un’epoca gloriosa che fu il Trentino cattolico. Ebbene, non basta avere delle idee, bisogna anche agitarle. C’è fra noi ormai tutta una generazione di giovani venuti troppo tardi per poter assistere alle epiche lotte di principio combattute anni fa; c’è fra noi una grande massa d’incoscienti che non oltrepassarono mai i limiti d’una sequela cieca; ebbene: a questi ed a quelli dobbiamo gridare e dire ancora, e sulla stampa, e nei circoli e nelle società operaie, perché noi combattiamo, chi siamo e che cosa vogliamo, non curando se qualcuno si annoierà – leggendo, per esempio, questa mia. Pensiamo ai giovani che devono divenire il sale del partito e che vogliono idee e discussioni di idee. E in quanto al programma, mi si permetta di fare una proposta. Anzitutto osservo che sotto questa parola io non intendo un complesso minuzioso di idee politiche o strettamente d’indole amministrativa – questo è cosa di una società politica. Ma sì piuttosto un complesso di tendenze generali che interessano un partito democraticocristiano in genere, tanto dal lato intellettuale che economico. Ora, non si potrebbe tutte queste tendenze esporle in un libretto popolare che vada per le mani di tutti? Vecchi desideri – direte. Ma non si potrebbe – ripeto io – far questo in un calendario tascabile? Ecco: ancora a Pasqua si radunano alcuni collaboratori: uno studia una questione, l’altro l’altra: municipalismo, contratti del lavoro, riposo festivo, femminismo cristiano, letteratura cristiana, socialismo e democrazia cristiana, alcune questioni politiche generali, come il suffragio universale, rappresentanza proporzionale, ecc. ecc. I collaboratori hanno da sette a otto mesi di tempo, trovano una letteratura amplissima su tutte le questioni, e il loro compito si riduce a darne una idea chiara e netta. Non dovrebbe poi mancare uno squarcio di storia patria che porta l’entusiasmo delle memorie. Non si potrebbe forse combinare questo futuro calendario della democrazia cristiana trentina colla «strenna della cooperazione»? In questa maniera aumenteremo il patrimonio delle idee e infonderemo un po’ di spiritualità nel nostro lavoro, senza che per questo il «calendario» voglia presentare il programma di un partito, ma solo portare un contributo alla discussione. E forse, amici, servirà anche a qualcuno dei propagandisti, nel quale forse penetra l’idea che a fare la propaganda bastino: l’essere dalla parte della ragione, e una buona voce! ... Purchè non si alzi anche contro di me qualcuno, e lanci l’idea che si raccolgano prima i denari per le spese di stampa! Fortis |
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| 01901-1905
| Vienna, 2. Le unioni accademiche cattoliche italiane di Innsbruck e di Vienna, scambiatesi le reciproche discussioni, tenute in separate adunanze circa la questione universitaria, di comune accordo deliberarono un programma d’azione incaricando l’Associazione universitaria triestina a volerlo dettagliatamente formulare e passarlo alla stampa. Il fine dell’azione è il raggiungimento di una università italiana a Trieste. Mezzo precipuo fu ritenuto l’intervento numeroso degli studenti italiani dell’Austria all’Università di Innsbruck. Per favorire il più possibile questo intervento si votarono come più pratici ed opportuni i seguenti mezzi; 1) Adoperarsi direttamente e indirettamente per mezzo dei deputati italiani per il trasferimento ad Innsbruck di stipendi esistenti in altre università o almeno degli stipendi attualmente goduti nelle stesse da studenti italiani. 2) Adoperarsi perché gli stipendi creati da comunità o da enti morali per studenti accademici italiani, sieno condizioni d’ora innanzi alla frequentazione dell’Università di Innsbruck. 3) Eccitare con tutte le forze il Governo e la Provincia a fondare in Innsbruck nuovi stipendi per gli studenti italiani di tutte le facoltà. 4) Procurare altresì che i comuni e gli enti morali italiani passino alla fondazione di stipendi temporanei condizionati come ad 2). 5) Rivolgersi al Governo e con caldo appello a tutti i connazionali, perché efficacemente venga agevolata la dimora degli studenti italiani in Innsbruck, sia riguado alla abitazione (casa degli studenti) sia riguardo al sostentamento. |
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| 01901-1905
| Il popolo giacente nelle tenebre ha veduto gran luce; e la luce s’è levata per coloro che giacevano in sito e ombra di morte (Isaia) «Noi viviamo in un’età misteriosa: dal protestantesimo spirituale di Lutero scaturì la concezione della vita di Kant e Schopenhauer, l’antica eredità della sapienza Indica ci venne per loro mezzo ridonata e il protestantesimo creò lo splendore della nostra poesia e della nostra musica. Tutto ci venne concesso, noi lo vediamo. E potè sembrare che la Fede e la Religione non fossero più necessarie. E tuttavia, ora che la scienza e l’arte dissero l’ultima parola, riappare di nuovo nell’anima moderna un’ansia, uno spirito di ricerca, un’aspirazione verso un cristianesimo più sentito e più semplice» 1). Così parlava non è molto, un celebre professore della storia dell’arte agli studenti di Heidelberg. H. Thode non è isolato: non è che una voce fra molte che risuonano in sul finire del secolo, quando se ne fece il bilancio spirituale. È una voce meno risoluta, meno tragica, come un lamento di questa povera coscienza moderna che cerca, cerca la luce perduta. Tutti gridano che non si può più andare innanzi, tutti gridano all’umanità che precipita nella decadenza: Indietro! ... Ma dove? Schopenhauer, disperato, tuona: Indietro nel Nirvana, nel nulla! Nietzsche: Indietro! nel neopaganesimo del rinascimento... Uno solo di questi veterani che suonano la ritirata ha scosso l’età nostra: Tolstoj. Al suo grido: «Indietro, a Betlemme!» l’umanità si è levata quasi desta da un sonno, come un cavaliere della tavola rotonda al concerto di un corno ben noto, dopo un sonno fatato. E allora si è ricordata «la minima tra i principi di Giuda» in cui «la Vergine concepì e partorì un figliuolo», si è ricordata l’antica legge d’amore, manifestatasi in una povera capanna duemila anni fa... e l’età nostra parve risoluta a portare il suo oro, il suo argento e la sua mirra dinanzi al presepio... Disgraziatamente, i sapienti di oggi non sono i sapienti dell’oriente, custodi di antiche tradizioni, ma educati in una cultura dalle basi false, pieni di pregiudizi contro la Chiesa, non videro splendere in cielo la stella dei Magi, e non ritrovarono la via per Betlemme. Il misticismo anarchico d’un Tolstoi non poteva condurli all’Amore, l’unica stella che può condurre a Cristo – la Chiesa – non vollero vederla. E così gli uomini colti di oggi si dibattono ancora nelle tenebre e nell’ombra, benché la luce si sia levata da un pezzo. Queste le considerazioni tristi che mi avviene di fare alla vigilia di Natale. Tanto più tristi, perché non valgono solo per il popolo tedesco, di cui si faceva interprete fra gli ultimi anche il Thode, ma anche per noi italiani, la nazione che dovrebbe godere più davvicino il bene della luce. Oh! tempi in cui l’arte nostra, interprete di un sentimento profondo, abbelliva l’Italia delle «Madonne col bambino» delle «Mater admirabilis», del Bambino in culla; e le madri vi vedevano un modello da seguire, e la sacra Famiglia di Betlem e di Nazareth regnava incontrastata nella famiglia italiana. Mentre ora sotto gli occhi del Capo della Chiesa, si attenta ai suoi sacri legami! La società che dimentica la gran legge dell’amore, predicata la prima volta nel Presepio, è condannata alla rovina. Ricordate lo specifico per tutti i mali che il buon Goldoni propose ai «Rusteghi» per bocca della «siora Felicita?» Amè, se volè esser amai! È il medesimo consiglio da Pantalone ai nobili nella «Famiglia dell’Antiquario». Ma la voce del poeta si sperdeva senza eco, e la vecchia Repubblica moriva nelle braccia delle dame e dei cavalieri fra gli odi della Rivoluzione, com’era caduta anche l’antica Roma, perché non aveva seguito la parola dell’amore. Ah! ripetiamola amici, questa parola! Noi specialmente che nella lotta quotidiana a corpo a corpo in difesa dei nostri ideali, riferendoci alla Chiesa vi aggiungiamo tanto volentieri l’epiteto «militante». Io penso al Natale come alla gran festa della democrazia cristiana. Quei piccoli paesaggi che mettono assieme con studio i nostri ragazzi con in mezzo la capanna ove pastori e re, poveri e ricchi, si prostrano in un medesimo sentimento dinanzi a un Dio bambino per amore di loro, non è la società ideale, il luminoso ideale, per il quale tutti i democratici-cristiani lavorano? Ebbene, prostriamoci anche noi davanti a questa culla, e se nel nostro cuore ci sarà ancora un qualche resto di un sentimento meno che cristiano, preghiamo: Emitte spiritum tuum et creabuntur et renovabis faciem terrae... E poi su, al lavoro; tendiamo con tutte le forze a far ritornare in questo corpo sociale irrigidito un po’ di quel calore vitale, un po’ di quell’amore di Betlem! Vienna, vigilia. 1) H.Thode, Kunst, Religion und Kultur, Heidelberg 1901. |
DaDoEval
Disclaimer: This dataset is not the official DaDoEval repository from EVALITA. For the official dataset and more information, please visit the EVALITA DaDoEval page and the DaDoEval repository.
Overview
The DaDoEval dataset is a curated collection of 2,759 documents authored by Alcide De Gasperi, spanning the period from 1901 to 1954. Each document in the dataset is manually tagged with its date of issue. This dataset is designed for the temporal classification task, specifically focused on assigning a temporal span to documents. The corpus is divided into a training set and an in-domain test set to facilitate supervised learning approaches. In addition to the primary dataset, a cross-genre out-of-domain test set consisting of approximately 100 letters from the Epistolario project is included.
Sub-tasks:
- Coarse-grained Classification: Assign documents to one of five historical periods in De Gasperi's life.
- Fine-grained Classification: Assign documents to a 5-year temporal slice.
- Year-based Classification: Assign documents to their exact year of publication.
Historical Periods:
The following table outlines the periods defined by historians for the coarse-grained classification task:
Period | Years |
---|---|
Habsburg years | 1901-1918 |
Beginning of political activity | 1919-1926 |
Internal exile | 1927-1942 |
From fascism to the Italian Republic | 1943-1947 |
Building the Italian Republic | 1948-1954 |
Dataset Structure:
id
: A unique identifier for each document.text
: The full text content of the document.year
: The exact year the document was issued.class
: The historical period the document belongs to.year_range
: A 5-year temporal slice indicating the period the document falls into.
Citation
If you use this dataset, please cite the original authors:
@inproceedings{menini2020dadoeval,
title={DaDoEval@ EVALITA 2020: Same-genre and cross-genre dating of historical documents},
author={Menini, Stefano and Moretti, Giovanni and Sprugnoli, Rachele and Tonelli, Sara and others},
booktitle={Proceedings of the Seventh Evaluation Campaign of Natural Language Processing and Speech Tools for Italian. Final Workshop (EVALITA 2020)},
pages={391--397},
year={2020},
organization={Accademia University Press}
}
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